Credere all’amore, oggi di C.Albini

Christian Albini*
www.viandanti.org

Perché il sinodo sulla famiglia? La pubblicazione dell’Instrumentum laboris è un passo importante verso l’appuntamento di ottobre. Il testo è interlocutorio: recepisce la Relatio Synodi del 2014 e la integra con una sintesi delle risposte al questionario che nel frattempo era stato divulgato e di altre osservazioni e contributi pervenuti alla Segreteria del sinodo.

Un dibattito ancora aperto
Gli aspetti su cui l’attenzione degli osservatori si è subito concentrata riguardano l’accesso all’eucaristia per i divorziati risposati e gli omosessuali. Sulla prima questione, è esplicitamente contemplata l’eventualità di un percorso penitenziale di riammissione – e ricordo che i documenti preparatori del sinodo precedente la escludevano in partenza! – mentre sulla seconda si ribadisce l’accoglienza verso le persone, ma permane una chiusura totale sul riconoscimento della positività di una relazione.

Il dibattito è ancora aperto e, per come si pongono le posizioni, una parola definitiva potrà venire solo da papa Francesco, al momento di tirare le conclusioni di tutto questo cammino nel 2016, durante il Giubileo della Misericordia. Per rispondere su delle questioni particolari, per quanto importanti, è però necessario risalire alle radici di tutto questo processo. Ecco come mai pongo la domanda “perché il sinodo?”. È funzionale alla chiesa cattolica e alla sua dottrina o è orientato alle persone, a poter dire una parola buona sulla loro vita? Una dottrina semplicemente la si annuncia, la si ripete uguale a se stessa. Rivolgersi alle persone richiede ascolto della loro realtà, del loro vissuto, dei loro bisogni.

La verità dell’amore

Il vero problema non è sostenere il matrimonio e la famiglia, quasi che fossero due idee da diffondere e come se la loro tenuta dipendesse dalle leggi. Il vero problema è la realtà, la verità dell’amore. La domanda di fondo può essere così formulata: è possibile, oggi, credere all’amore? Come è possibile credere all’amore? In quanto umani, credere all’amore fa la differenza nel tipo di vita che si segue, nelle scelte che si fanno, vale per tutti: credenti e no, cristiani e no. Il punto non è affermare una certa tesi, ma capire se la fede cristiana è rilevante e incisiva per i vissuti e i bisogni profondi degli uomini e delle donne di oggi. La fede cristiana aiuta a credere all’amore? Aiuta a vivere l’amore? Ha una parola buona da dirci? Questo conta davvero!

In quanto cristiani per noi il punto di partenza è credere all’amore. Se manca questo, la nostra vita cristiana e le nostre convinzioni, anche se perfettamente ortodosse, non sono che consuetudine e ideologia. “Abbiamo creduto all’amore”, scrive Giovanni nella sua prima lettera (4,16). E naturalmente vale anche per i legami di coppia, per il matrimonio, per la famiglia.

“Non stiamo più insieme”

Certo, c’è una differenza cristiana nel credere all’amore, c’è un aspetto proprio della nostra fede nel vivere questa esperienza, ma questo non ci contrappone agli altri. La radice umana è comune. E tutti viviamo la stessa fatica di credere all’amore e di trasmettere la fiducia nell’amore, senza la quale è impossibile stare insieme, fare famiglia. Questa fatica e i fallimenti che ne conseguono sono un impoverimento per tutti. Andare alla radice della fiducia cristiana nell’amore, allora, non è un tentativo di conquistare adepti, ma un’esplorazione in profondità, per capire se lì c’è un tesoro prezioso da portare alla luce e che arricchisce tutti noi.

Tutti noi conosciamo, o magari abbiamo vissuto in prima persona, vicende di rapporti che sembravano idilliaci e poi s’infrangono; addirittura, a pochi mesi da un matrimonio o anche dopo anni e anni, quando sembravano ormai consolidati. Una delle “figuracce” oggi più ricorrenti è quella di incrociare una persona conosciuta, ma che non frequentiamo abitualmente, chiedere come sta il partner che riteniamo noto e scontato e sentirsi rispondere: “Sai, non stiamo più insieme”.

Desiderio e provvisorietà

Le parole chiave potrebbero essere due: desiderio e provvisorietà.

Il desiderio è la vita che ci abita, è la chiamata a realizzare pienamente noi stessi. E il desiderio più forte è quello che ci attira verso un’altra o un altro, come se nella relazione trovassi ciò che mi manca. Mai senza l’altro, potremmo dire. Allo stesso tempo, però, avvertiamo un grande senso di provvisorietà, di precarietà. Come se l’altro potesse abbandonarci, a un certo punto, o come se avessimo coscienza che saremo noi a compiere un passo del genere, prima o poi. L’amore è eterno, finché dura – si dice – come se fosse qualcosa che brucia in una vampata intensa, ma poi si dilegua.

Nell’attuale logica utilitaristica e consumistica l’individuo diviene il centro di tutto – l’io come misura di tutte le cose, potremmo dire – e non esistono percorsi di vita o visioni del mondo strutturate a cui rifarsi. Tutto ciò viene amplificato nel momento in cui il benessere viene eroso dall’incertezza che dopo l’11 settembre 2001 e la crisi economica di questi anni ’10 (i due eventi che stanno segnando maggiormente la vicenda della nostra generazioni) è esplosa in un vero e proprio senso di angoscia generalizzato.

