Sinodo: arriverà il soffio dello Spirito? di R.Pellegrini

Rita Pellegrini *
Adista Segni Nuovi n. 33 del 27/09/2014

“Fallibilità dell’amore umano nello sguardo di Dio”: sta nel sottotitolo il senso del Convegno “Separati, divorziati, risposati”, organizzato a Bologna il 13 settembre dalla Rete dei Viandanti e dall’omonima associazione, su uno dei temi, che il prossimo Sinodo dei vescovi, dedicato alle “sfide pastorali sulla famiglia”, dovrà affrontare.

Una sfida pastorale dai molti nomi

Il quadro di queste sfide è delineato dall’Instrumentum laboris, a disposizione dei padri sinodali, che si riuniranno a Roma in assemblea straordinaria dal 5 al 19 ottobre prossimo. Molti e diversi sono i nomi delle sfide con le quali si dovrà confrontare il dibatto dell’aula sinodale: convivenze; unioni di fatto; separati, divorziati e risposati; ragazze madri; irregolarità canoniche; accesso ai sacramenti; figli e coloro che restano soli; unioni tra le persone dello stesso sesso; corale mancata applicazione delle indicazioni dell’Humanae Vitae; sfide educative. Così le elenca l’Instrumentum laboris, dedicandovi due terzi delle sue pagine.

Data la complessità dei temi, il vescovo di Roma ha pensato ad un iter sinodale, che già si presenta come un percorso ad ostacoli, con più momenti di confronto. Il primo è stato il Concistoro straordinario del febbraio scorso, davanti al quale il cardinale Kasper ha tenuto l’ormai famosa (per alcuni forse famigerata) relazione “Il Vangelo della famiglia” (v. Adista Notizie nn. 9 e 11/14); un secondo momento è appunto la prossima assemblea straordinaria del Sinodo, con il compito di fare il punto della situazione; infine, la conclusione del percorso, con l’adozione di decisioni, si avrà con una seconda assemblea del Sinodo, questa volta ordinaria, da tenersi nell’ottobre del prossimo anno.

Nella dialettica del Sinodo

In un certo senso, nella dialettica di questo cammino si inserisce anche il convegno bolognese promosso dalla Rete dei Viandanti, che al momento riunisce 25 realtà e riviste (v. Adista Segni Nuovi n. 96/10). Davanti ad un’assemblea di circa 130 partecipanti (tra i quali anche presbiteri ed esponenti di qualche Ufficio famiglia diocesano), quattro esperti hanno approfondito le questioni da altrettanti punti di vista: biblico (Flavio Dalla Vecchia, “Miseria e misericordia”), etico e antropologico (Giannino Piana, “In principio non era così”), liturgico-sacramentale (Andrea Grillo, “Eucarestia: generoso alimento per i deboli”) ed ecumenico con un confronto con la pratica pastorale della Chiesa ortodossa (Basilio Petrà, “Tradizione e vita ecclesiale”).Proprio per dare un contributo al Sinodo il convegno si è concluso con una “Sintesi propositiva a partire dalle relazioni e dal dibattito”, della quale proponiamo qui di seguito ampi stralci.

Attenzione all’esperienza e al cammino di conversione

Lo sguardo alle norme è stato collocato nel contesto antropologico, per cui «è difficile pensare a una indissolubilità assoluta; la storicità propria dell’esperienza umana, la quale comporta il continuo mutamento delle persone e delle relazioni, fa sì che, anche le scelte fatte con le migliori intenzioni e con vero senso di responsabilità, possano nel corso del tempo incrinarsi fino a venir meno»; d’altra parte si osserva che «l’indissolubilità, di cui parlano i vangeli sinottici non è una norma-precetto, cioè una norma chiusa, che obbliga alla piena esecuzione di quanto viene proposto, ma una norma escatologico-profetica, dunque una norma aperta, che delinea un ideale di perfezione e che impegna il credente a un cammino di costante conversione».

