Natale, Santa Famiglia, Maria madre di Dio, Epifania… quattro commenti di A.Cavadi

Augusto Cavadi (*)
Adista n. 45/2012
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La Verità dell’amore gratuito
ANNO C-25 dicembre 2012-Natale del Signore Is 52,7-10 Sal 97 Eb 1,1-6 Gv 1,1-18

Sin dagli inizi il cristianesimo è segnato da un paradosso. Il seme è la parola di un profeta ambulante nella periferia dell’Impero romano: se fosse rimasto tale, non avrebbe perduto la sua semplicità adamantina originaria; ma non avrebbe portato, neppure, frutti nella storia. Così da venti secoli – e chi sa per quanto tempo ancora – il cristiano è felicemente condannato alla dialettica fra fedeltà e creatività: fedeltà ad una purissima testimonianza sorgiva, creatività che traduca quel vulnerabile germoglio in categorie culturali sempre nuove, senza tradirne la sostanza.

L’autore del Vangelo secondo Giovanni è tra i primi credenti ad imbarcarsi nell’impresa pressocché disperata: raccontare la novità messianica a un pubblico molto più ampio, e raffinato, degli abitanti del fazzoletto palestinese. Ed eccolo allora abbandonare l’universo simbolico della tradizione midrashica, popolato di angeli e pecorelle, di sovrani orientali e di asini mediterranei, per provare ad assumere le forme di pensiero e di linguaggio dei greci (e dei loro ammiratori): «In principio la Parola era; la Parola era alla presenza di Dio, e la Parola era Dio. Essa era presente con Dio in principio. […] E la Parola si fece carne e abitò fra noi. E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria d’Unigenito che viene dal Padre, pieno di amore fedele» (1,1-2;14).

È, forse, il prodotto di questa inculturazione meno poetico, meno toccante, dei racconti della nascita secondo altri evangelisti? Non saprei. A me riesce commovente questa mossa d’inserire il fatto cristiano in una storia molto più antica e molto più ampia: la storia della ricerca di un Senso delle cose da parte dell’umanità. Nel lontano oriente il Tao; nel vicino oriente la Torah; presso i greci il Logos: nomi diversi per indicare quel Principio radicale, e luminoso, che – con un sinonimo ormai logoro – potremmo anche chiamare Verità. Una Verità che – specificherà il medesimo testo evangelico – non è una costellazione di idee più o meno organicamente concatenate, ma Via da percorrere e Vita da sperimentare. Che cosa sarebbe l’esistenza, individuale e collettiva, se questa Parola costitutiva dell’universo e della storia non esistesse (fosse solo la proiezione chimerica di un desiderio) o restasse del tutto e per sempre, irrimediabilmente, inattingibile? Ce lo ha spiegato Nietzsche, un pensatore col quale la modernità cede il passo alla contemporaneità: «In principio era l’Assurdo; l’Assurdo era presso Dio, anzi era Dio. Questa la parodia più seria che io abbia mai udito». Se un Senso originario, prima della fondazione di ogni mondo, non fosse, l’universo sarebbe solo un grande deserto senza luna e senza stelle.

Ma l’angoscia davanti allo scenario nichilistico è un motivo sufficiente per asserire, al contrario, che tutto viene dalla Luce e tutto va verso la Luce? In sede di ricerca razionale non basta. Una tesi non può essere preferita ad altre solo perché più confortante. Ma il Vangelo, appunto, non è una filosofia (anche se può ispirarne, e ne ha ispirato, tante): è un’intuizione fiduciosa. Esso attesta che degli uomini e delle donne, in cerca come noi del Senso, hanno intravisto nelle parole e nei gesti – soprattutto nel modo di donare lo spirito vitale – di Gesù di Nazareth uno spiraglio nel grande buio che ci circonda. Non perché questo Maestro avesse segreti metafisici da rivelare, ma perché – attraversando come noi e prima di noi l’angoscia del Nulla – si è intestardito a servire. Senza condizioni e senza riserve. Nella sua vita e nella sua morte una Luce rifulse nelle tenebre (e nessuna pagina del Vangelo ci obbliga ad escludere che abbia avuto modo di risplendere anche prima, dopo e in altri luoghi): la luce dell’agape, l’agape che è luce. Natale è tante cose, ma non sarebbe tutte queste cose se non fosse – prima di tutto ed essenzialmente – l’interiorizzazione di un’intuizione (e la decisione conseguente di tradurle operativamente): che l’amore gratuito è il senso dell’esistere. Che il vero amore della sapienza è la sapienza dell’amore.

