Dramma delle carceri: Napolitano parla di amnistia. E le nostre chiese?

Roberto Davide Papini
www.vociprotestanti.it

Seppur un po’ tardivo, il messaggio alle Camere del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sulla drammatica e vergognosa situazione delle carceri italiane rappresenta un atto importante. Un gesto che dà speranza a chi si batte per il ripristino della legalità e il rispetto dei diritti umani nel pianeta carcerario.

Tardivo perché ormai da anni la situazione è al di là di ogni tollerabilità: celle affollatissime, strutture fatiscenti, organici insufficienti di agenti e operatori, assistenza sanitaria al di sotto degli standard minimi. Il tutto condanna detenuti, agenti ed educatori a condizioni di vita disumane, tassativamente proibite dalla nostra Costituzione oltre che da tutte le possibili convenzioni sui diritti dell’uomo. Lo stesso presidente Napolitano il 28 luglio 2011 aveva definito il tema del sovraffollamento delle carceri “di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Da allora, Napolitano è tornato altre volte sul tema, tuttavia, forse, il messaggio inviato alle Camere ieri poteva (e secondo me, doveva) arrivare prima, come lungamente richiesto dal leader radicale Marco Pannella, certo un alfiere di questa battaglia per ripristinare la legalità e l’umanità nelle carceri. Il nostro indice di sovraffollamento (147 persone per ogni cento posti) è tra i peggiori d’Europa, superato solo da quello della Grecia. Su una capienza regolamentare di 47mila 615 persone, le nostre carceri ne ospitano 64mila 758 (fonte Ministero della giustizia, al 30 settembre). Di questi, tra l’altro, 12mila 333 sono in attesa di primo giudizio, 12mila 302 sono condannati non definitivi.

Tuttavia, meglio tardi che mai e bisogna dare atto che Napolitano è stato efficace, diretto, deciso, ricordando come questa situazione (che ci vede da anni nel mirino della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo) sia intollerabile e umiliante per il nostro Paese. Nel sottolineare l’’urgenza di riforme strutturali della giustizia (già, perché il problema della giustizia è molto più serio, drammaticamente più serio dei problemi giudiziari di Berlusconi) Napolitano ha parlato espressamente della necessità di un “combinato disposto” tra indulto e amnistia per svuotare le celle, alleggerire il carico dei processi e potere, quindi, davvero immaginare di dare vita a riforme strutturali. Sarebbe ipocrita non sapere, tra l’altro, che per il disastroso stato della giustizia in italiana, ogni anno circa 170mila (170mila!!!) processi finiscono con una prescrizione, ovvero con un’amnistia per ricchi, per chi si può permettere buoni avvocati. Certo, serve altro: una vera riforma del sistema, l’eliminazione di assurde leggi che hanno l’effetto di riempire le carceri di poveracci e in generale di persone che in carcere non dovrebbero stare. E tanto altro. Ma indulto e amnistia sono passaggi obbligati e sensati per creare le condizioni di qualsiasi riforma.

A questo punto, preferirei tacere della meschina volgarità di chi subito si è affrettato a dire “e, ma così si evita il carcere a Berlusconi”, perché davvero la pochezza di queste posizioni non merita altra risposta se non quella data dallo stesso Napolitano: “Coloro i quali pongono la questione in questi termini vuol dire che sanno pensare a una sola cosa, hanno un pensiero fisso e se ne fregano degli altri problemi del Paese e della gente. Non sanno quale tragedia è quella delle carceri”. Stop. D’altronde, gli applausi di gran parte del Parlamento e il commento del premier Enrico Letta sulle parole di Napolitano alle Camere (“Un messaggio ineccepibile”) pongono il solito quesito: ma queste persone così convinte di quello che dice il presidente della Repubblica, dov’erano finora? Lasciamo andare e speriamo che qualcosa, in un sussulto di serietà parlamentare, si riesca a combinare di concreto.

