E se superassimo la figura del prete? di V.Gigante

Valerio Gigante
Adista Notizie n° 2 del 20/01/2018

La Fondazione Cum (Centro Unitario Missionario) è l’organismo della Conferenza episcopale italiana che si occupa della formazione dei missionari italiani. Cura in modo particolare i presbiteri “fidei donum”, ossia quei preti italiani che vengono inviati all’estero a realizzare un servizio temporaneo (6-15 anni, normalmente) in un territorio di missione, attraverso una convenzione stipulata tra il vescovo che invia e quello che riceve i missionari. La Fondazione Cum, nata ufficialmente nel 1997, ma con alle spalle più di 40 anni di vita (deriva infatti dall’esperienza del Seminario per l’America Latina, attivo negli anni ‘60 nella storica sede di S. Massimo, a Verona), realizza anche una rivista mensile, NotiCum che, sul numero datato gennaio 2018, pubblica un lavoro di don Paolo Cugini, prete della diocesi di Reggio Emilia, già missionario in Brasile, sul ruolo dei preti oggi. «La Chiesa ha davvero ancora bisogno di preti? », chiede provocatoriamente il titolo del suo intervento, che mette in luce la necessità di ripensare profondamente funzioni e ruolo del presbitero. Don Paolo lo fa, per di più, all’interno di una rivista che – essendo espressione di un organismo della Cei – è in ultima analisi un organo della Chiesa istituzionale.

Tutto cambia, anche il sacro

Nella storia – esordisce Cugini – «mutano le condizioni sociali, mutano allo stesso tempo gli attori del sacro. Anche la Chiesa è un’istituzione umana che risponde a logiche del mondo e, di conseguenza, anche lei è soggetta a mutamenti nel corso dei secoli». È vero che la Chiesa «ha un mandato divino e si alimenta di Dio, ma il modo di gestirla utilizza criteri umani». Certo, «come tutte le istituzioni che durano nel tempo, anche la Chiesa fa fatica ad adattarsi ai mutamenti necessari». E ciò avviene perché «il passare del tempo provoca assestamenti strutturali che vengono identificati come identitari e, di conseguenza, immodificabili ».

Tanto più quando «una tradizione culturale o religiosa perde il contatto con la sua origine, oppure quando tra l’origine e il presente della storia s’interpongono tradizioni di provenienza esterna, che modificano l’identità della struttura stessa. La mancanza di un gruppo di sapienti, che mantengono il contatto con l’origine, e che può allertare la base di un movimento politico o religioso circa le distorsioni in atto, provoca lentamente e progressivamente la base identitaria del gruppo».

Ciononostante, scrive Cugini, «le mutazioni all’interno di una struttura sociale, religiosa e politica sono inevitabili e, per questo, occorre essere in grado di accompagnare i cambiamenti per non correre il pericolo di distruggere il contenuto originario». In questo senso si colloca anche la trasformazione, «in questa epoca denominata di post–cristianesimo», anche della figura del prete, del suo modo d’intenderlo, del sua funzione nella comunità. «Se è vero, come c’insegnano i documenti della Chiesa e una lunga tradizione che deriva dai Padri della Chiesa, che è l’Eucarestia che fa la Chiesa, allora occorre mettere le comunità cristiane in grado di nutrirsi di essa.

Dall’ordine sacro all’ordine laico

Nell’attuale contesto culturale è in atto, da alcuni decenni, una progressiva e inarrestabile diminuzione del clero, di coloro chiamati cioè a presiedere le comunità per celebrare l’Eucarestia». In Italia, la soluzione delle Unità Pastorali, che vede il raggruppamento di alcune parrocchie affidate ad un solo parroco, non sembra più essere, secondo don Paolo, una risposta adeguata perché, in prospettiva, saranno molte le comunità che non avranno più la possibilità di accedere all’Eucarestia domenicale. E allora, «se il problema è permettere alle comunità cristiane di alimentarsi dell’Eucarestia, perché insistere con il modello del prete celibe e votato alla Chiesa per tutta la vita? Perché non provare a proporre figure più al passo con i tempi, persone che offrono un servizio limitato nel tempo? Si potrebbero ordinare persone della comunità, di fede provata il cui carisma è riconosciuto dalla stessa comunità. Che tipo di persone? Persone celibi o sposate, uomini o donne. Sì, anche donne».