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La Santa famiglia e l’educazione alla libertà
ANNO C-30 dicembre 2012-Santa famiglia 1Sam 1,20-22.24-28 Sal 83 1Gv 3,1-2.21-24 Lc 2,41-52

A prima vista, la festività odierna presenta qualche aspetto paradossale: viene offerto, a modello delle famiglie, una famiglia in cui – secondo la dogmatica cattolica – il padre (Giuseppe) non è vero padre, la moglie (Maria) non è vera moglie e il figlio (Gesù), in quanto persona divina, pre-esiste da sempre ai genitori. Per fortuna – direi meglio: per grazia di Dio – i Vangeli non chiedono di accettare queste acrobazie teologiche, o per lo meno non di accettarle letteralmente come informazioni oggettive. La pericope odierna, poi, scorre su un registro estremamente realistico: vi si respira un’aria molto terrena, non priva di particolari imbarazzanti.

Imbarazzante, infatti, risulta – agli occhi di una certa retorica familistica che vede in Gesù adolescente il prototipo del ragazzino docile come una marionetta al volere dei genitori – la sua decisione di eclissarsi senza permesso dalla comitiva per sedersi nel tempio, «in mezzo ai maestri della Legge», ad ascoltarli e a interrogarli. Non meno spiazzante la giustificazione, che Luca mette sulle sue labbra, alle rimostranze della madre angosciata: «Non sapevate che mi devo occupare di ciò che appartiene al Padre mio?». Catechesi e omelie sono zeppe di esortazioni ad obbedire, a rispettare le regole, ad attenersi ai propri ruoli: ma questa “legalità”, alla luce del messaggio evangelico, è un valore ultimo? O non è piuttosto subordinato alla qualità dei comandi e dei divieti, alla sensatezza delle norme positive? Brani come quello odierno ci delineano una teologia della contestazione non meno che dell’obbedienza; del dissenso critico non meno che del consenso abitudinario. Sono in un certo senso il fondamento biblico di battaglie, quali l’obiezione di coscienza al servizio militare (ricordiamo don Milani ed il suo L’obbedienza non è più una virtù), che la Chiesa istituzionale troppo spesso trascura. Quando addirittura non le contrasta.

Se la “sacra” famiglia non rientra negli stereotipi del “Mulino bianco”, ma vive – come tutte le famiglie vere, effettive – relazioni complicate, tensioni dialettiche, momenti di intesa e di incomprensione, tutto ciò non toglie meriti a nessuno. Anzi, rende ancor più ammirevoli i suoi componenti. Provo a spiegarmi prendendo a prestito le fila argomentative di una maestra, personalmente agnostica, che mi è molto cara. Gesù – sin da ragazzo e ancor più nettamente da adulto – si dimostra un soggetto autonomo, capace di opinioni anticonvenzionali, determinato ad incarnare nella quotidianità i suoi ideali: una simile personalità emerge come un fiore nel deserto? O non è piuttosto il frutto e il sintomo di un’educazione sapiente? Uomini e donne oscillanti fra passività e ribellismo sono il prodotto di quella che Alice Miller denomina «pedagogia nera»: una pedagogia repressiva, autoritaria senza autorevolezza, umiliante.

Il Nazareno, né remissivo (segue ciò che gli sembra la volontà divina su di lui), né sterilmente arrogante (a missione compiuta, riprende docilmente il suo posto all’interno della struttura familiare), è la prova più eloquente di essere stato educato con tatto, con intelligenza, con amorevole delicatezza. Il carattere di Gesù è il motivo più serio della nostra ammirazione verso i suoi genitori. Giuseppe e Maria, di cui così poco sappiamo dal punto di vista biografico, meritano apprezzamento non per improbabili astinenze sessuali, bensì perché hanno generato e allevato e educato un figlio la cui intelligenza e la cui costruttiva intraprendenza sono state oggetto di stupore da parte dei dottori del tempo. Imitarli significa interrogarsi ogni giorno se, verso i nostri figli ed alunni, riusciamo a testimoniare lo stesso mix di fermezza e di comprensione, di propositività e di libertà. Solo così le nostre famiglie – biologiche o di elezione – saranno davvero “sacre” (o, più pertinentemente, “sante”): secondo il progetto originario divino e, perciò, imperfette ma in cammino verso la maturità umana realisticamente accessibile su questa terra.

