CONCLUSIONI – Il Concilio nelle vostre mani di R.LaValle

CHIESA DI TUTTI, CHIESA DEI POVERI
Assemblea convocata da 104 gruppi ecclesiali, associazioni, riviste a 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, tenutasi il 15 settembre 2012, nell’anniversario del radiomessaggio di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962, nell’Auditorium dell’Istituto Massimo a Roma, capiente di 800 posti, con quasi 1000 partecipanti provenienti da Siracusa, Palermo, Messina, Bari, Napoli, Avellino, Roma, Sulmona, Pratovecchio, Perugia, Firenze, Pistoia, Bologna, Reggio Emilia, Modena, Parma, Udine, Verona, Trento, Brescia, Milano, Voghera, Torino, Cuneo, Cagliari e da molti altri luoghi, presieduta da Rosa Siciliano, introdotta da Rosanna Virgili, con relazioni di Giovanni Turbanti, Carlo Molari, Cettina Militello e conclusioni di Raniero La Valle, con interventi di p. Felice Scalia, s. J., padre Marco Malagola, a nome di mons. Loris Capovilla, Paolo Ricca, Giovanni Franzoni, Alex Zanotelli, Luigi Sandri, Adriana Valerio, Gianni Geraci, il presidente nazionale della FUCI e molti altri

Raniero La Valle
Roma, 15 settembre 2012

Cari Amici,
giunti alla fine, dobbiamo cercare il segreto di questo Convegno. Perché un segreto c’è stato. Non alludo al segreto del suo successo, che più che un successo è stato un miracolo. Alludo al fatto che durante i nostri lavori c’è stato uno sconosciuto che sedeva nell’ultima fila; spesso era una sconosciuta. Voi forse non li avete visti, ma io, dovendo trarre le conclusioni di questa assemblea, ci ho fatto caso. Mi sono chiesto chi potevano essere questo sconosciuto, e questa sconosciuta, che erano là, e che ora, quasi a volerci precedere ai treni, se ne sono andati. E mi sono ricordato che alla fine del vangelo di Giovanni si parla di uno sconosciuto, di cui non si dice mai il nome, ma che è identificato come il discepolo che Gesù amava; e Gesù disse di lui che sarebbe rimasto, fino al suo ritorno. Gli apostoli non capirono, e pensarono che quel discepolo non sarebbe morto, ma Gesù non aveva detto che non sarebbe morto, aveva detto di volere che rimanesse fino a che egli non fosse venuto.

Allora io ho pensato che quel discepolo di Gesù che è rimasto, quel discepolo che è senza nome, quasi a poter avere ogni nome, fosse proprio quello sconosciuto o quella sconosciuta che erano seduti in fondo alla sala. E ho pensato che quello sconosciuto poteva essere ciascuno di noi, anzi che potesse essere questa assemblea stessa, perché noi siamo i discepoli che sono rimasti. Noi non siamo gli apostoli, non siamo gli evangelisti, non siamo i dottori, non siamo dei reduci, noi siamo i discepoli.

La successione dei discepoli

Ma come discepoli, anche noi siamo dentro una successione; non c’è solo la successione apostolica, che da Pietro e dagli altri apostoli arriva fino ai nostri vescovi e al papa: c’è anche una successione laicale, che dai discepoli anonimi che Gesù amava, dal discepolo che è rimasto, è giunta fino a noi; e questa successione discepolare non è meno importante dell’altra, perché anch’essa fa parte della Tradizione che viene da Gesù e che insieme alla Scrittura porta con sé la divina rivelazione e rende attuale per ogni generazione la parola di Dio.

