Lidia, commerciante di porpora e la profezia nella chiesa di Tiàtira di A.Guagliumi

Antonio Guagliumi
Cdb San Paolo – Roma

Dal libro dell’Apocalisse

1, 1-9 : “Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere presto e comunicò in forma simbolica, mandando il suo angelo al suo servo Giovanni, il quale attestò la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, per quanto egli vide. Beato colui che legge e beati coloro che ascoltano le parole della profezia e osservano quel che vi è scritto: il momento propizio infatti è vicino. Giovanni alle sette Chiese d’Asia: grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che sono davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone degno di fede, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra. A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per Dio, suo Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi / e lo vedrà ogni occhio / anche quelli che lo trafissero / e si batteranno per lui il petto tutte le nazioni della terra. / Sì, Amen! Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che vien, l’Onnipotente!
2, 19-23: [All’angelo della chiesa di Tiatira scrivi]: “Conosco le tue opere, l’amore, la fede, il servizio e la costanza e le tue ultime opere più numerose delle prime, ma ho contro di te che lasci fare a Gezebele, la donna che si dichiara profetessa e seduce i miei servi, insegnando loro a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli. Io le ho dato tempo per convertirsi, ma lei non vuole convertirsi dalla sua prostituzione. Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si convertiranno dalle opere di lei.”
3, 14-20: All’angelo della Chiesa che è a Laodicea scrivi: “Così dice l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio. Conosco le tue opere: non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Poiché dici: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla”. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comprare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la tua vergognosa nudità e collirio per ungerti gli occhi e purificarti la vista. Io, tutti quelli che amo, li metto in crisi e li educo: sii dunque zelante e convertiti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Al vincitore concederò di sedere con me sul mio trono come anch’io ho vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchio, ascolti ciò che lo Spirito dice alla comunità”.

Un commento all’Apocalisse

Domenica 15 marzo il gruppo biblico ha scelto di leggere e commentare, durante la liturgia, oltre al vangelo del giorno, alcuni passi dei primi tre capitoli dell’Apocalisse nei quali l’autore si rivolge, in forma di lettera dettata dal Signore, a sette comunità (ecclesie) dell’Asia minore (odierna Turchia). Tra queste vi è la comunità, o chiesa, della città di Tiàtira, dove operava una profetessa, chiamata con l’infamante nome di Gezebele, alla quale viene rivolta una durissima reprimenda perché (è Gesù che parla): “seduce i miei servi insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli” (Ap 2,20).
Nelle note al passo citato, il biblista Ricardo Pèrez Màrquez, che ha dedicato uno studio specifico a questi tre capitoli dell’Apocalisse, rileva come la chiesa di Tiàtira richiami alla memoria una serie di donne ad essa legate, in tempi e con funzioni diverse. La prima di queste è Lidia, originaria di Tiàtira (e forse ancora ivi residente, come vedremo); l’altra è appunto la profetessa nascosta sotto il nome di Gezebele e le altre tre (Priscilla, Massimilla e Amnia) sono ricordate da Eusebio, scrittore cristiano del IV secolo, come profetesse aderenti alla “eresia” montanista che aveva pervaso nel II e III secolo la chiesa di Tiàtira e altre chiese vicine. Pèrez Màrquez rileva pure, a titolo di singolare coincidenza, che in quella città vi era un famoso e venerato tempio pagano dedicato ad una Sibilla.
Questa singolare sequela, in un contesto letterario assai avaro (tranne le lettere di Paolo e il vangelo di Luca) di citazioni di donne importanti nel cristianesimo primitivo, ci ha sollecitato ad approfondire la questione. Ripeto qui, con più ampie citazioni e osservazioni, quanto ho detto all’assemblea della comunità riferendo l’ampia discussione avvenuta nel gruppo.

