25 aprile e 1 maggio: due date per ricominciare di M.Vigli

Marcello Vigli
Adista Segni Nuovi n.17/2012

Quando nel 1946 in Italia, per iniziativa del primo governo provvisorio, si cominciò a celebrare il 25 aprile come festa della Liberazione e il sindacato tornò ad affermare il primo maggio festa del lavoro, lo Stato non esisteva più, non c’era un sistema produttivo degno di questo nome e la società era ancora sconvolta da vent’anni di dittatura e due anni di guerra civile. Tre anni dopo, il primo governo della neonata Repubblica confermò il 25 aprile come festa nazionale, ma a Milano, al termine di una manifestazione, il corteo antifascista e partigiano fu caricato dalla polizia. Allo stesso modo, mentre il primo maggio le piazze si riempivano di bandiere rosse, nel 1947 la ricorrenza fu funestata a Portella della Ginestra dalla banda di Salvatore Giuliano che sparò su un corteo di lavoratori in festa, uccidendone 11 e ferendone circa 50.

Nel corso dell’anno successivo furono invece le forze dell’ordine ad uccidere 17 lavoratori, ferirne diverse centinaia ed arrestarne 14.573. Ministro degli Interni era il democristiano Mario Scelba, per il quale l’impiego della polizia nelle vertenze sindacali era prassi costante. Nell’era berlusconiana il 25 aprile sembrava tornato ad essere segno di contraddizione, fino al 2009, quando il cavaliere ha deciso di far diventare la celebrazione unitaria un segno di pacificazione. Il primo maggio, invece, sempre più spesso è stato festeggiato dalle tre Confederazioni in città e piazze diverse. E quest’anno?

Il mondo è radicalmente cambiato e, dopo la “morte delle ideologie”, il mercato è diventato l’unico criterio di valutazione nella politica economica nell’Occidente che le aveva prodotte. Ci sono, però, novità nel protagonismo di parte del movimento sindacale impegnato a contrastare il primato del mercato, ma soprattutto nella società sono nate nuove forme di partecipazione politica, che è ingannevole definire “antipolitica”. Rischiano tuttavia di restare velleitarie e finire nel qualunquismo se non si trasformano in forza capace di far pesare questa partecipazione nella scelta delle soluzioni ai problemi posti dalla crisi profonda che sta sconvolgendo la società italiana e i suoi assetti istituzionali.

Non basta perseguire la difesa dei beni comuni se non si istituzionalizza la comunità in grado di definirli e di assicurarne la gestione nell’interesse di tutti. Questo è possibile se tutti sono impegnati a costruire uguaglianza di diritti e democrazia nel governo del Paese: l’autentico bene comune, al cui interno i diversi beni comuni si collocano. Sono decine i movimenti e centinaia i gruppi che, a livello locale e nazionale, oggi fanno politica in modo “nuovo”, fuori dei partiti tradizionali. È necessario, però, che il “nuovo” prenda forma unitaria, perché solo nella convergenza in un soggetto, che ne esprima tutto il potenziale di governo, i soggetti particolari possono sperare di realizzare i loro obiettivi. Non sono necessarie né l’integrazione né la rinuncia alla propria specificità. Non si deve vagheggiare la Terza Repubblica, ma creare strumenti di partecipazione – anche all’insegna delle innovazioni tecnologiche – che premettano finalmente di attuare quella prevista dalla Costituzione.

Usciti da vent’anni di monarchia fascista, gli italiani dovettero inventarsi sia le istituzioni della Repubblica, sia le forme che ne hanno garantito la gestione democratica fin quando questa non fu messa in crisi dall’assassinio di Aldo Moro, che aprì la via all’affermarsi prima del craxismo e poi del berlusconismo. Prezioso strumento furono i Comitati di liberazione (Cln) a livello locale e nazionale. Fu un errore, forse non evitabile, non selezionarne le forze componenti. Per evitarlo oggi bisogna ricordare che non si può costruire democrazia ed uguaglianza con chi persegue il principio di autorità e riduce il lavoro a merce.

La tensione verso i problemi concreti di chi s’impegna a risolverli nell’interesse collettivo e non particolaristico, territoriale o di gruppo, è senza dubbio un criterio funzionale per non rischiare di ripetere quell’errore, sia rifiutando di allearsi con chi si limita alla denuncia verbale della partitocrazia, sia non demonizzando chi fa politica nelle istituzioni perché non sono tutti uguali. È indispensabile, però, che tale tensione sia vissuta in una prospettiva generale: nazionale ed europea, sociale ed istituzionale.