La salvezza non viene dalla sofferenza di N.Lisi

Nino Lisi*
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ANNO B – 8 febbraio 2015 – V Domenica del tempo ordinario – Gb 7,1-4.6-7 Sal 146 1Cor 9,16-19.22-23 Mc 1,29-39

Se mai ci fosse bisogno di conferma del fatto che i “testi sacri” sono stati scritti secondo la mentalità dell’epoca, quello odierno di Marco (1,29-39) ne darebbe ampia dimostrazione.

La suocera di Simone sta a letto, sta male, ha la febbre. Gesù la prende per mano facendola alzare e lei guarisce d’incanto. Convalescente, dovrebbe aversi dei riguardi, riposarsi. Invece no. «Subito si mise a servire» i cinque maschi presenti: Gesù, Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni. Il costume dell’epoca lo esige. Oggi però…. Oggi ci sono Paesi nei quali le donne ancora camminano tre passi dietro i loro uomini, non possono andare a scuola, non possono guidare e se vengono stuprate possono essere lapidate per adulterio. E alla lapidazione può partecipare lo stesso stupratore.

È vero, sono Paesi lontani, di altra cultura e religione, nei quali l’annuncio dell’eguaglianza, che è anche di genere, non è accolto. Ma lì dove si dice che sia accolto, la parità tra donne e uomini è affermata (grazie alle lotte del femminismo) più che praticata. Di discriminazione ce n’è ancora tanta: in famiglia, sul luogo di lavoro, persino nelle Chiese, a partire da quella cattolica.

L’epoca della doppia morale (una per le donne ed una per gli uomini) è passata, ma la violenza maschile sulle donne non per questo è cessata. I femminicidi sono la violenza che fa notizia, ma quant’altra, nascosta, silenziosa, sottile, c’è e non si vede, in Paesi moderni e civilissimi che si dicono cristiani.

Che differenza con il modo di comportarsi di Gesù! Di recente, in Italia, un uomo ha ucciso a coltellate la “propria” donna sentenziando: «Era una puttana». Gesù invece difese l’adultera e di un’altra donna disse: «Molto le sarà perdonato, perché molto ha amato». Ci sarebbe da scrivere un trattato di teologia morale a partire da questa frase. Non è facile che venga in mente di farlo a qualche teologo, ma ad una teologa forse sì.

Nello stesso brano Marco presenta Gesù come un guaritore. Evidentemente la notizia della guarigione della suocera di Simone si era sparsa e «la gente portò a Gesù tutti quelli che erano malati e posseduti dal demonio… Gesù guarì molti di loro che soffrivano di malattie diverse e scacciò molti demoni».

All’epoca le guarigioni erano considerate miracolose ed anche oggi vengono di solito presentate così. Sui miracoli ed il miracolismo ci sarebbe molto da dire, in particolare su come se ne nutra la religiosità popolare e su come essa sconfini spesso nella superstizione. Negli anni Settanta si aprì un dibattito sul rapporto tra religiosità popolare e alienazione religiosa. Qualche riflessione al riguardo potrebbe pure oggi essere attuale, ma a me preme cogliere un altro aspetto di questo passo del Vangelo.

Gesù è sollecito a piegarsi sulla sofferenza. Annuncia il Regno e si dà cura dei corpi. Nella sua cultura l’dea dell’anima infatti non c’era; è venuta dopo, quando l’annuncio del Regno si è incontrato con la filosofia greca ed il suo dualismo tra anima e corpo. È allora che ci si è preoccupati della salvezza delle anime e si è pensato che essa passasse per la mortificazione dei corpi. Si è arrivati così a sostenere che «tanto è il bene che mi aspetto che ogni patir mi è diletto» e ad onorare i corpi (con incenso ed acqua santa) solo da morti. Ai corpi vivi si sono destinate tutt’al più le opere di misericordia corporale. Ma noi siamo un tutt’uno con i nostri corpi, per cui la cura e l’onore dei corpi non sono questione di misericordia, ma di giustizia. Se non lo si ha ben presente, parlare della dignità degli esseri umani ha poco senso.

Non dovremmo rassegnarci perciò a vedere i corpi considerati “risorse”, cioè mezzi di produzione trasformabili in “esuberi” se non servono, o vengono pigiati sui barconi, accatastati nei container, costretti nelle favelas. I patimenti non servono per la salvezza.