Lidia, la commerciante di porpora

Nel capitolo 16 degli “Atti degli apostoli”, dal versetto 11 al 15, l’autore racconta (trad. Fabris):
“Salpati da Troade ci dirigemmo [Paolo, Sila e Timoteo] verso Samotracia , e il giorno seguente alla volta di Neapoli. Di qui ci recammo a Filippi, colonia romana e la prima città del distretto della Macedonia. In questa città ci fermammo alcuni giorni. Il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume, dove pensavamo che ci fosse un luogo di preghiera. Sedutici ci mettemmo a parlare alle donne là convenute. Una di esse, di nome Lidia, commerciante di porpora originaria della città di Tiatira, che venerava l’unico Dio, era tutta intenta ad ascoltare; il Signore infatti le aveva aperto il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo essere stata battezzata con tutta la sua famiglia essa ci invitò con queste parole: Poiché avete ritenuto che io possa essere una cristiana fedele al Signore, venite a stare nella mia casa. E ci costrinse ad accettare”.
Sulla plausibilità storica di questo incontro di Paolo pare non vi siano dubbi tra gli studiosi. Si sa che gli “atti” sono uno scritto marcatamente apologetico con il quale Luca cerca di dimostrare l’ordinato e coerente propagarsi della Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, dall’oriente (Gerusalemme) all’occidente (Roma). Dei 28 capitoli di cui si compone, ben 19 sono dedicati all’attività missionaria dell’apostolo Paolo. Il confronto tra ciò che sappiamo dalle sue lettere e questa composizione, redatta circa 20 anni dopo la sua morte, svela gli “aggiustamenti” dell’autore per supportare la sua visione ideologica, ma in sostanza conferma nelle grandi linee l’itinerario paolino e anzi aggiunge episodi e particolari che il redattore può aver acquisito dai ricordi delle stesse comunità. Uno di questi è il citato arrivo dell’apostolo a Filippi e l’incontro con Lidia.
Secondo tutti gli studiosi (in particolare qui ci riferiamo allo studio di G. Barbaglio: Paolo di Tarso e le origini cristiane. Cittadella- 1985) Paolo, dopo aver fondato e visitato numerose comunità in Asia giunge a Filippi, sua prima tappa in Europa, verso gli anni 49-50 della nostra era. Assai probabilmente in questa città non vi era una sinagoga e gli ebrei, che non dovevano essere molti, si riunivano il sabato per la lettura della Torah e per la preghiera “in un luogo fuori della porta, lungo il fiume”. Paolo ci va per portare il suo annuncio, come sempre faceva, innanzitutto agli ebrei. E qui c’è la prima singolarità: invece di predicare a tutti i presenti si mette a parlare con “le donne là convenute”, tra le quali è presente Lidia, “che venerava l’unico Dio,” quindi una proselita o aspirante proselita, non ebrea di nascita, che aderisce all’annuncio di Paolo e si fa battezzare “con tutta la sua famiglia”. Perché alle donne? Forse che gli ebrei si riunivano in due gruppi diversi, femminile e maschile e presso questi ultimi, per primi o per secondi che li avesse interpellati, non era stato accolto o non aveva avuto successo? L’autore degli atti potrebbe aver cancellato questo problema, come ha fatto con altri episodi di sconfitta? Fatto sta che Paolo rimase assai poco a Filippi in questa prima visita perché ne fu presto scacciato in malo modo (I Tess, 2,2). C’entra qualcosa il suo approccio con le donne? Ma qui c’è il rischio di scivolare nel romanzesco. Tuttavia, tornando all’essenziale credo si possa dire che proprio la singolarità dell’evento, unito alla precisazione del nome e della provenienza della protagonista è un buon indizio della sua autenticità. Perché l’autore degli atti si sarebbe inventato un episodio che poteva essere facilmente smentito sia dai cristiani della chiesa di Filippi che da quelli di Tiàtira? E poi perché “inventarsi” che Paolo parlasse “a donne “ quando queste, come si sa, erano considerate poco attendibili e facili da essere suggestionate? Vero è che se l’autore degli atti, come molti sostengono, è lo stesso del vangelo di Luca, entra in campo la singolare attenzione di costui per le donne (Lc 8, 1-3 è l’unico passo dei vangeli in cui si ricorda che un gruppo di donne, tra cui alcune sposate, seguivano Gesù insieme ai discepoli), ma può questo averlo indotto ad inventare di sana pianta un particolare tanto anomalo quanto facilmente smentibile?