Nella storia cristiana si è a lungo dimenticato come nella tradizione viva della Chiesa ci fosse anche la tradizione trasmessa dai discepoli. Anzi si è dimenticato che senza i discepoli non ci sarebbe alcuna tradizione, non ci sarebbe un popolo di Dio, e non ci sarebbe nemmeno la Chiesa degli apostoli. Senza le discepole venute alla tomba vuota, gli apostoli non avrebbero avuto l’annunzio della resurrezione, perché la spiegazione di quella tomba vuota l’angelo la diede alle donne dicendo: non è qui, è risorto; perciò furono le discepole, Maria di Magdala, Giovanna (di cui nessuno mai si ricorda), l’altra Maria, le prime a fare l’esegesi, e un’esegesi ispirata, quasi “dettata dallo Spirito Santo” per usare una formula del Tridentino, della pietra rotolata dal sepolcro. E fu il discepolo che Gesù amava quello che riconobbe il Signore risorto sulla riva del lago: ed è sulla parola di quel discepolo che Pietro si gettò nelle acque per raggiungere il Maestro (Giov. 21, 7). Senza il discepolo, Pietro non si butta.

E anche ora, se noi non diciamo a Pietro: “Ma è il Concilio!”, lui non lo riconosce, e non si getta in mare. Forse è proprio questo che dovremo fare quest’anno.

Ben sapeva tutto ciò Gregorio Magno che dei fedeli che lo ascoltavano e che lui invitava a interloquire nelle sue omelie, diceva che erano “organi della verità”, “organa veritatis”.

Però nella lunga discussione sulle cosiddette due fonti della Rivelazione, Scrittura e Tradizione, nessuno si era più ricordato di mettere nella Tradizione la parte che vi hanno i discepoli: non il decreto “Sacrosancta” del Concilio di Trento, che parla delle tradizioni apostoliche, scritte e orali, conservate nella Chiesa fino a noi, non la Costituzione “Dei Filius” del Vaticano I, che ne riprende la dottrina, e nemmeno lo schema sulle due fonti della Rivelazione preparato per il Vaticano II (ma non accolto dai Padri) che pur moltiplicando le fonti della Rivelazione non faceva alcun cenno al ruolo dei fedeli. Se ne è ricordato invece il Concilio Vaticano II, che nella “Dei Verbum” al n. 7 accanto agli apostoli che sono il primo anello della Tradizione introduce “gli uomini della cerchia degli apostoli”, cioè gli altri discepoli, e che al n. 8, già qui citato da don Molari, afferma come la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce nella Chiesa con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), con la intelligenza data da una intima esperienza delle cose spirituali, nonché (ma dunque non solamente) per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un sicuro carisma di verità.

Il Concilio fatto per i discepoli

Dunque c’è un ruolo dei discepoli nella formazione e nell’incremento della tradizione apostolica. E siccome il Vaticano II è stato un momento privilegiato nella storia di questa Tradizione ecclesiale, la domanda è quale parte noi discepoli abbiamo avuto nel Concilio e quale ruolo abbiamo adesso nella sua ricezione e trasmissione. La nostra assemblea nasce da qui.

Ora, la prima cosa da dire è che il Concilio è stato fatto per noi. Significa questo la decisione di papa Giovanni di farne un Concilio pastorale, cioè tale per cui i discepoli e tutti gli altri potessero capire e crescere nella fede. Se si fosse trattato di riprendere le dispute e ripetere le dottrine espresse dai precedenti Concili, non ci sarebbe stato bisogno di un nuovo Concilio, disse Giovanni XXIII nel suo discorso inaugurale, “Gaudet Mater Ecclesia”. Occorreva invece che i contenuti della fede venissero esplorati ed espressi nelle forme e secondo la cultura degli uomini del nostro tempo, “nel modo che i nostri tempi richiedono” , come dice il testo pronunciato dal papa in latino. La Chiesa doveva farsi raggiungere, come se venisse fatto oggi, dall’invito di Gesù ad ammaestrare e trarre discepoli da tutte le genti, e farlo in modo per loro comprensibile e amico. Cioè si doveva tornare a raccontare la fede che era stata narrata nei secoli, e che si era andata formando di Concilio in Concilio, da Nicea al Vaticano I; non a caso Giovanni XXIII all’inizio del suo discorso richiamava i venti Concili celebrati “in Oriente e in Occidente, dal quarto secolo al Medioevo, e di là all’epoca moderna”. Quella tradizione conciliare, che si era interrotta con la brusca chiusura del Vaticano I provocata dai bersaglieri entrati a Porta Pia, si trattava ora di riprendere, per ripresentare ai discepoli e a tutti gli uomini la fede della Chiesa accumulatasi nel tempo, la fede di tutti i Concili. Dunque un Concilio che fosse, ai fini pastorali, l’ermeneutica di tutti i Concili.