* fa parte della Comunità di Base di San Paolo a Roma e della Rete romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese

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Il “demone” del conformismo

Nino Lisi

ANNO B – 1° febbraio 2015 – IV Domenica del tempo ordinario – Dt 18,15-20 Sal 94 1Cor 7,32-35 Mc 1,21-28

Accostarsi ad un testo di pressappoco 2000 anni fa, in una lingua che non è la nostra, in un contesto culturale (categorie, credenze, valori) diversissimo rispetto a quello cui apparteniamo, e accostarcisi con l’intento di scoprire che cosa quel testo può dire a noi, oggi, è operazione rischiosa. Tra i rischi c’è quello di prestare a quel testo, più o meno inconsciamente, quello che ci piacerebbe dicesse, invece di trarne quel che effettivamente dice. Se poi in quel testo, come è nel caso nostro, vogliamo provare – per dirla con il priore di Bose, Enzo Bianchi – a scovare, tra le parole umane con cui è stato scritto, la parola di Dio, cioè qualcosa che ci aiuti nell’arte di vivere e che, scalfendone un poco il mistero, dia un senso alla vita e un significato al nascere e al morire, l’impresa è veramente ardua.

Ricordato tutto ciò in primo luogo a me ed anche al lettore, leggiamo il brano in cui Marco racconta di Gesù che nella sinagoga di Cafarnao insegna «come uno che ha autorità» cioè come uno che sa bene di cosa parla, che sa di poter dire ciò che dice, che è ben convinto di quel che afferma. E insegna «una dottrina nuova».

Marco non riferisce in questo brano quale fosse la dottrina nuova che Gesù insegnava. Ma in cosa consistesse noi lo sappiamo. È la buona notizia della comune figliolanza da Dio di tutti gli esseri umani (e non solo), da cui discendono la loro assoluta eguaglianza e la fratellanza e sorellanza universali.

La gente che ascoltava – annota Marco – era meravigliata. E ne aveva ben donde: quell’annuncio era davvero straordinario, scardinava convincimenti, smentiva convenzioni, contestava l’assetto sociale. Una rivoluzione, insomma. Una persona più delle altre ne era rimasta sconvolta ed aveva preso a gridare contro il Nazzareno «Che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci?». La cultura dell’epoca ce lo presenta come un indemoniato. La psichiatria moderna e le neuroscienze ci hanno spiegato che tutt’al più poteva trattarsi di uno psicotico, ma più probabilmente di uno rimasto profondamente colpito da un annuncio percepito, come in effetti era, quale minaccia grave per l’ordine costituito. Insomma un benestante-benpensante lo chiameremmo forse oggi.

Trasferiamoci ai nostri giorni, in questo mondo, in una qualsiasi delle nostre città che si reggono (si fa per dire) sulle diseguaglianze che invece di diminuire aumentano, tra un Paese ed un altro, tra una classe e le altre: la ricchezza aumenta a dismisura e la povertà pure; immobili inutilizzati vanno in rovina mentre intere famiglie prive di casa dormono all’aperto o in tuguri improvvisati.

L’annuncio di 2mila anni fa non si è dunque realizzato? Sembra proprio di no. Non si tratta però di una promessa mancata, ma della responsabilità di chi si dichiara alla sequela di Cristo, perché Gesù non ha mai promesso che giustizia, sorellanza e fratellanza sarebbero piovuti dall’alto, ma al contrario «sceltine altri settantadue li mandò a due a due dinanzi a sé, in ogni città e luogo dove stava per recarsi». Il compito di costruire il Regno è nostro e se ancora è lontano gli inadempienti siamo noi. Ed è anche nostra responsabilità se la carica dirompente della buona novella è sterilizzata. Non c’è solo chi l’avversa apertamente, ma anche chi la edulcora e depotenzia.Trarre da quell’annuncio tutte le conseguenze anche sul piano personale è però assai duro. Qualche volta scopro di trovarmi io stesso al posto dell’indemoniato. Capita di sera, quando sotto un portico o all’angolo di un palazzo mi imbatto in qualcuno che dorme sdraiato su un cartone, malamente avvolto in una lercia coperta, e tiro avanti, distogliendo lo sguardo per non farmi sopraffare dalla vergogna. Mi sento in colpa e sto male. Mi viene allora di pensare: “Ma che vuoi da me, vuoi proprio rovinarmi?”.