Più serio e più interessante, per me, è vedere la cosa dal punto di vista delle chiese cristiane e di quelle riformate in particolare. Va detto che quello del carcere è da sempre un tema che vede sensibilità, attenzione e impegno nelle nostre chiese protestanti. Il Sinodo valdese e metodista del 2011, nel solco di questo impegno, aveva approvato una mozione che sottolineava la drammatica situazione carceraria. Proprio in questi giorni (venerdì 11 ottobre, per l’esattezza) a Firenze ci sarà l’inaugurazione di una struttura assistita della Diaconia valdese fiorentina (per persone in agffidamento ai servizi sociali, in detenzione domiciliare e in permesso premio dal carcere) e si terrà un dibattito sul tema “Dei diritti e delle pene” (ore 18 chiesa battista di Borgo Ognissanti) con il moderatore valdese Eugenio Bernardini, la presidente dell’Opera delle chiese metodiste, Alessandra Trotta, e il presidente dell’Unione delle Chiese battiste in Italia, Raffaele Volpe. Ma si tratta solo di alcune delle tante iniziative che sul tema vengono organizzate da anni e in tutta Italia dalle chiese protestanti. Tuttavia… tuttavia anche nelle ultime prese di posizione (come la mozione su questo tema approvata dal Sinodo valdese e metodista del 2013) sono mancati due termini, proprio quelli pronunciati (finalmente, dico io) da Napolitano: indulto e amnistia. E’ mancato il coraggio di schierarsi su questo fronte che non è più rinviabile e sarebbe bello se adesso, dopo che anche Napolitano ha parlato di questo “combinato disposto”, pure le nostre chiese trovassero questo coraggio. Magari già a partire dall’incontro di venerdì a Firenze.

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Pensare il carcere diversamente

Bruna Iacopino
www.confronti.net

Raccontare il carcere nel nostro paese non è impresa facile. Parlare di carcere significa ormai affrontare i nodi che da anni lo rendono problematico, e che hanno già comportato per l’Italia la condanna della Commissione europea dei diritti dell’uomo. Il sovraffollamento tiene banco, accanto ai suicidi e ai vari richiami istituzionali e non, affinché si trovino delle soluzioni a livello politico in grado di restituire dignità alle migliaia di detenuti le cui condizioni di vita collimano pericolosamente con quel «trattamento disumano e degradante» per il quale saremo nuovamente chiamati a rispondere nel maggio 2014.

Eppure, al di là di qualche timido provvedimento, la cosa non sembra preoccupare in maniera eccessiva la classe politica italiana. L’approvazione del decreto cosiddetto «svuota-carceri» proposto dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, e giudicato dalla stessa «misura insufficiente», ha trovato non pochi ostacoli e forti opposizioni in sede parlamentare da parte di chi gridava allo scandalo, o paventava l’uscita in massa di pericolosi criminali che avrebbero nuovamente invaso le città e minacciato la sicurezza pubblica. E invece i numeri ci dicono che non è ancora abbastanza. Durante una recente visita presso il carcere di Marassi, lo stesso ministro ha tenuto infatti a precisare che ancora molte sono le misure da adottare: in primis la reale messa in opera dello svuota-carceri con il ricorso alle pene alternative per i casi previsti dal decreto, una piena attuazione del regolamento carcerario con il modello «celle aperte», come già sperimentato in diversi istituti, ma non in tutti, e come previsto dal nuovo piano dei circuiti regionali proposto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, una più ampia possibilità di accesso al lavoro anche in condizioni di privazione della libertà personale e, per ultimo, l’edilizia carceraria, che al momento non sembra aver prodotto i risultati previsti…

I problemi dunque permangono e il malessere anche e, troppe volte (quasi sempre), l’informazione dimentica che il carcere è un universo molto più ampio e sfaccettato, dove oltre al dramma, alla sofferenza umana, alla conta dei suicidi, esiste un mondo, fatto anche di realtà ed esperienze positive, progetti che vanno avanti grazie all’impegno dei detenuti e di chi dentro il carcere ci lavora ogni giorno e che se solo venisse meglio raccontato aiuterebbe forse a rendere più ampio e articolato, più umano, il dibattito che ruota attorno alla questione carceraria, sia a livello istituzionale che in seno all’opinione pubblica. Bastano infatti pochi minuti per scoprire che le detenute leccesi hanno confezionato magliette e borse per consentire a Ostuni di tornare a risplendere del suo bianco secolare, oppure che i prodotti destinati alla mensa sociale di Asti sono il frutto del lavoro ormai decennale dei detenuti di Quarto… Piccoli esempi, che servono però a far capire come il carcere sia tante cose e, soprattutto, sia un luogo abitato da uomini e donne che, al di là dei reati che hanno commesso, necessitano di una seconda possibilità. Che deve essere data.