Il Vaticano Secondo come nuova ermeneutica della fede e dei precedenti Concili

Perciò bisogna stare attenti ora a non sfidare il Vaticano II, perché contrastare il Vaticano II vuol dire mettersi contro tutta la Tradizione. È molto significativo che alla vigilia dell’apertura dei lavori, fosse portata a termine dalla cosiddetta “officina bolognese” di Giuseppe Alberigo e Giuseppe Dossetti e presentata a Giovanni XXIII la raccolta di tutti i decreti conciliari, i “Conciliorum ecumenicorum decreta”, simbolo del fatto che non si trattava di aggiornare un catechismo, ma di rimettere in luce e decodificare per l’uomo di oggi l’intero patrimonio di fede elaborato e tramandato dai Concili, in unità col magistero romano.

Questo intendeva Giovanni XXIII nel suo discorso dell’11 ottobre quando esplicitamente faceva riferimento a Trento e al Vaticano I, non perché il nuovo Concilio ne ripetesse i precetti, ma perché ne facesse l’esegesi, e insieme facesse l’esegesi dell’intero annuncio cristiano, come Gesù aveva fatto l’”esegesi” del Padre. Io capisco la delicata osservazione fatta da Cecilia Militello a proposito delle ermeneutiche del Vaticano II, splendidamente investigate qui da Carlo Molari; ma quello che più conta è l’ermeneutica della fede che nel nuovo contesto storico, certamente innovando, il Vaticano II ha fatto per noi, e che a nostra volta noi dobbiamo trasmettere ai discepoli di domani.

Letti così i più alti documenti del Concilio svelano insospettate ricchezze. La “Dei Verbum” sulla divina rivelazione ad esempio può essere letta come interpretazione autentica di Trento, volta a superare la controversia fuorviante sulla “sola Scriptura”, e a restituire la Bibbia alla Chiesa mettendo la Parola di Dio nelle mani di tutti i fedeli, come parola viva, non più chiusa nella morsa della sola alternativa tra senso letterale e senso allegorico; vi sono altri sensi della Scrittura, noti al Concilio, con cui essa può essere letta e assunta nella vita cristiana..

La “Lumen Gentium” può essere intesa anche come rilettura e integrazione del Vaticano I, quando restituisce il Papa alla Chiesa nella collegialità di pastori e fedeli, sciogliendo l’equivoco della formula oracolare di un pontefice sovrano che parla da sé, e non per il consenso della Chiesa ; ancora, essa può essere letta come inveramento pacificante del Tridentino quando considera sempre dovuta la riforma, e non la controriforma della Chiesa.

La riforma liturgica può essere vista come un rinnovato discernimento della preghiera e del culto, nella centralità dell’eucarestia, per sgravare Dio del “carico di errate preghiere”, come cantava padre Turoldo, e perché la messa non fosse più lo spettacolo di “cento muti e un pazzo”, come si diceva in Sicilia, cioè lo spettacolo di un prete che sussurrava preghiere voltando le spalle ai muti, “chiamati a vivere la loro fede con un puro salto nell’assurdo”, come ricorda Giuseppe Ruggieri nel suo preziosissimo libro appena uscito, “Ritornare al Concilio” , già evocato da Molari..