Altro aspetto da approfondire è poi la circostanza se Lidia fosse solo “originaria” di Tiàtira e poi emigrata a Filippi ovvero se fosse a Filippi solo temporaneamente e in ragione dei suoi commerci. Gli studiosi in genere propendono per la sua residenza a Filippi. La traduzione sopra riportata addirittura, per non creare equivoci, la dice “originaria di Tiàtira”, ma questa più che una traduzione è un’ interpretazione, giusta o sbagliata che sia. Il testo greco, che come è noto non contiene virgole, dice letteralmente: “commerciante di porpora della città di Tiàtira”. Ora, mettere o no una virgola dopo “porpora” cambia radicalmente il senso. Ma perché la maggior parte degli esegeti va in questa direzione? Vorrei qui, sinteticamente elencare i pro e i contro in questa questione.
A favore della residenza fissa di Lidia a Filippi sta sostanzialmente il fatto che inviti Paolo a casa sua, dove si fa battezzare lei e “la sua famiglia”. Dunque, doveva avere una sua casa e una famiglia a Filippi.
Contro questa ipotesi si possono portare però vari argomenti:
– È strano che quando Paolo, pochissimi anni dopo l’episodio narrato dagli “Atti”, scrive la sua lettera ai Filippesi, pur ricordandosi di loro “fin dal primo giorno” del suo arrivo e la benevolenza sempre dimostrata nei suoi riguardi, non menzioni affatto Lidia, che pure lo accolse in casa e fu la sua “primizia” per l’Europa. Ricorda con amorevole rimprovero altre due donne (Evodia e Synthiche) invitandole ad “andare d’accordo nel Signore”, (e dunque anche loro avevano compiti importanti in comunità, non credo che Paolo se ne sarebbe occupato se le divergenze fossero state su questioni irrilevanti), ma di Lidia neppure un cenno. Era tornata a Tiàtira?
– Nel mondo greco-romano del tempo di Paolo sotto il nome di “famiglia” non s’intende solo quello che oggi potrebbe essere “il nucleo famigliare”, ma, oltre al capofamiglia, (che qui evidentemente era Lidia, forse vedova) i figli, i liberti e gli schiavi. Può allora darsi che Lidia avesse con sé, per commerciare la preziosa porpora di cui Tiàtira era città produttrice, figli o aiutanti e occupasse a Filippi una casa in affitto, o un magazzino o un luogo dove smerciava il prodotto portato dalla sua città. Questi viaggiatori di commercio hanno avuto una parte importante nella diffusione del cristianesimo. I vari personaggi che Paolo saluta nel capitolo 16 della lettera ai romani e che facevano parte delle almeno 5 comunità cristiane presenti a Roma prima che lui vi giungesse (Romano Penna), ne sono un esempio. Pensiamo ad Andronico e Giunia “parenti” di Paolo e apostoli insigni “già prima di lui”; Epeneto, “primizia dell’asia”; Prisca e Aquila “che per salvarmi la vita hanno rischiato la testa” (ma dove può essere avvenuto questo? Non certo a Roma, dove si trovavano quando Paolo scrive). Tutti costoro si erano trasferiti definitivamente a Roma o vi si trovavano come mercanti?
– Lidia è una “credente nell’unico Dio”. Ora, a Filippi la presenza ebraica era minima, come dimostra il fatto che non esisteva nemmeno la sinagoga, mentre è noto da altre fonti che a Tiàtira vi era un notevole gruppo di ebrei, e c’era una sinagoga: in quale ambiente è più facile che la nostra commerciante di porpora sia venuta in contatto con gli adoratori del “ Dio altissimo”?
Del resto, sia che si trovasse stabilmente a Filippi sia che avesse la sua sede stabile a Tiàtira, la figura di Lidia è quella di un’apostola e fondatrice di comunità. Nel primo caso, infatti, è lecito pensare che la prima Chiesa di Flippi sia nata attorno a lei, tra le sue amiche ebree o proselite che si riunivano lungo il fiume a pregare prima di trovare una sua autonoma sede, nella sua o in altra casa privata, non essendo consentito ad una religio non riconosciuta avere un proprio edificio di culto.
Nel secondo, è assai probabile che, una volta tornata a Tiàtira, abbia recato lì, nella sinagoga che lei frequentava e nella quale Paolo non era mai stato, l’eco della sua predicazione e in seguito fondato il primo nucleo della locale comunità.