Arriva quindi un passaggio critico dell’intervento di don Paolo Cugini sul ritardo del magistero ecclesiastico rispetto al ruolo delle donne nella Chiesa: È inutile – scrive infatti il prete reggiano – che la Chiesa continui a parlare di genio femminile, se poi esclude le donne dalla possibilità di guidare una comunità. Non può la Chiesa farsi da paladina della lotta contro le ingiustizie causate dalle disuguaglianze sociali, quando esclude le donne dalla possibilità di far parte dei quadri che dirigono le sorti della Chiesa. In fin dei conti si tratta di mantenere viva la fede del Popolo di Dio e, di conseguenza, occorre fare di tutto affinché i fedeli si alimentino del Signore».

Se la Chiesa istituzionale resiste così tanto al cambiamento è, secondo don Paolo, non certo «un problema di Vangelo, ma di potere. Abituata da secoli ad essere significativa e incisiva in Occidente sul piano politico e sociale, avere totalmente a disposizione un schiera di uomini celibi per tutta la vita, qualificati e sottopagati, vuole dire molto. Togliere questo esercito di uomini che firma un giuramento di totale obbedienza all’istituzione, significa privarsi di quella struttura specifica che ha espresso il modo della Chiesa di stare nel mondo. A mio avviso la Chiesa non rinuncerà mai a loro. Si terrà stretta questa schiera di uomini celibi votati fino alla morte a Lei, sino al momento in cui ne rimarrà uno solo. Chi è abituato a comandare, fa fatica ad attorniarsi di persone con cui interloquire alla pari».

La riforma inizia dal basso

E allora? Come superare l’impasse? Don Paolo fa l’esempio delle comunità latinoamericane, dove la base ecclesiale si è già “auto organizzata”, senza bisogno di indicazioni “dall’alto”: «Siccome il prete passa raramente nelle comunità, sono le persone stesse che vivono in comunità che si organizzano per leggere settimanalmente la Parola di Dio e celebrare alla domenica. La fede è più forte di qualsiasi istituzione. Questo lavoro di base contaminerà anche la struttura della Chiesa. Per ora, sarà importante modificare lentamente il cammino delle comunità per metterle in grado di sopravvivere. In questo modo la notizia della caduta del palazzo sarà meno rumorosa. Per le Unità Pastorali, che avranno la tendenza in futuro di aumentare di dimensioni, si potrebbe pensare ad una figura che coordini il lavoro pastorale ed economico delle parrocchie coinvolte. Mentre per la guida della comunità, scelta tra il popolo delle comunità, si potrebbe pensare ad una remunerazione frutto del contributo della stessa comunità, per i coordinatori delle Unità Pastorali, che potrebbero essere svolti da laici debitamente preparati, si potrebbe pensare ad uno stipendio con il contributo dell’otto per mille».

In questo modo, secondo don Paolo, si potrebbe finalmente uscire dallo schema prevalentemente “monastico”, separata dal popolo di Dio della guida della comunità, a favore di una scelta più conforme alle esigenze del tempo. «Due figure, allora, si delineano nel cammino della Chiesa futura: quello del presidente dell’assemblea eucaristica, che celebra l’Eucarestia e quello del coordinatore delle Unità Pastorali».

Per la formazione di queste nuove figure, «la Chiesa dovrà provvedere ad elaborare una teologia laicale capace di andare incontro alle nuove esigenze. Oltre a ciò, pensando anche a presidenti dell’Eucarestia donne, come del resto avviene da decenni anche in alcune Chiese protestanti, si dovrà sviluppare sempre di più una teologia femminista capace di raccogliere le sfide dello sguardo femminile sulla realtà. Ci sarà, quindi, bisogno di una spiritualità meno di élite e più incarnata nella vita della gente. Probabilmente il tipo di teologia che elaborerà questo stile di Chiesa incarnato in mezzo al popolo di Dio, sarà meno esigente, meno propensa a porre dei pesi insostenibili alle persone si pensi alla morale sessuale cattolica e più al passo con la vita della gente. Ci troveremo dinanzi ad un cristianesimo che lavora meno sul sacro, ma avrà un volto più umano, molto più simile, cioè, al Gesù dei vangeli».