La “Gaudium et Spes”, poi, può essere compresa come la purificazione della memoria del Concilio di Nicea, fuori da ogni tutela e comando imperiale (come fu il caso di quel primo Concilio convocato da Costantino), in una Chiesa quindi non più costantiniana; la “Gaudium et Spes” è in effetti la Costituzione pastorale di una Chiesa che intrattiene in tutt’altro modo il rapporto col mondo del suo tempo, e che perciò può giungere a riconciliarsi con le libertà, lo Stato e la scienza moderni che la Chiesa tridentina e il magistero romano dell’800, come ci ha spiegato Giovanni Turbanti nella sua bellissima relazione storica, avevano rifiutato per una loro supposta contraddizione col Vangelo. Si può anche dire che la Gaudium et Spes sviluppi Calcedonia, nel suo esito antropologico, quando dice che “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (G. S. n. 22), sigillo, questo, di una radicale unità umana.

L’unità umana! Qui sta l’attualità del Concilio. L’unità umana è infatti l’unica prospettiva possibile per la soluzione della crisi presente. Non diversamente da cinquant’anni fa, la crisi ci interpella oggi in modo pressante. C’è troppo scialo di morte, come diceva padre Turoldo; ma c’è anche troppo scialo di poveri. I poveri crescono in tutto il mondo, perché il sistema non li prevede; se ci sono, esso li lascia cadere; i poveri non sono nei numeri delle agenzie di rating né tra i marchi esibiti dai mercati e, come dice l’Apocalisse, senza il marchio della bestia e il numero del suo nome i poveri non possono né comprare né vendere, cioè non possono vivere. Ai mercati essi non interessano. I mercati non capiscono nemmeno che quanto più si è poveri, tanto meno si comprano le sue merci. Intanto immense ricchezze si formano, e si abbattono come tsunami su popoli interi, la finanza domina, l’economia languisce, i Parlamenti sono sviliti, la politica è attaccata e umiliata, perché è l’ultima diga al dominio universale del denaro. Proprio il Concilio invece ci ha detto che la politica è necessaria; noi oggi ancora non sappiamo come ridarle in mano il governo dei popoli, e per questo siamo in crisi; come discepoli sappiamo però che non c’è soluzione se non acquisendo in prospettiva storica e non solo escatologica l’unità dell’intera famiglia umana; la nuova frontiera è quella di un costituzionalismo universale e di una democrazia mondiale dei popoli; e sappiamo anche che questo non è un problema tecnico né un problema di cattolici o non cattolici, ma è un problema sommamente politico ed è responsabilità di tutti nella varietà delle dottrine, dei progetti e degli strumenti di lotta.

L’ispirazione dei discepoli

Abbiamo detto ciò che il Concilio ha fatto per noi; e se la tesi che qui avanziamo del Vaticano II come ermeneutica della fede e ricapitolazione dei precedenti Concili è fondata, non mi sembra che sarebbe da augurarsi a breve termine un altro Concilio, che potrebbe essere pensato come correzione di questo e bloccherebbe il processo, forse lungo, della sua ricezione nella Chiesa.