Per meglio raccontare questo pezzo di «mondo dimenticato» ci siamo recati presso l’ufficio del Garante dei detenuti per il Lazio, il primo nominato in Italia, per farci spiegare quanto di «buono» succede, per esempio, nelle carceri laziali, e da lì all’Istituto a custodia attenuata (Icatt) Terza Casa di Rebibbia, dove il sovraffollamento è un’eco lontana e le buone pratiche sono funzionali al percorso trattamentale destinato a detenuti ex tossicodipendenti. Per guardare, almeno una volta, anche l’altra faccia della medaglia.

Uno spaccato sulle carceri laziali

«La regione migliore in assoluto è il Lazio». Angiolo Marroni, primo Garante nominato in Italia, si è stancato di sentir parlare di Bollate come se si trattasse di una cattedrale nel deserto. Buone pratiche ed esempi virtuosi ne esistono molti e lui, che il carcere lo segue da una vita, da anni come Garante regionale, del Lazio appunto, non ha dubbi: «Quando entri nel Lazio – afferma – ti trovi di fronte a esperienze di rilevanza fondamentale: una delle più alte concentrazioni di attività e proposte nell’ambito delle strutture carcerarie, anche grazie al contributo fondamentale dato dalla società civile e dalle istituzioni locali». Positività, ribadisce, potendo contare sulla pluridecennale esperienza a contatto con le carceri in giro per il paese, che si può trovare in molte zone del centro e nord Italia, più difficilmente invece nel sud, «dove il pregiudizio pesa ancora molto rispetto alla dimensione carceraria».

E, difatti, a visionare le attività enucleate nella relazione stilata per il 2012, le carceri del Lazio hanno molto da raccontare, e non solo in termini negativi, ma a partire da quanto è possibile realizzare, non senza sforzi, per dare attuazione ai dettami dell’articolo 27 della Costituzione.

Tra studio e lavoro, una sfida non facile

A spiccare nella panoramica delle attività avviate con successo vi è il progetto Sup (Sistema universitario penitenziario), che ad oggi può contare su 103 detenuti iscritti alle università del Lazio, e che dalla sua nascita, nel 2005/2006, ha visto un incremento pari al 610% di immatricolazioni: un motivo di vanto cui si è aggiunta di recente la sezione della Teledidattica (indicata dal Ministero dell’Interno come best practice) destinata all’insegnamento universitario per i detenuti di alta sicurezza (ad oggi 25 in tutto, più 2 in regime di 41bis) e che consente ad altri detenuti sparsi per l’Italia, in alta sicurezza, di dedicarsi all’istruzione universitaria chiedendo il trasferimento a Rebibbia nuovo complesso. I risultati del progetto alla fine dello scorso anno, con le prime due lauree dietro le sbarre conseguite con il massimo dei voti.

L’importanza della formazione dunque, che però è legata a doppio filo alla necessità del reinserimento nel mondo del lavoro, in carcere prima e fuori successivamente, sebbene la nota dolente continui ad essere rappresentata dalla cronica mancanza di fondi destinata ai progetti.

Tuttavia qualcosa si muove lo stesso e nonostante le difficoltà riescono ad emergere le esperienze positive rappresentate da cooperative di detenuti attive dentro il carcere: è per esempio il caso della Pantacoop, che si occupa della produzione di infissi in alluminio occupa cinque detenuti di Rebibbia penale regolarmente assunti con contratto nazionale e si affianca ad altri progetti partiti più di recente.

Di particolare interesse e delicatezza è il lavoro di informatizzazione dei 140mila fascicoli facenti parte dell’archivio storico del Tribunale di sorveglianza di Roma e del Lazio, lavoro svolto da dodici detenuti e che richiederà ancora un anno e mezzo di tempo per il suo completamento. Mentre un altro gruppo di detenuti, in alta sicurezza, è impegnato a gestire le infrazioni sulle nostre autostrade, elaborando i dati relativi alle targhe dei veicoli per poi trasmetterli, il tutto grazie al progetto telelavoro di Autostrade Spa. Il telelavoro rappresenta in effetti una risorsa facilmente spendibile dentro un carcere: per cui non c’è da meravigliarsi che se un utente chiama il 1254 troverà quasi sicuramente dall’altra parte del filo un detenuto di Rebibbia nuovo complesso pronto a fornire l’informazione desiderata, mentre le detenute di Rebibbia femminile sono alle prese con i contratti della Tre.