Il rischio del discernimento pastorale

Il confronto con la Bibbia, fonte originaria con la quale i cristiani e la Chiesa si debbono sempre misurare, ha proposto un nuovo orizzonte. Nella “Sintesi propositiva” si legge: «Se il rapporto con la testimonianza biblica, si risolve solo nella ricerca di leggi probabilmente si entra in un dibattito infinito, come mostra il fatto che le diverse Chiese hanno ricavato prassi e norme diverse proprio dalla stessa Bibbia. Paolo conosce la parola del Signore, ma non si accontenta di ripeterla meccanicamente, poiché di fronte alla nuova situazione di partner convertiti, che devono convivere con chi non ha abbracciato la fede, egli rischia il discernimento del pastore: “Io Paolo dico…” (1Cor 7). Già le prime generazioni cristiane hanno dovuto trovare degli equilibri tra la prospettiva evangelica e una norma che, se intesa in senso giuridico, può portare a chiudere la porta della salvezza forse in modo irreparabile. Occorre prendere sul serio il fatto che non è mai la legge che determina l’agire di Dio, bensì il suo amore per l’umanità e il creato».

Riconciliare la dottrina con l’esperienza

Partendo dal suggerimento che forniva il cardinale Martini: «La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?», la ricerca di una possibile risposta è stata molto articolata. Innanzitutto, si è detto che non si può ridurre «la “domanda di comunione” ad una domanda di diritti individuali»; «solo una “teoria intersoggettiva del vincolo”, che passi attraverso la coscienza dei soggetti, può essere in grado di offrire una buona soluzione ai “matrimoni falliti”. Non dovremmo più restare prigionieri dell’alternativa “valido-nullo”; nessuno dispone del vincolo, ma i soggetti coinvolti e la Chiesa possono costatare, con opportuna procedura giuridica, che il vincolo è morto»; la Chiesa, infatti «deve “saper tradurre” una dottrina che non è più capace di interpretare la vita, i sentimenti, le speranze e le sofferenze degli uomini e delle donne contemporanei, e nel farlo deve restare certa che la “sostanza della antica dottrina” può e deve assumere altri e nuovi rivestimenti, se vuole restare se stessa», solo così «comunione sacramentale e “un nuovo inizio” non sono contraddittori».

Ha fatto da contrappunto l’intervento scritto inviato da don Giovanni Cereti, «analogamente a quanto si afferma per il mistero eucaristico, si deve affermare che il segno sacramentale è l’amore e la volontà degli sposi di essere marito e moglie, amore che rivela al mondo l’amore di Dio per il suo popolo: ma una volta venuto meno questo amore e questa volontà viene meno il vincolo coniugale e quindi la grazia sacramentale del matrimonio».

Un possibile scambio di doni con i fratelli ortodossi

A conclusione, il confronto con l’esperienza della Chiesa ortodossa ha messo in luce la complessità della prassi orientale e la difficoltà di un semplice trasferimento di modalità alla Chiesa cattolica, ma uno scambio di doni è stato così ipotizzato: «C’è qualcosa che la Chiesa cattolica potrebbe e dovrebbe recepire dall’esperienza della Chiesa ortodossa, almeno nell’ipotesi che voglia conservare una dottrina etica cristiana bimillenaria: le nuove unioni dovrebbero essere pubblicamente (liturgicamente) riconosciute dalla Chiesa come validamente costituite, come accade nelle Chiese ortodosse. Se la Chiesa cattolica accettasse la liceità dell’esercizio della sessualità da parte di coppie, l’unione delle quali non avesse un riconoscimento ecclesiale, opererebbe una grande rivoluzione etico-culturale giacché legherebbe la legittimità della comunione sessuale non al matrimonio ecclesialmente riconosciuto ma all’affetto di tipo coniugale tra due persone».

I promotori proporranno la Sintesi non solo all’attenzione dei padri sinodali italiani e della segreteria del Sinodo, ma anche delle Commissioni Cei per la famiglia, per il laicato e per la liturgia, sapendo, come si è affermato nella relazione biblica, che «lo Spirito soffia oggi come al tempo di Paolo, e chiede a un popolo di Dio, al quale il Concilio ha riconfermato il sensus fidelium, di interrogarsi su alcune prassi che rischiano di impedire in modo definitivo a qualcuno la piena appartenenza al Corpo di Cristo».

* Rete dei Viandanti