«L’odierna incertezza è una possente forza individualizzatrice. Divide anziché unire, e poiché non c’è alcun modo di sapere chi domani si sveglierà in quale categoria, l’idea di “interessi comuni” diventa sempre più nebulosa e perde qualsiasi valore concreto. Paure, ansie e afflizioni dell’epoca contemporanea sono fatte per essere patite in solitudine. Non si sommano, non si cumulano in una “causa comune”, non hanno alcun indirizzo specifico, e tanto meno ovvio» (Zygmunt Bauman).

È una vera e propria “rottura dei legami” a livello civile, ma anche a livello interpersonale. Anche l’amore diventa “liquido”. Come stupirsi, allora, che – per usare un’immagine – il matrimonio sia sostituito dalla coabitazione quale modello dei rapporti affettivi? È da questa realtà che bisogna affrontare una riflessione sul senso dell’amore.

Nella normalità della convivenza quotidiana, quello che si vede non sono persone che rifiutano o disprezzano l’amore e l’insegnamento della Chiesa. Anche in presenza di vissuti affettivi problematici o non condivisibili, la maggior parte delle persone si porta dentro un desiderio di vita buona e di felicità, una ricerca sincera dell’amore. Poi, sono le diverse storie e l’esercizio della libertà che possono portare a scelte discutibili, ma bisogna sempre partire dal rispetto e senza farsi illusioni che le situazioni formalmente “regolari” siano indenni da vissuti negativi. L’essere dentro i confini “formali” del matrimonio non salvaguarda dall’incertezza e dal disagio che oggi segnano la condizione umana. Ecco, allora, che per me la domanda chiave è quella sul credere all’amore e su come sia possibile, oggi.

Una questione decisiva per il Sinodo

Tutto questo discorso risulta decisivo, per il Sinodo, nella misura in cui quest’ultimo non si limiti a ribadire semplicemente quanto già detto in passato. L’annuncio cristiano è che l’amore trova la sua radice in Dio, nella sua fedeltà, che lo alimenta, lo guida non a consumarsi ma a raggiungere una pienezza, in alleanza con gli sposi. E l’educatore di questo amore è Gesù. Vuol dire mettere al centro il senso dell’amore umano e le domande che le persone si pongono in proposito. I sacramenti s’innestano in una storia di fede, in una vicenda umana. Troppo spesso si arriva al matrimonio e si parla di matrimonio a prescindere da questo. Tante volte anche con una scarsa consapevolezza del significato proprio dei sacramenti, anche da parte del clero, di cui si vede prevalentemente l’aspetto giuridico. Bisognerebbe, invece, interrogarsi e approfondire maggiormente l’identità del sacramento del matrimonio.

Non aiuta, poi, la sovrapposizione tra sacramento del matrimonio e istituto giuridico del matrimonio, creatasi per ragioni storiche descritte da Alberto Melloni nel suo recente libro. È evidente che ci sia una confusione delle lingue in cui le stesse parole sono utilizzate universalmente, ma caricandole di significati diversi. Lo si vede nelle controversie sui “matrimoni gay”. Un passo ulteriore è, allora, quello di ripensare il lessico dell’amore e dell’affettività per sciogliere le ambiguità più diffuse. Un altro motivo di confusione è frequente riferimento ecclesiale alla “natura”, come ordine metafisico rigido a cui conformarsi e fuori del quale ci sono solo disordine e peccato. In questo modo, l’annuncio cristiano si riduce a stabilire dei confini fissi tra il lecito e l’illecito. La natura, invece, andrebbe ripensata alla luce del Vangelo, come sosteneva Bonhoeffer. Il che significa seguire lo stile di Gesù che accoglieva la positività delle persone e le accompagnava in un percorso di crescita, in una storia.

Una teologia della relazione

Riprendo quanto ho scritto nella mia introduzione al libro di Michael Davide Semeraro, Le chiavi di casa. Appunti tra un sinodo e l’altro (la Meridiana): «Tutto ciò è pensabile e possibile nell’ambito di una teologia imperniata sulla categoria della relazione che precede e fonda la dottrina e la pastorale. Sono ancora diffuse teologie che concepiscono la verità come un ordine metafisico a cui conformarsi o meno, in una sorta di sistema binario: o dentro, o fuori. La verità è piuttosto una relazione, perché Dio stesso è relazione, nel suo essere trinitario e nel suo essere costantemente in uscita verso di noi, alla nostra ricerca. E la relazione con Lui è un fatto dinamico, può aprirsi per tutti, in tutte le situazioni di vita, a partire dalla capacità di amore che ciascuno sa esprimere a propria misura. Il sacramento del matrimonio, dal canto suo, è segno di un amore benedetto e sostenuto da Dio, vissuto dentro la relazione con Lui, ma apre un cammino in questo senso, non ne costituisce la realizzazione e il compimento, come se fosse un fatto giuridico e formale. Così come i fallimenti, gli errori e i peccati in amore non chiudono ogni possibilità di relazione affettiva e con Dio».

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* Socio fondatore e membro del Consiglio direttivo di Viandanti.
Autore del blog http://sperarepertutti.typepad.com/