Le quote non bastano, ma aiuterebbero di AM.Marlia

Anna Maria Marlia
www.confronti.net

Non pensiamo che si possa costruire una coscienza di genere semplicemente sostenendo la pari presenza numerica nelle liste elettorali. Tuttavia la presenza di un alto numero di donne in Parlamento viene a indicare il riconoscimento di una crescita civile, di responsabilità, di esperienza da parte delle donne; di una loro specifica capacità di proporre cambiamenti e innovazioni relative alla vita della donne, al miglioramento delle condizioni di vita in ambito lavorativo e sociale in genere.

La vicenda che, nel corso della discussione parlamentare, ha contrassegnato il dibattito sulla riforma elettorale ha determinato anche un confronto assai aspro sulle «questioni di genere» che si presta a qualche considerazione che vorremmo ampliare a quante più donne e uomini possibile. La bocciatura sistematica, ottenuta attraverso il ricorso al voto segreto, di tutte le diverse modifiche che avrebbero dovuto garantire una più equa presenza delle donne nelle liste elettorali ha riaperto una discussione che già era stata affrontata all’interno del movimento femminista quando, in diverse circostanze, fu avanzata la proposta di garantire le cosiddette «quote rosa» nelle liste elettorali, ovvero una sostanziale parità di accesso fra uomini e donne nella sfera politica. Per correttezza e completezza di ragionamento, a monte della discussione deve trovare spazio una verifica, nella situazione odierna, della presenza di donne e uomini nelle istituzioni politiche e, in primis, proprio nel Parlamento.

Dal 2001 a oggi, quindi nel lasso di tempo di dodici anni, la presenza delle donne elette è passata dal 10,1% al 30,8%, senza alcuno strumento specifico di tutela. Nel governo appena costituito, le donne ministro sono in pari numero degli uomini ministro. D’altra parte, per avere un confronto su scala europea, nella avanzatissima Svezia la presenza delle donne nella Camera è del 45%, ovvero la percentuale più alta dell’intero continente. Negli Usa, solo per fare un altro confronto, questa percentuale è sensibilmente inferiore. I nostri «numeri» parlamentari ci dicono dunque che siamo sulla strada giusta anche nella società, sul lavoro e nella vita quotidiana? Se diamo uno sguardo alle cronache quotidiane, le smentite sono inequivocabili: percepiamo ancora molto forte un atteggiamento discriminatorio, antifemminile e antifemminista che dal mobbing ai ricatti sessuali negli uffici e nelle fabbriche arriva alle percosse e al femminicidio.

Questi dati oggettivi, apparentemente contraddittori, ci portano a ritenere ancora necessaria e urgente una discussione, che veda prima di tutto le donne in prima linea, per acquisire e comunicare l’importanza della presenza femminile nella gestione della cosa pubblica. È vero che non pensiamo che si possa costruire una coscienza di genere semplicemente sostenendo la pari presenza numerica nelle liste elettorali. Tuttavia la presenza di un alto numero di donne in Parlamento viene a indicare il riconoscimento di una crescita civile, di responsabilità, di esperienza da parte delle donne; di una loro specifica capacità di proporre cambiamenti e innovazioni relative alla vita della donne, al miglioramento delle condizioni di vita in ambito lavorativo e sociale in genere. E quindi una battaglia per l’affermazione di una maggiore e più egualitaria presenza delle donne è ancora storicamente giustificata, anche se essa non si traduce automaticamente in una crescita della coscienza e della necessità dell’uguaglianza uomo-donna. Una battaglia contro la prevalenza maschile nel pubblico e nel privato a cui proprio gli uomini non si rassegnano, utilizzando trasversalmente anche mezzi di dubbia trasparenza come il ricorso al voto segreto. La discussione avvenuta in questi giorni alla Camera è stata quindi utile perché ha messo in piena luce un atteggiamento ostile, motivato dal timore di parte degli uomini di perdere i propri vantaggi, e da un persistente rifiuto di riconoscere una sostanziale parità di genere tra donne e uomini.