Ma i discepoli non sono stati solo i destinatari del Concilio. Ne sono stati anche ispiratori. Certamente i vescovi e il Papa sono stati gli autori e la fonte di autorità delle pronunzie conciliari, ma non si sono vergognati di fare appello al senso dei fedeli, di prenderli sul serio come adulti nella fede. E lo hanno fatto non per seguire le mode, ma perché, come hanno scritto nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, “il popolo santo di Dio partecipa dell’ufficio profetico di Cristo”, perché la totalità dei fedeli, grazie allo Spirito, “non può sbagliarsi nel credere” quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale”, e infine perché il popolo di Dio nell’aderire “alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte, con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita” (L.G. n. 12). Così dei fedeli dice il Concilio. Ed è proprio per riconoscere questo ruolo, vorrei dire questo protagonismo dell’universalità dei credenti, che tra le varie immagini della Chiesa ricordate dalla stessa “Lumen Gentium”, quella che il Concilio privilegia e mette alla base di tutto è l’immagine della Chiesa come popolo di Dio. Non altrettanto serviva a raffigurare la Chiesa l’immagine dell’ovile e del gregge, perché le pecore sono gregarie, non quella della Chiesa come podere o campo di Dio, perché nel campo le radici sono nascoste e il podere produce ma non parla, non l’immagine della casa, perché la casa ospita ma non discerne, non quella del tempio, perché nei santuari di pietra Dio può essere chiuso come in una prigione. Molto più corrisponde all’immaginario dei discepoli di oggi la nozione della Chiesa come popolo di Dio, perché ormai possiamo pensare al popolo come sovrano e non più come suddito, perché il popolo ha radici nel profondo, ma lo si vede, si sa dove sta; il popolo parla, discerne, ascolta, partecipa, è fatto di donne e di uomini, si fa rappresentare e si fa presente esso stesso, il popolo vive in pubblico e ha una sua coscienza segreta. Il popolo di Dio non può essere da meno di ogni altro popolo.

In che cosa dunque i discepoli possono essere considerati ispiratori del Concilio? Quali ne sono i segni, le prove, i sintomi?

La prima cosa che viene in mente è quella della lingua. A meno di non voler sacralizzare il latino, o il greco antico, o l’aramaico, non c’è nessun dogma in gioco nella questione della lingua. Ed era un’evidente istanza dei discepoli che ognuno potesse pregare e credere, che ognuno potesse parlare e fare silenzio nella lingua della madre. La prima rivoluzione del Concilio è stata questa; oggi sembra ovvia, ma le conseguenze, come ha intravisto Karl Rahner, sono incalcolabili, anche riguardo al pluralismo ecclesiale.

La seconda cosa che viene in mente è che nella sua narrazione della fede il Concilio non ha riproposto la dottrina punitiva del peccato originale, nella forma depositata nei catechismi. C’era questa dottrina nello schema preparatorio della Commissione dottrinale, ma il Concilio l’ha lasciata cadere. Non è una dimenticanza, è un’ermeneutica.

In altri modi il Concilio spiega l’universalità e le conseguenze del peccato, mentre afferma con chiarezza che dopo la caduta Dio non abbandonò gli uomini , ma sempre li sostenne con il suo amore e i mezzi di salvezza, in vista di Cristo che era già all’opera prima di Adamo (L.G. n. 2). Per i discepoli di oggi c’era una contraddizione insanabile tra l’essere chiamati da Dio e l’essere stati cacciati lontano da lui; c’era una contraddizione tra il prezioso e ormai anche raro dono del lavoro e la sua irrogazione da parte di Dio come pena, c’era una contraddizione tra la gioia degli amori e dei parti e la loro ricaduta nella maledizione e nel dolore prodotti dal peccato, c’era una contraddizione tra l’accettazione cristiana di sorella morte e la sua esecrazione come pena capitale inflitta da Dio a creature innocenti in ragione dei padri. E’ evidente qui come il Concilio nel tacere sul mito del giardino si sia messo all’ascolto del sensus fidei del popolo di Dio, ciò che non doveva fare invece il successivo catechismo della Chiesa cattolica del 1992 che riesuma quella dottrina, segno di una gerarchia resistente al Vaticano II.