Gezebele

Una diecina d’anni dopo la pubblicazione del libro degli “Atti” compare, probabilmente in Asia, l”Apocalisse” e una delle “lettere” indirizzate a sette comunità cristiane ivi presenti è indirizzata, come abbiamo detto, alla Chiesa di Tiàtira (2, 18-29). Vediamone i versetti più importanti ai fini di questa ricerca:
“[Così dice il Figlio di Dio]: Conosco le tue opere, l’amore, la fede, il servizio e la costanza e le tue ultime opere più numerose delle prime. Ma ho contro di te che lasci fare a Gezebele, la donna che si dichiara profetessa e seduce i miei servi, insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli. Io le ho dato tempo per convertirsi, ma lei non vuole convertirsi dalla sua prostituzione. Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si convertiranno dalle opere di lei. Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono colui che scruta i reni e i cuori e darò a ciascuno di voi secondo le sue opere”. (2, 19-23)
Ricordiamo che a Tiàtira a questo punto (siamo alla fine del I sec. della nostra era) i cristiani vivevano ormai del tutto separati dalla Sinagoga e in polemica con questa (vi sono versetti durissimi contro i giudei), ma comunque non dovevano essere tantissimi, forse 20 o 30 persone, come ipotizza Romano Penna per casi simili di chiese domestiche. Nel complesso la testimonianza che questa comunità offre appare ottima. Quello che l’autore non digerisce è questa donna che, oltre a profetizzare, ritiene lecito mangiare la carne immolata agli idoli (la c.d “prostituzione” ne è una conseguenza, perché mangiare la carne sacrificata agli idoli, per i rigoristi del tempo, in linea con un’antica tradizione biblica, era una forma di comunione con questi e quindi un “prostituirsi” a loro). Si badi bene che questo fenomeno non è esclusivo di Tiàtira: esso era stato rinfacciato poco prima anche a quelli di Pergamo, ma in modi molto meno duri (2,14). A Tiàtira il rimprovero è invece di una violenza inaudita. Innanzi tutto la “profetessa” non è indicata col suo nome, ma con quello infamante di Gezebele. Costei era la moglie del Re Achab (IX sec. a.C.) ed essendo un principessa fenicia aveva convinto il marito ad introdurre in Israele alcuni culti della sua terra. Questo sincretismo le aveva attirato l’odio del profeta Eliseo che, raccogliendo attorno a sé tutte le forze conservatrici, ordì una congiura nella quale morirono sia il re Achab che Gezebele, ma quest’ultima in modo orrendo: fu buttata giù da una torre e il suo corpo smembrato e gettato come concime nei campi “Perché non si possa più dire: questa è Gezebele” (2 Re, 9.37).
Ebbene il “peccato” che si rinfaccia a questa “profetessa” di Tiàtira non è nulla rispetto a quelli imputati alla regina Gezebele, e oltretutto è opinabile. Per Paolo, ad es., concettualmente esso non era neppure un peccato, al massimo poteva costituire un mancanza di amore verso fratelli e sorelle dalla fede “meno solida”. In I Cor 14-33 l’apostolo, rispondendo ad una precisa domanda dei suoi destinatari, dice in sostanza che essendo gli idoli inesistenti, la carne loro immolata si può mangiare come qualunque altra carne, ma se c‘è qualche fratello o sorella che trova questo atteggiamento scandaloso è meglio astenersi per rispetto a loro. Costoro infatti argomentavano che se mangiare alla mensa eucaristica mette in comunione col Signore, così mangiare la carne sacrificata agli idoli significa entrare in comunione con i demòni. E bisogna rispettare questa loro sensibilità. Un motivo dunque di opportunità e contingente, non di principio, sconsigliava di mangiare di questa carne. Si tenga conto poi dell’intenzione: i cristiani (“adulti”, diremmo oggi) che mangiavano la carne sacrificata agli idoli non lo facevano certo con l’intenzione di essere in comunione con loro, ma perché sul mercato la maggior parte della carne, e quella a prezzi più accessibili, proveniva da sacrifici agli dei. Diverso sarebbe stato ad es. partecipare con dei pagani a riunioni dei collegia dei mercanti e degli artigiani nelle quali si sacrificavano animali alla divinità protettrice e poi se ne mangiava la carne. Ma di questa eventualità nulla è detto.
Teniamo presente infine che le parole scritte da Polo ai Corinzi sono di quarant’anni precedenti ai fatti di Tiàtira, e la coscienza dei cristiani avrebbe dovuto, nel frattempo, essere maturata al punto che nessuno più si sarebbe dovuto scandalizzare se qualcuno mangiava la carne comprata al mercato e proveniente da sacrifici. Così certamente credeva la “profetessa”, forse memore dell’insegnamento paolino ricevuto anche tramite la probabile fondatrice della comunità, Lidia. Ma non faceva i conti col rigorismo dell’autore dell’”Apocalisse” che, a mio parere, tradisce nella sua virulenza e nella diversità di toni rispetto a quelli usati per Pergamo anche un notevole grado di ostilità verso una donna proprio perché donna e per di più profetessa, in un periodo di progressivo affermarsi nelle chiese di una struttura (vescovo-presbitero-diacono) tutta maschile e che guardava con crescente sospetto al fenomeno del “profetismo” così diffuso invece nelle comunità paoline, anche tra le donne (cfr. I Cor 11,5 sulle donne che pregano o profetizzano in assemblea (ecclesia).