Forse, storicamente, sarebbe stato più equilibrato un testo di legge in cui si fosse accettato un numero limite di presenza sia femminile che maschile (ad esempio non meno del 40% e non più del 60% sul totale degli eletti) capace di rispecchiare la duplice presenza nella società, e di riconoscere l’importanza di un confronto costante tra i sessi nella prospettiva di una società più equa. In ogni caso, il lavoro di presa di coscienza deve essere portato avanti anche negli ambienti politici che si definiscono progressisti, in cui la discussione sulla parità di genere è destinata a proseguire anche quando siano state approvate le leggi in Parlamento. E deve proseguire come ricerca di autentico cambiamento capace di coinvolgere strati crescenti della società.

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Rabbia prevista

Giancarla Codrignani
11 marzo 2014

Amiche sempre care,
possiamo essere desolate, ma i presupposti dei femminicidi sono complessi. Pur essendone consapevoli, crediamo ancora che il fidanzato che ci ha dato uno schiaffo sarà un buon marito.
Lo scarto da 335 “no” a 344 (e da 227 “sì” a 214) nel respingere due emendamenti a beneficio del genere segnala che gli uomini non hanno paura della nostra emancipazione ma dell’attentato al loro potere, che incomincia nella coppia e finisce nel diritto.

Purtroppo anche molte giuriste (tutte studiamo sugli stessi libri e applichiamo le stesse leggi) sono d’accordo con la condanna delle “quote rosa”, termine orrendo, non inventato da noi. Prima o poi dovremo fare i conti con l’interpretazione della Costituzione e rivendicare che il “sesso” dell’art. 3 deve essere giuridicamente inteso come “genere” (e i generi sono fondanti di tutte le differenze sociali, non possono esserlo delle discriminazioni attualmente riconosciute in diritto).

Bisognerà affrontare una contraddizione consapevolmente voluta da parlamentari donne e uomini di tutte le parti nel riformare l’art.51, il 7 marzo 2002, quando un voto plebiscitario convalidò l’omaggio alle donne del governo Berlusconi autore della riforma: “la Repubblica favorisce le pari opportunità” per l’accesso alle cariche elettive.

Eh no, mie care: la Repubblica non doveva favorire ma “garantire”, non le pari opportunità, ma i “pari diritti”. Perché, tra l’altro, siamo il 52 % dell’elettorato e la maternità (o la non-maternità) non è ancora un diritto e, anche se la legge ci eroga benefici, siamo percepite come cattivi lavoratori se restiamo incinte. Disgraziatamente gran parte del mondo femminile si riconosce negli stereotipi familisti e mediatici, ignara di essere un “genere” e non una variante biologica.

L’ emendamento respinto con lo scarto aumentato (poi nuovamente abbassato per il terzo emendamento che si accontentava del 60 %) era relativo alle quote per i capilista. Era “il” punto nodale. Infatti il 50/50 di governo non sposta quasi nulla: se una di noi va a Bruxelles a discutere la situazione ucraina, importa poco che sia un ministro o una ministra. Ma è dal basso che si può eliminare il pregiudizio che le donne non votano le donne e incominciare la risalita.

E non partendo dalle preferenze (che possono diventare clientelari, mentre poche donne hanno i mezzi e perfino la voglia delle pratiche mercantili), ma su chi è in testa alle liste. Sarebbero accontentati anche i meritocratici: le donne sono più affidabili per capacità e dedizione. Finora, tuttavia, le grandi città, le regioni, le segreterie di partito sono o maschili o affidate a donne scelte perché stanno dentro il modello neutro.

Quindi brutta giornata quella di ieri. Ma illuminante. Speriamo che il femminicidio cessi, almeno quello istituzionale; per rispetto dello spirito di una Costituzione che deve viaggiare nel tempo accrescendo la democrazia.