Un’altra prova del ruolo avuto dai fedeli si trae da un documento del 2007 della Commissione Teologica Internazionale, approvato dal Papa Benedetto XVI. Racconta il documento che era stato chiesto da molti che il Concilio sanzionasse come dottrina di fede il principio sostenuto da secoli secondo il quale i bambini morti senza battesimo non vanno in paradiso, non sono ammessi all’incontro con Dio. Dietro quest’idea c’era un postulato importantissimo della teologia preconciliare, quello secondo cui fuori della Chiesa visibile non c’è salvezza, e però solo col battesimo nella Chiesa si può entrare. Per questo Pio XII aveva detto alle ostetriche che dovevano affrettarsi a battezzare i bambini di cui non erano madri, se c’era pericolo di vita e quindi il pericolo oggettivo che quei bambini non fossero salvati. La cosa era tanto più importante perché riguardava non solo i bambini cristiani, ma anche tutti gli adulti non cristiani, tutti i non battezzati. Senza battesimo, niente futuro. Dice ora il documento della Commissione Teologica che “la Commissione Centrale Preparatoria si oppose a tale richiesta, consapevole della necessità di proporre una soluzione che meglio si accordasse con lo sviluppo del sensus fidelium”, e rivela – cito – che “uno dei motivi per cui il Concilio Vaticano II non ha voluto insegnare che i bambini non battezzati sono definitivamente privati della visione di Dio è stato che i vescovi hanno testimoniato che non era questa la fede del loro popolo; non corrispondeva al sensus fidelium”, insomma che le loro Chiese non la pensavano così. Perciò per impulso dei fedeli quella dottrina veniva a cadere, e dalla Commissione teologica internazionale, cinquant’anni dopo, essa veniva declassata a semplice benché autorevole opinione teologica presente nella Chiesa, messa in crisi però e resa obsoleta dalla rinnovata speranza nell’amore universale di Dio per tutti gli esseri umani. “Tutti”, non “molti”. Se non ci fosse stata questa speranza il Concilio non avrebbe potuto fare il suo discorso sulle religioni non cristiane e sulla vocazione alla salvezza di tutti gli uomini di buona volontà.

Un’altra traccia dell’influsso che il vissuto dei discepoli ha avuto sul magistero dei Padri, sta senza dubbio nella rivalutazione conciliare dell’amore umano nel matrimonio. È stato straordinario per noi discepoli vedere una Chiesa celibataria accorgersi finalmente della trascendenza dei nostri amori terreni su ogni ragione strumentale, fosse pure quella eccelsa della procreazione, ammettere che la procreazione non è l’unico fine del matrimonio, riconoscere il valore dell’intima unione e della mutua donazione tra due persone, affermare la dignità e la nobiltà dei sentimenti e gesti di tenerezza che pervadono la vita dei coniugi e integrano un dono che “diventa più perfetto e cresce proprio mediante il generoso suo esercizio”, come dice la Gaudium et Spes (G.S., 48-50).

Ed è proprio il discorso della Chiesa che in tal modo si è mostrato generoso, e non solo verso l’amore umano ancora diffamato negli schemi preparatori, ma verso ogni espressione umana della vita della donna e dell’uomo, nel quadro di un’antropologia positiva che è la vera novità del Concilio. In ciò si può dire che il Concilio è stato teatro di una vera e propria eterogenesi dei fini. Partito per provvedere alla Chiesa e alla sua riforma, è approdato all’antropologia. Dallo strumento di salvezza, agli uomini salvi. L’uomo non è un nulla, non è il giocattolo rotto di Dio, ma ne è la mai revocata immagine.

In realtà sulla riforma della Chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri di partenza e fino ad oggi non sembra andato a buon fine; la Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica; tuttavia, proprio per aver messo i discepoli nel suo cuore, nella sua ispirazione e nei suoi fini, il Concilio ha trovato la sua strada per disegnare una Chiesa nuova, quale ci ha fatto intravedere Cettina Militello con la sua sensibilità di teologa, ha aperto un grande discorso sull’uomo, ha reso fruibile la fede.

Ma se quella, come diceva papa Giovanni e sempre ripete mons. Capovilla, era solo l’aurora, tocca ai discepoli di oggi, tocca a quanti possano trasmettere il messaggio ai discepoli di domani, attraversare il giorno.

Ciascuno con i suoi carismi

Questo dunque ci sembra essere stato il senso di questa nostra assemblea, la sua legittimità, la sua libertà. L’assemblea di una Chiesa non frustrata, ma gioiosa, di quella gioia biblica di cui ci ha parlato all’inizio Rosanna Virgili. I molti contributi di gruppi e comunità che sono stati portati all’assemblea, pur quando criticano, sono dentro questa gioia, dentro questa ricchezza di Chiesa, e perciò la Chiesa stessa non può non gioirne.