Le profetesse “montaniste” di Tiàtira

Ma a Tiàtira ancora nel II secolo il profetismo, e il profetismo femminile in particolare, non era stato estinto, e manteneva vivo l’insegnamento di Paolo “non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie” (I Tess 5, 19-20). Come già accennato, la pretesa di ricevere ispirazioni dirette dalla sfera divina cozzava direttamente con la nascente struttura gerarchica della Chiesa, che si sentiva unica interprete delle scritture e depositaria della disciplina. Il problema della tendenze alla frammentazione della dottrina e della disciplina era reale e sempre più diffuso a cominciare dal II secolo, e si cercò allora di arginarlo soprattutto con la repressione e col conferire più potere ai vescovi (cfr. le lettere di Ignazio di Antiochia, dei primi anni del II secolo). In più ci si metteva il fatto che queste ispirazioni coinvolgevano, nel caso della chiesa di Tiàtira e del territorio e città circostanti, ben tre donne, (insieme a Montano, da cui prese il nome questo movimento) proprio nel momento in cui esse erano sempre più allontanate dai posti decisionali e di organizzazione delle comunità. Più tardi, dopo il compromesso costantiniano, si sarebbe introdotto il concetto di sacralità del “clero” e sarebbero cominciate le definizioni dogmatiche dei concili a complicare ulteriormente le cose. Ed è certo in questo periodo, tra la fine del I e gli inizi del II secolo che qualche solerte “anziano” ha introdotto nella I Cor (14, 34-35) la famosa frase “le donne tacciano in assemblea” che contraddice apertamente con il passo innanzi citato della stessa lettera ed è invece conforme alle tarde lettere “deuteropaoline” (ad es. I Tim 2, 11-15).
Fatto sta che, come già sappiamo da Eusebio, nel II e III secolo Tiàtira era considerata un pericoloso covo di eretici “montanisti” tra i quali ben tre donne, Priscilla, Massimilla e Amnia rivendicavano il diritto di proclamare in assemblea le ispirazioni che sentivano emergere dal loro intimo invaso dal “Paraclito”. Si dice pure che questa “setta” (come la chiamavano gli “ortodossi”) propugnasse un esasperato rigorismo dei costumi di vita, un ritorno alla semplicità delle prime comunità cristiane in attesa della “parusia”. Cosa significasse questo nel contesto dell’epoca, quali fossero le profonde ragioni delle loro scelte, (per es, una reazione al rilassamento dei costumi nella chiesa, o un dissenso dall’ eccessivo peso che la struttura stava prendendo rispetto all’assemblea) non ci è dato conoscere visto che, come al solito, la storia la scrivono i “vincitori”.