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La sapienza dei pastori
ANNO C-1 gennaio 2013-Maria madre di Dio Nm 6,22-27 Sal 66 Gal 4,4-7 Lc 2,16-21

Celebrare Maria in quanto “madre di Dio” non è per nulla agevole. Se il cristiano ha attinto dal messaggio di Gesù stesso la passione per la verità, non può fare finta che le formulazioni dogmatiche tradizionali non sono entrate in crisi e non allontanano, anziché avvicinare, la gente all’esperienza di fede. Che significa, infatti, questo titolo mariano? Che una donna ha ospitato nelle viscere un essere unico e ineffabile. Gesù Cristo, infatti, sarebbe la seconda persona della Trinità che, «non cessando di essere ciò che era, ha iniziato ad essere ciò che non era»: continuando a sussistere nella originaria natura divina, avrebbe acquisito anche la natura umana. Il suo “io” sarebbe esclusivamente divino: per miracolo, poi, avrebbe acquistato anche un’intelligenza, una volontà e un corpo umani. Una persona divina, appunto, con due nature: una divina ed una umana.

Approfitto del privilegio di parlare da laico, senza pulpiti e senza cattedre: se le Chiese non sono ancora più spopolate è grazie al fatto che ormai i cattolici non sanno che cosa comporterebbe davvero l’adesione a questo genere di definizioni dogmatiche. Se lo sapessero e fossero messi davanti all’aut-aut (o accettare il koan del Dio-uomo o restare esclusi dalla comunione ecclesiale), la maggior parte resterebbe tagliata fuori. Li salva l’ottavo sacramento: l’ignoranza del catechismo ufficiale. Infatti, anche grazie al silenzio strategico della catechesi ordinaria su questi temi, si può essere ariani senza saperlo e vederselo rinfacciare come una colpa. Intendo – pensando al prete egiziano Ario del IV secolo – che si può credere in Gesù come Dio in senso figurato, metaforico, ma dal punto di vista ontologico veramente ed esclusivamente una persona umana, sia pur illuminata e animata dal soffio dell’Eterno. E che dunque Maria sia stata una donna coinvolta, storicamente e faticosamente, nell’avventura di un figlio – tale nel senso ordinario della parola – che ha identificato la sua causa con il Progetto del Dio d’Israele.

Una simile prospettiva – bollata come eretica, ma statisticamente maggioritaria nella consapevolezza media del popolo di Dio – non attenua in nulla la gratitudine e la devozione verso la madre del Liberatore. Se mai, l’accresce. È più facile, infatti, seguire passo passo un figlio che, in ipotesi, si sa concepito miracolosamente e dotato di poteri soprannaturali o un figlio di cui si conosce l’intrinseca fragilità umana? Se Maria ci viene proposta come modello di fede, ciò è molto più plausibile se ella stessa ha esercitato la fiducia contro ogni evidenza: se non ha maledetto un figlio testardamente proiettato verso il Regno di Dio ma, meritoriamente, gli è stato accanto in vita e in morte.

Il brano evangelico ci svela uno dei segreti di questa fedeltà di Maria: sin dai primi giorni della sua esperienza materna, ha saputo osservare ciò che accadeva al figliuolo e «conservare tutte queste cose meditandole nel suo cuore». Badiamo bene: Luca asserisce questo a proposito di ciò che, «pieni di stupore», avrebbero detto del bambino in fasce dei pastori. Maria è dunque donna di ascolto nel senso più ampio: non si limita ad un ascolto selettivo (ciò che possono dire sapienti stranieri o dottori della Legge locali), ma apre le orecchie della testa, della mente e del cuore anche a categorie sociali considerate marginali (e, sappiamo, anche tendenzialmente peccatrici, perché aduse a eccessiva familiarità con animali).

Forse, oggi come ieri, per capire l’identità di Gesù e il suo messaggio salvifico dobbiamo farci attenti alla voce dei pastori: di chi sperimenta la durezza del lavoro diurno e notturno, lontano dai propri affetti, gratificato da pochi guadagni e molti pregiudizi sociali. Gli impoveriti del pianeta non sono l’unico luogo teologico dove imparare a credere: ma certo costituiscono un luogo imprescindibile. Una relazione con l’Assoluto che voli al di sopra della carne dei fratelli più sfortunati è senza alcun dubbio una relazione illusoria, alienante.

