L’antisemitismo cattolico fra liturgia e storia di L.Kocci

Luca Kocci
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Daniele Menozzi, «Giudaica perfidia». Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 248, euro 22,00

C’era un’espressione che, più di tante altre, per quasi quattro secoli ha reso manifesta l’ostilità verso il popolo ebraico da parte della Chiesa cristiana: «Giudaica perfidia». Una formula particolarmente grave non tanto, o non solo, per il significato – del resto la teologia, l’apologetica e l’omiletica sono piene di considerazioni antisemite e di accuse al popolo “deicida”, fin dai primi secoli del cristianesimo – quanto per la collocazione: la liturgia, ovvero la celebrazione della «storia della salvezza», manifestazione della piena ortodossia della fede, strumento principe della catechesi e dell’educazione delle masse dei fedeli, che non sapevano leggere ma partecipavano alle celebrazioni.

L’espressione compariva nei riti del venerdì santo, secondo il Missale romanum del 1570 di Pio V, il papa della Controriforma, che pochi anni dopo la conclusione del Concilio di Trento (1545-1563) decise di uniformare la disciplina liturgica per tutta la Chiesa cattolica romana. E così recitava l’ottava orazione della cosiddetta preghiera universale, l’unica – in tutto erano nove – in cui i fedeli non erano nemmeno invitati ad inginocchiarsi ma restavano in piedi: «Preghiamo – diceva il celebrante nell’invitatorio – anche per i perfidi giudei, perché il nostro Dio e Signore tolga il velo dai loro cuori e anch’essi riconoscano Gesù nostro Signore». E poi, dopo una breve pausa di silenzio, concludeva con la colletta: «O Dio onnipotente ed eterno, che non respingi nemmeno la giudaica perfidia dalla tua misericordia, ascolta le nostre preghiere che ti presentiamo per quel popolo accecato, affinché, riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano strappati dalle loro tenebre». Ma oltre alla specifica preghiera, era l’intero svolgimento della celebrazione della «passione del Signore» ad attribuire una particolare rilevanza alla «giudaica perfidia».

Per quattro secoli i cattolici hanno pregato così. Il nuovo libro di Daniele Menozzi, docente di Storia contemporanea alla Normale di Pisa ed esperto del papato in età moderna e contemporanea, indaga e percorre attraverso i secoli – da san Pio V fino a papa Francesco – questo particolare aspetto, finora poco o per niente studiato: l’antisemitismo nella liturgia cattolica.

Dal messale di san Pio V in poi, i «perfidi giudei» saranno una presenza costante nella liturgia. Tutti i tentativi, in realtà minoritari, di espungere l’espressione che rivelava l’antisemitismo cattolico saranno destinati al fallimento: da quelli maturati durante la Rivoluzione francese e le repubbliche giacobine, immediatamente arginati dal ritorno dell’Ancien régime e dalla Restaurazione; a quello della Società degli Amici di Israele, nella seconda metà degli anni ‘20, fondato anche sulle acquisizioni del nuovo metodo storico-critico, che aveva sottoposto a rigorosa analisi il significato del termine «perfidia» inteso come «assenza di fede», ma bocciato nettamente dalla Congregazione vaticana del Sant’Uffizio che dispose anche lo scioglimento dell’associazione, i cui membri – scriveva il segretario, cardinale Merry del Val – erano caduti «in un tranello ideato dagli stessi ebrei che penetrano dappertutto nella società moderna».

Il Sant’Uffizio in questo caso – anche su indicazioni di Pio XI che temeva che la condanna avrebbe potuto aggravare le accuse di antisemitismo verso i cattolici – precisò il rifiuto di un antisemitismo guidato da uno «spirito anticristiano» che «si traduceva in violente persecuzioni e vessazioni verso gli ebrei», senza però rinunciare a un antisemitismo «condotto secondo le direttive dell’autorità ecclesiastica». Ma, si chiede Menozzi, «come trattenere nei limiti dello “spirito cristiano” un antisemitismo alimentato da un rito solenne che ripeteva ciclicamente la caratterizzazione degli ebrei come “perfidi”?». Di lì a poco, forse non per caso, arriveranno le leggi razziali e la Shoah.