Il ruolo delle cooperative, spiega ancora il Garante, è fondamentale sia dentro che fuori dal carcere, con la possibilità di inserimento lavorativo agevolato una volta tornati in libertà e di orientamento al lavoro. Attualmente, nel solo Lazio ce ne sono una trentina e sono le uniche che garantiscano una seconda possibilità agli ex detenuti; possibilità che non viene offerta da tutti: «La Confindustria, per esempio – sottolinea Marroni – non assume nessuno, assumono le cooperative e gli enti locali. Roma da questo punto di vista si è comportata abbastanza bene».

Operazione «Cesare deve morire»: quando la cultura apre le sbarre

Dopo il grande successo ottenuto al cinema, il film dei fratelli Taviani Cesare deve morire continua a far parlare di sé e lo fa grazie ad un progetto che ha visto coinvolti gli istituti di pena e gli istituti scolastici dell’intera regione. «Si tratta– spiega ancora Marroni – di un progetto molto importante: per mesi siamo andati nei diversi istituti scolastici e nelle carceri di Roma e del Lazio accompagnati da uno dei protagonisti, Cassio nel film… Dopo la proiezione aveva luogo il dibattito, a volte anche molto acceso, e tutti, ragazzi compresi, rimanevano sempre fino alla fine per stare a sentire quello che si stava dicendo. Perché a parlare era uno che il carcere se l’è fatto». Un esperimento di indubbio successo, se ancora adesso continuano ad arrivare decine di richieste da parte di altre scuole e che porta inevitabilmente a focalizzare l’attenzione sul ruolo svolto dalla cultura e dal teatro come mezzo espressivo all’interno delle carceri. Difatti, come ribadiscono anche dall’ufficio del Garante, compagnie teatrali sono sparpagliate all’interno dei vari istituti laziali: quattro nel solo Rebibbia nuovo complesso, ma anche a Latina, Cassino, Tarquinia, Viterbo. Vi si svolgono laboratori, si mettono in scena spettacoli.

E accanto si colloca l’attività artistica e artigianale: nel corso del 2012, per esempio, hanno visto la luce i foulard decorati a mano dalle detenute di Rebibbia femminile. Cultura per esprimersi, cultura che aiuta a superare l’isolamento delle sbarre, anche attraverso la scrittura creativa con la pubblicazione finale di racconti e romanzi e che, nei piani del Garante, potrebbe un domani annoverare un progetto di counseling filosofico ad uso e consumo di detenuti e operatori. Una nota a margine, infine, per l’attività sportiva soprattutto quando riesce a coinvolgere detenuti e polizia penitenziaria insieme.

Carcere e autogestione

«Perchè nonostante il sovraffollamento non scoppia una rivolta in carcere?». La riflessione arriva a margine della nostra chiacchierata, dove, nonostante gli esempi positivi enucleati, gli aspetti problematici continuano ad avere un peso enorme. «Perché il carcere si autogestisce, soprattutto di notte». Marroni ne è convinto e ne spiega anche il motivo: «Il sistema italiano è un sistema premiale (ovvero: riduzione della pena in cambio di buona condotta), quindi a nessun detenuto conviene compromettere la propria posizione… Se questa forma di autogestione arrivasse ad essere generale (modello «celle aperte») e si arrivasse a considerare la cella come propria abitazione, si otterrebbe un carcere modello, tenendo però presente che ci sono altri nodi importanti su cui riflettere: la questione dell’affettività negata, la garanzia della territorialità della pena e il reinserimento sociale che è fondamentale per impedire le forme di recidiva… Ad oggi poi la dimensione del carcere è resa molto più complessa dalla presenza di detenuti stranieri che professano diversi credi religiosi o hanno particolari necessità dietetiche. Questo implica un ulteriore sforzo affinché i principi costituzionali possano essere a pieno rispettati». In merito al rispetto per i diversi credi religiosi la nuova edilizia carceraria ha compiuto un passo avanti, prevedendo la realizzazione di spazi ad hoc per consentire ai non cattolici la libertà di culto.

