Pietra, soglia, battigia / il piacere delle metafore

Giovanna Romualdi – Roma

La decisione di svolgere il XX incontro nazionale dei gruppi donne cdb e non solo viene dal desiderio di mettere in campo e confrontare con agio il “chi siamo”, ognuna di noi, e cosa rappresenta questo luogo, i nostri incontri collettivi. Questo mi spinge a far circolare anche quelli che sono solo appunti attorno ad un interrogativo che attraversa molte delle nostre riunioni di gruppi donne, delle cdb e non solo: come riprendere il percorso attorno al divino che talvolta sembra sospeso? L’ho ritrovato negli atti di Monteortone 2011. Mi accompagna silenzioso, ma non troppo, dal coordinamento della primavera 2012 a Bologna.

Dopo questa riunione, che fa seguito proprio all’incontro di Monteortone In principio sono i nostri corpi, trovo in quarta di copertina della rivista “Mezzocielo” la poesia di Wislawa Szymborska “Conversazione con una pietra”. Anche ora, rileggendola, mi torna a rappresentare il nostro modo di cercare il divino: quasi fosse una persona o un oggetto, una soluzione precisa da trovare “senza il senso del partecipare”, e il divino mi risponde “non ho porta”.

Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.

– Vattene – dice la pietra.
Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.

Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.

Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.

– Sale grandi e vuote – dice la pietra
ma in esse non c’è spazio.
Belle, può darsi, ma al di là del gusto
dei tuoi poveri sensi.
Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.
Con tutta la superficie mi rivolgo a te,
ma tutto il mio interno è girato altrove.

Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Non cerco in te un rifugio per l’eternità.
Non sono infelice.
Non sono senza casa.
Il mio mondo è degno di ritorno.
Entrerò e uscirò a mani vuote.
E come prova d’esserci davvero stata
porterò solo parole,
a cui nessuno presterà fede.

– Non entrerai – dice la pietra.-
Ti manca il senso del partecipare.
Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.
Anche una vista affilata fino all’onniveggenza
a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.
Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,
appena un germe, solo una parvenza.

Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Non posso attendere duemila secoli
per entrare sotto il tuo tetto.

– Se non mi credi – dice la pietra-
rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.
Chiedi a una goccia d’acqua, dirà come la foglia.
Chiedi infine a un capello della tua testa.
Scoppio dal ridere, d’una immensa risata
che non so far scoppiare.

Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
– Non ho porta – dice la pietra

Casualmente, nel giro di pochi giorni mi imbatto più volte nella “soglia”.

  1. sul finire dell’estate 2012 riapro il piccolo denso – difficile – libro di Giorgio Agamben “La comunità che viene”, che mi era stato regalato dalla comunità S. Giorgio di Brescia (ma in particolare da Rosanna e Edy) un anno dopo “le scomode figlie di Eva”. Credo volesse essere un riconoscimento del compito che mi ero assunta nello spendermi per la riuscita di quel seminario. Perché l’ho riaperto? Non lo so, forse perché non lo avevo letto bene tanti anni fa… boh! Dice Agamben, nel capitoletto “Fuori”: “Il fuori non è un altro spazio che giace al di là di uno spazio determinato, ma è il varco, l’esteriorità che gli dà accesso, in una parola il suo volto… La soglia … è l’esperienza del limite stesso, l’esser dentro un fuori”.
  2. Un paio di giorni dopo, leggo: “Donne sulla soglia della cittadinanza” il titolo di una relazione di Maria Grazia Campari ad un convegno a Milano sul lavoro, ed è un chiaro riferimento a quel dentro/fuori il campo della cittadinanza fatto di diritti, a cui si aspira, da cui si è emarginate.
  3. Ancora pochi giorni e alla mostra su Veermeer ed altri fiamminghi un quadro che mi si presenta davanti è quello di “una donna sulla soglia”: sta lavorando seduta fra il dentro scuro della casa e il fuori luminoso della strada. Mi vengono in mente foto di donne in nero dei paesi del meridione, sedute sulla soglia di casa, sui gradini nel vicolo: un luogo che è già apertura a ciò che accade fuori, un luogo in cui si possono raccogliere le voci, fare le chiacchiere, cioè tessere relazioni, ma stare anche pronte alla chiamata di ciò che avviene fuori.
  4. Leggo, nel correggere le bozze degli atti di Monteortone, la lunga citazione di Luce Irigaray e trovo “Ottobre, mese delle soglie tra il di dentro e il di fuori, il di fuori e il di dentro: di me, di te, di lei. Oscillare dove talvolta la comunione smarrisce la valutazione del limite, dove la realtà e il sogno si mescolano. Dove si presenzia nel silenzio del qui ciò che forse è altrove.”

Siamo donne sulla soglia del divino? Dentro la casa abbiamo lasciato, ma non abbandonato il patrimonio culturale religioso della nostra tradizione e ci affacciamo verso il fuori, ne sentiamo le voci ma non riusciamo a viverle? Continuiamo ad aver paura del vuoto? Le perdite ci fanno paura?