Le proposte di modifica verranno rilanciate dopo la fine della Seconda guerra mondiale – per esempio da Jacques Maritain e dall’ebreo francese Jules Isaac, iniziatore del movimento delle Amicizie ebraico-cristiane –, ma l’unico risultato fu la reintroduzione della genuflessione durante la preghiera per i «perfidi giudei». Il nodo sarà sciolto solo negli anni ‘60, con l’elezione alla cattedra di Pietro di papa Roncalli. Le «perfidia giudaica» viene cancellata prima a Roma, la diocesi del papa, già durante i riti pasquali del 1959, e poi in tutta la Chiesa, con la nuova edizione del messale romano, nel 1962. Il percorso poi si completa nel Concilio Vaticano, con l’approvazione della dichiarazione Nostra aetate, in cui viene riconosciuta l’esistenza di un «comune patrimonio spirituale» fra ebrei e cristiani e sono archiviate le condanne perenni nei confronti del popolo ebraico: tutto quanto è stato commesso durante la passione di Cristo, si legge nella Nostra aetate, «non può essere imputato indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo».

Ma la storia non è chiusa. Perché dopo il pontificato di Paolo VI – che perfezionò l’aggiornamento di Roncalli con un nuovo messale (nel 1970) ulteriormente depurato da formule antiebraiche che ancora sopravvivevano in quello del 1962 – si sono intravisti inquietanti ritorni al passato. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, a fronte di gesti di amicizia nei confronti del popolo ebraico, hanno condotto azioni di governo contraddistinte da forti ambiguità nel tentativo, risultato vano, di recuperare la “scissione a destra” con i tradizionalisti di Marcel Lefebvre – che pure da Wojtyla venne scomunicato nel 1988 – e con i gruppi nati da quell’alveo. Fu Giovanni Paolo II a consentire infatti le celebrazioni secondo il messale del 1962, che era stato messo in soffitta da Paolo VI.

Non era più presente la «perfidia giudaica», osserva Menozzi, tuttavia diversi testi «contenevano comunque alcuni elementi antisemiti, distribuiti in diversi passi del rito della settimana santa e più complessivamente nell’insieme del rito romano, che la riforma voluta da Montini aveva provveduto ad eliminare». Ma la Santa Sede, nel 1990, approvò anche il messale di una piccola comunità benedettina di Le Barroux, in Provenza, guidata dall’ex lefebvriano dom Gerard Calvet, in cui l’espressione «giudaica perfidia» era rimasta intatta al proprio posto. Chi firmava l’introduzione, largamente elogiativa, di quel messale? Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. Che di lì a poco, da papa, andrà oltre, con il motu proprio Summorum pontificum con cui si consente tuttora ai tradizionalisti, senza bisogno di permessi speciali, l’adozione del messale preconciliare.

A causa delle proteste internazionali Benedetto XVI sarà costretto a modificare il testo della preghiera per gli ebrei, allineandolo in parte all’aggiornamento di Roncalli e Montini, ma auspicando comunque il riconoscimento di Gesù Cristo come «salvatore di tutti gli uomini», coerentemente del resto con la dichiarazione Dominus Iesus – emanata nel 2000 dalla Congregazione per la dottrina della fede guidata proprio da Ratzinger – in cui è affermato che il solo messaggio salvifico si trova in Gesù Cristo.

«Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande», la motivazione alla base del Summorum pontificum, che è poi il vero nodo della questione: la convinzione, da parte di Ratzinger, che il «ritorno al sacro», totalmente sganciato dal percorso storico compiuto, costituisca il più efficace rimedio alla secolarizzazione, al relativismo e alla crisi della Chiesa contemporanea. E si tratta, nota Menozzi, di una concezione largamente condivisa nel mondo tradizionalista: il «rifiuto della storia come sapere indispensabile alla comprensione del presente e all’organizzazione del futuro».

Ma «la liturgia – scrive ancora l’autore – costituisce un luogo sacrale, sicché le sue formule sono impermeabili ai condizionamenti derivanti dal tempo e dallo spazio oppure rappresenta un prodotto della storia e dunque le sue manifestazioni sono soggette ai mutamenti che gli uomini, nel loro cammino, intendono compiere in ordine alla relazione da intrattenere, nel culto, con il divino?». Un dilemma che papa Francesco, il quale non ha mai mostrato particolare simpatia verso il rito preconciliare, dovrà affrontare, se vorrà sciogliere tutti i legami fra liturgia e antisemitismo e riprendere quel programma di aggiornamento ecclesiale introdotto da Giovanni XXIII, ma progressivamente abbandonato durante gli ultimi decenni.