Ma se la vita dietro le sbarre è dura, lo stesso si può dire per chi torna in libertà o addirittura viene scagionato da ogni accusa a proprio carico… e qui ecco che torna in campo il ruolo cruciale dell’informazione: «Se una persona viene condannata – chiosa Marroni – la cosa rimbalza su tutti i media; lo stesso non avviene quando c’è un’assoluzione, e questo non aiuta di certo… Se io mando un comunicato per denunciare l’ennesimo suicidio ricevo decine di telefonate, se invece racconto di un progetto andato a buon fine, non viene neanche ripreso». Sebbene – e questo va ricordato – esista una nuova carta deontologica interamente dedicata al carcere.

Se il carcere non rieduca

Cosimo Rega, in arte Cassio, dopo 34 anni di carcere può ora beneficiare dell’articolo 21, quello che consente di lavorare all’esterno, e al momento collabora con l’ufficio del Garante. Con due ergastoli sulle spalle, e tre omicidi di cui due da killer, ha deciso di mettersi in gioco, mettendoci la faccia, e con il Garante va in giro per aule scolastiche a parlare con i ragazzi. Quando gli chiedo cosa sia per lui una buona pratica all’interno del carcere si ferma un attimo ed esordisce a partire da una riflessione generale: «Le carceri – dice – in particolare quelle del sud, hanno fornito un dato importante: la criminalità organizzata fuori fa la sua formazione, il carcere dovrebbe, al contrario, fare una sorta di contro-formazione attraverso lo studio, la formazione professionale, la cultura e l’arte in particolare, l’educazione alla legalità… Solo attraverso questi strumenti si può consentire a un individuo che non ha avuto modo di costruirsi una propria struttura sociale la possibilità di poter recuperare. Purtroppo il più delle volte, tranne pochi casi (Roma è un’eccezione), questo non avviene».

Come già per Marroni, anche per Rega la società civile gioca un ruolo fondamentale e per questo il progetto con le scuole, con il film Cesare deve morire, assume una valenza ulteriore. «Il film – spiega – non nasce dall’oggi al domani: è il prodotto di un percorso lungo 15 anni, che sono stati 15 anni di messa in discussione da parte dei detenuti e di lavoro su se stessi. Portando il film nelle scuole – aggiunge – mi sono accorto di alcune cose: ho constatato che i ragazzi vogliono capire e che in loro c’è la sensibilità e la voglia di fare qualcosa perché certi fenomeni vengano sconfitti… ho visto l’interesse per il cambiamento. Con loro ho avuto la conferma che più che l’odio serve la conoscenza e la comprensione, perché essere ghettizzati incattivisce!».

Il carcere, secondo Cosimo Rega, che di esperienza carceraria in giro per l’Italia ne ha a sufficienza, dovrebbe essere un luogo trasparente e non una «continua mortificazione»: «Falcone ha detto cose importanti ma inascoltate: la criminalità organizzata è un fattore umano, per questo – diceva – l’organizzazione non andava combattuta con la repressione… Da questo punto di vista la legge Gozzini, checché ne dicano i detrattori, è stata la salvezza delle carceri: se ai detenuti togli la speranza non hai ottenuto niente. Io credo – aggiunge in maniera provocatoria – che il 41 bis sia solamente un privilegio per i condannati, perché il detenuto ha gli anticorpi per abituarsi a tutto, anche alla sofferenza. E Falcone questo lo aveva già capito».

Eppure in quei ragazzi, visti in giro per le scuole, esiste la speranza del cambiamento: «Ora sto lavorando ad un progetto di gemellaggio tra scuole del nord e del sud, perché anche le scuole giù sono condizionate, il cambiamento deve avvenire attraverso i giovani». Di fondo, dunque, c’è alla base un problema di natura socio-culturale, ma non basta, esiste un problema di natura economica: «La gente – conclude Rega – deve campare… se un ragazzo che sta a Scampia arriva a guadagnare 1.500 euro a settimana per fare il palo, perché dovrebbe accontentarsi di 500 euro al mese per un lavoro onesto?»