 

Di nuovo Wislawa Szymborska mi pone interrogativi con Discorso all’Ufficio Oggetti Smarriti:
Ho perso qualche dea per via dal Sud al Nord,
e anche molti dèi per via dall’Est all’Ovest.
Mi si è spenta per sempre qualche stella, svanita.
Mi è sprofondata nel mare un’isola, e un’altra.
Non so neanche dove mai ho lasciato gli artigli,
chi gira nella mia pelliccia, chi abita il mio guscio.
Mi morirono i fratelli quando strisciai a riva
e solo un ossicino festeggia in me la ricorrenza.
Non stavo nella pelle, sprecavo vertebre e gambe,
me ne uscivo di senno più e più volte.
Da tempo ho chiuso su tutto ciò il mio terzo occhio,
ci ho messo una pinna sopra, ho scrollato le fronde.

Perduto, smarrito, ai quattro venti se n’è volato.
Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato:
una persona singola per ora di genere umano,

che ha perso solo ieri l’ombrello sul treno.

 

Abbiamo paura di aver perso l’ombrello protettivo delle tradizioni religiose? O molto più semplicemente non riusciamo a immergerci nella nuova situazione?

Dentro-fuori, fuori-dentro: quel pendolarismo delle donne che tanti anni fa mi venne fatto intravedere da Raffaella Lamberti, in senso positivo.

Il ritmo del pendolo mi si trasforma nel ritmo della battigia, dato dall’acqua che avanza e si ritira. Se stai sulla battigia sei sia dentro che fuori dall’acqua e viceversa sei già sulla terra ma non hai completamente lasciato l’acqua.

Dice Paola Morini: la battigia? è lì per uscire dall’acqua a raccogliere qualche conchiglia.

Forse dobbiamo assumere questa posizione: immergerci completamente nella “divina acqua” e uscire con tranquillità a raccogliere perle, conchiglie che la nostra tradizione ci può ancora regalare.

Ma in quale acqua ci vogliamo immergere?

Telmo Pievani (La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto) ci dice che finiti i grandi racconti resta il bisogno di cercare nuove “iconografie della speranza”.

Forse il mare, con le sue tragedie che si ripetono, può essere pieno della speranza di riuscire a superare gli abissi della separazione fra culture diverse.

Dice Fiorella Mannoia (in “Non è un film”, canzone che ha ricevuto il premio di Amnesty international): “Scegli da che parte stare. Dalla parte del mare.”

Come la porta, la soglia, anche la battigia è un’immagine come un’altra. “Discutibile, come tutte ma forse utile per riflettere sull’atteggiamento dell’uomo in cammino”. Così scrive Filippo Gentiloni in “Non nominare invano” riguardo all’immagine della soglia, aggiungendo: “soglia assomiglia a porta, limite, confine, muro, labirinto…. La soglia è più modesta, non separa nettamente: non suppone, come la porta, l’aut aut fra chiusura e apertura… non ha le sbarre di un confine. … Prendendo spunto dall’immagine della soglia, si può forse riflettere sul cammino verso, sul tendere a, sul guardare, meglio, sull’ascoltare durante il percorso…. Riflettere non su Dio, dunque ma su chi, qualcuno – non l’uomo in assoluto – che non si stanca di logorare una soglia con il suo andirivieni”.

La battigia è un’immagine che ha qualcosa di più lieve, meno fisso: la sua variabilità, la sua capacità di cancellare le orme e oggi portare il segno di un “cammino della speranza” .

Quanto alla speranza, da Filippo Gentiloni riprendo questa poesia di Emily Dickinson:

 

La “Speranza” è quella cosa piumata –

che si viene a posare sull’anima –

Canta melodie senza parole –

e non smette – mai –

E la senti- dolcissima- nel vento –

e dura deve essere la tempesta –

 capace di intimidire il piccolo uccello

che ha dato calore a tanti-

Io l’ho sentito nel paese più gelido-

e sui mari più alieni-

Eppure mai, nemmeno allo stremo,

 ha chiesto una briciola – di me.

 

No, in questo momento preferisco riprendere quella forte, cruda immagine di speranza che simbolicamente abbiamo legato altre volte – come gruppo donne di Roma San Paolo – all’esperienza delle Donne dello Scamandro fuori dalle mura di Troia (Christa Wolf, Cassandra, pag. 165 ed. E&O 1994):

“Mi stupì che ogni donna dello Scamandro, per quanto fossimo diverse tra noi, avvertisse che tutte stavamo sperimentando qualcosa. E che questo non dipendeva dal tempo a disposizione. O dal persuadere o meno la maggioranza dei nostri troiani, che ovviamente restavano nella cupa città. Non ci consideravamo un esempio. Eravamo grate perché era concesso proprio a noi di godere del massimo privilegio che esista, far avanzare una sottile striscia di futuro dentro l’oscuro presente che occupa ogni tempo”.

Dentro “l’oscuro presente che occupa” questo nostro tempo, come riuscire a far avanzare “una sottile striscia di futuro”?

Se la follia dell’annuncio Maria di Magdala è un annuncio di speranza di un mondo altro (come detto altra volta), quali sono “le strade della Galilea” su cui camminare? Quali compagne/i di strada?

Quali soffi leggeri di divino captare per alzare le vele, non per sfuggire alla realtà ma per sapere affrontare le onde della vita in piena consapevolezza dell’importanza di ognuna di noi nella complessa rete della polis?