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La caduta dei muri
ANNO C-6 gennaio 2013-Epifania Is 60,1-6 Sal 71 Ef 3,2-3a.5-6 Mt 2,1-12

Ormai che l’esegesi più avvertita ci ha liberato dalle ossessioni storicistiche e concordiste (quali magi? Da quale Oriente? Seguendo quale costellazione stellare?), possiamo fruire, in tutto il suo splendore midrashico, di ogni racconto dell’infanzia di Gesù. E lasciarci affascinare, sul piano simbolico e spirituale, dal racconto della manifestazione (tale, come è noto, il significato letterale della parola greca epifania) del Bambino.

Una prima suggestione può essere formulata con un versetto evangelico attribuito a Gesù adulto: «Nessuno è profeta in casa sua». Dio sceglie un messaggero e la prima reazione dei destinatari diretti acquista la forma di una domanda: come possiamo farlo fuori? Dobbiamo però precisare: abbiamo osservato la reazione dei pastori, dei poveri, dei sospettati di vivere nel peccato e nella trasgressione, ed è stata una reazione di accoglienza ammirata e gioiosa. Ora, invece, è la reazione di Erode, di chi ha il potere politico in mano e, con l’acutezza di sguardo dei malvagi, vede in ogni profeta una minaccia mortale. Dunque: non gli esseri umani in generale respingono i consacrati alla diffusione del Regno, ma quelli che non vogliono essere disturbati nelle loro posizioni di privilegio e di dominio.

Una seconda suggestione ci viene dalla condizione sociale di questi viaggiatori misteriosi. Sono maghi: dunque gente che cerca, indaga la natura, sperimenta rimedi medici, inventa strumenti tecnici. Sono un po’ teologi, un po’ matematici, un po’ filosofi, un po’ medici e un po’ ciarlatani: insomma, dei perfetti intellettuali. Ebbene, forse qui Matteo ci vuole dire che dedicarsi, per professione, alla vita intellettuale può costituire una chance preziosa: dipende dall’uso che facciamo della ragione. Essa può chiuderci nella nostra autoreferenzialità, farci crogiolare nella nostra vanità, in perenne contemplazione del nostro ombelico; ma può anche aprire i nostri orizzonti, cercare risposte significative in terre e cultuire assai lontane dalla nostra. L’anti-intellettualismo ecclesiale (che spesso, nella storia, ha tristemente imparentato cattolici e luterani, ortodossi e anglicani, per non parlare di più recenti movimenti evangelicali) non è giustificabile se non come cautela prudenziale: oltre un certo limite, diventa apologia d’ignoranza e idolatria della primitività.

Probabilmente la suggestione più eloquente è però un’altra: questa pagina ci parla di un Cristo destinato non ad un popolo, ma all’intera umanità. È la festa della portata universalistica del rivelarsi del Figlio. La quale valenza può intendersi in due maniere opposte. La prima, predominante ma scorretta, interpreta Gesù di Nazareth come una sorta di forca caudina obbligatoria per tutte le civiltà: chi vuole salvezza, deve passare attraverso l’adesione di fede (esplicita o, per lo meno, implicita alla sua parola). Una seconda interpretazione (poco amata ai vertici gerarchici della Chiesa cattolica, ma sempre più condivisa dai teologi impegnati concretamente nel dialogo con le altre religioni) spiega la funzione universale di Gesù in quanto incarnazione, circoscritta nel tempo e nello spazio, di un Verbo che da sempre parla alle sapienze del pianeta. Egli non è venuto a fondare l’ennesima religione in concorrenza con le altre (precedenti, contemporanee e successive), ma a testimoniare alcuni di quei valori eterni senza i quali non ci sono né religioni valide né società vivibili. Dio parla anche in lui, non solo in lui: e, in lui, parla a tutta l’umanità, non solo a Israele. Chi utilizza questo Bambino per costruire recinti istituzionali, teologie tribali, liturgie esclusive ed escludenti, è solo un manipolatore dei doni dall’Alto.

Nel novantesimo anno dalla nascita di don Ernesto Balducci – che è anche il ventesimo dalla sua morte – questa epifania ci ricorda la dimensione planetaria di ogni autentica esperienza religiosa. Non la festa dei pagani, ma la festa della caduta di ogni muro fra sedicenti cristiani e cosiddetti pagani.

(*) Vive e lavora a Palermo, docente di filosofia e storia, fra i fondatori e gli animatori della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Fra i suoi ultimi libri: “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Milano, 2009) e “Il Dio dei leghisti” (San Paolo, Milano, 2012).    www.augustocavadi.eu