È stata la nostra un’assemblea di discepoli che si inserisce nel flusso di quella tradizione della Chiesa, che passa da un Concilio all’altro, da un Papa all’altro, da un vescovo all’altro. Ed è in forza dell’impatto che questa Chiesa dei discepoli ha avuto nella Chiesa del Vaticano II, che noi pensiamo che questo ruolo dei discepoli debba continuare; pensiamo che esso debba essere presente e vivo nella ricezione del Concilio e nella sua trasmissione alle giovani generazioni, alle persone nate dopo il 1965, che non videro il Concilio, a quelle nate dopo il 1981, che secondo le statistiche in gran parte hanno perduto la fede; insomma, come ha auspicato anche mons. Bettazzi, un ruolo dei discepoli di oggi verso la Chiesa e l’umanità di domani.

In questo quadro si pongono le iniziative che prenderemo, insieme o autonomamente, anche per dare continuità e sviluppo al nostro discorso, sia nel quadro di una comunicazione ad ampio raggio come potrebbe essere ad esempio un giornale elettronico o un sito, che qui ci impegniamo a promuovere, sia nel quadro di comunicazioni più ristrette a partire dalle singole Chiese, sia partecipando, come ognuno vorrà e potrà, all’itinerario internazionale che culminerà nel 2015. Ma intanto si avvicina la data in cui avremo da ricordare i cinquant’anni dall’enciclica Pacem in terris, che appartiene anch’essa all’ispirazione e all’anima del Concilio, e ne è un privilegiato strumento interpretativo.

Altre iniziative potranno essere intraprese, tra quelle che oggi sono state suggerite; a tale scopo potrebbe essere anche costituito un coordinamento leggero, per far incontrare sforzi diversi.

I lumi ed il Lume

Cinquant’anni sono solo le prime ore del giorno. Forse siamo arrivati solo al mattutino. Per giungere all’ora sesta, quando finalmente in un’unica luce risplenderanno i lumi accesi dagli uomini nei secoli dei lumi, e il Lumen Gentium, il lume di ogni tempo proclamato dalla Chiesa del Concilio, occorre il concorso di tutti, discepoli, dottori, pastori e maestri.

Ciascuno secondo i suoi carismi e per la sua parte. Perciò noi più anziani diciamo a voi, Chiesa più giovane, a ciascuno per quanto gli compete, “il Concilio è nelle vostre mani”. Ed è soprattutto nelle mani dei poveri. Come ci ha scritto il più anziano tra noi, Arturo Paoli, a proposito di quel contadino senza terra che dopo aver partecipato a una lunga marcia in Argentina per rivendicare il diritto alle terre incolte, alzò il libro dove aveva letto il vangelo del giorno e disse a gran voce: “Questo libro vuole che noi ci sentiamo capaci di realizzare la giustizia in suo nome, stando uniti e lavorando la terra”. Allo stesso modo Giovanni XXIII aveva scritto nel “Giornale dell’anima”: “Al di sopra di tutte le opinioni e i partiti, che agitano e travagliano la società e l’umanità intera, è il Vangelo che si leva. Il papa lo legge e coi vescovi lo commenta” .

Questo, come abbiamo detto oggi, è stato appunto il Concilio: papa e vescovi hanno riletto il Vangelo e l’hanno commentato per noi, in modo che anche in questa età esso potesse giungere a noi. E questa è per noi la Chiesa del Concilio: una Chiesa che alza il Vangelo e dice in suo nome che si devono realizzare la giustizia, la pace, e la salvezza della terra. E questo è ciò che noi dobbiamo intraprendere insieme a tutti i poveri del mondo, facendo nostra la parola di Dio comunicata ad Ezechiele: “L’ho detto e lo farò”. Diremo e faremo.