L’autorità di coloro che soffrono

Sr. Martha Zechmeister, CJ
da: Unione internazionale delle superiore generali – www.uisg.org

Sr. Martha Zechmeister è nata nel 1956 in Austria ed è una religiosa della „Congregazione di Gesù“, fondata da Mary Ward. É docente di Teologia sistematica e direttrice del Master in Teologia Latino-americana presso l’Università del Centro America a San Salvador (El Salvador). Discorso fatto in apertura dell’incontro UISG (unione internazionale. delle superiore generali) del 3-7 maggio 2013 a Roma – Originale in Spagnolo

1. Dal potere oppressivo all’autorità liberatrice

Tentando una astrazione e una semplificazione quasi sovrumani, si potrebbe affermare, in generale, che esistono due tipi di governo, di esercizio della leadership, indipendentemente dal contesto, sia esso politico o ecclesiale, familiare o pubblico. Questi due tipi di governo possono essere definiti da due parole che hanno la loro origine nella politica romana: “potestas”, potere, da un lato, e “auctoritas”, autorità, dall’altro.

Il primo tipo, definito come potere, si fonda su una disuguaglianza, una asimmetria. Chi detiene il potere ha un vantaggio sugli altri. Il vantaggio può fondarsi su una maggiore conoscenza, su un accumulo di risorse economiche o sull’esercizio della violenza fisica, psicologica o sociale. Il sociologo Max Weber ha definito il potere con queste parole divenute classiche: “Il potere è qualsiasi possibilità di imporre la propria volontà, all’interno di una relazione sociale, nonostante tutte le resistenze e quali che siano i fondamenti di questa possibilità”. [1] Il potente è in grado di mantenere sotto controllo la sua sfera di dominio. Dispone dei mezzi necessari per imporsi ai suoi sudditi, per eliminare ogni resistenza e, nel peggiore dei casi, per distruggere coloro che non si sottomettono.

Il secondo tipo di leadership, definito come autorità, include anch’esso una asimmetria. Anche la persona con un’autorità ha un vantaggio sugli altri. Tuttavia, il tipo di relazione tra una persona con autorità e le persone che rispettano questa autorità è fondamentalmente diverso. L’autorità non si caratterizza per l’imposizione e la sottomissione, ma si basa essenzialmente su un riconoscimento reciproco e libero. In questa relazione, l’“asimmetria” nell’esperienza, nella conoscenza, nella posizione sociale o nelle risorse, non elimina la fondamentale uguaglianza tra le due parti in relazione. Inoltre, l’autorità non nega mai una fraternità fondamentale che non permette mai di porsi al di sopra degli altri. Si può “prendere il potere”, ma non si può mai “prendere l’autorità”. La persona che “detiene l’autorità” la deve all’affermazione gratuita e adulta delle persone che la riconoscono. L’autorità non diventa mai un “possesso che non si può perdere”, perché bisogna meritarla e riceverla di continuo. L’autorità si autodistrugge quando ricade nella violenza. Imposizione e autorità sono essenzialmente incompatibili.

Rinunciare all’imposizione, non è affatto sinonimo di perdita di autorità o della sua auto-soppressione. Questa rinuncia non implica neppure debolezza, né una concezione “antiautoritaria” o un “lasciar fare”. Requisito della vera autorità è piuttosto la persona che possiede grande vigore, che non usa la sua forza e la sua energia interiore per mantenere gli altri in uno stato di dipendenza infantile, ma per promuovere la loro crescita integrale: la loro crescita umana, sociale, politica e spirituale.

“Autorità liberatrice” tanto meno è sinonimo di anarchia. L’esercizio di tale autorità richiede tutte le energie vitali per creare e proteggere con fermezza gli spazi sociali che fanno fiorire la vita, che favoriscono lo sviluppo di persone e di comunità caratterizzate da relazioni libere e rispettose. Le Costituzioni della Compagnia di Gesù, che sono anche le costituzioni della mia congregazione, affermano: “Il Superiore Generale abbia piena autorità sulla Compagnia ad aedificationem (per edificare)” [2]. Con l’autorità bisogna proteggere gli indifesi dagli sfruttatori dentro e fuori della comunità, senza cadere nella trappola del paternalismo o del maternalismo. È la tragedia dei sistemi autoritari: le persone oppresse cercano di sentirsi potenti opprimendo altri più deboli. (Tra parentesi: questa è, a mio parere, una delle radici tragiche dello scandalo degli abusi sessuali e dei maltrattamenti fisici commessi da sacerdoti e religiosi).

Le persone con vera autorità non si preoccupano affatto di preservare il proprio potere, ma, al contrario, sono guidate dal desiderio che le altre persone crescano nell’autodeterminazione e nella libertà di azione. La vera autorità cresce nella misura in cui fa crescere gli altri: Gesù libera la donna resa curva dal demone che la schiaccia e la difende dalle autorità che vogliono impedire la sua guarigione rimettendola alla legge rituale e così mette in pericolo la sua stessa vita. Usa la sua libertà e la sua vigorosa autorità per “rafforzarla” perché possa raddrizzare le proprie forze. Le restituisce la sua dignità umana, la libera perché continui il suo cammino diritta (guarita) e libera (cfr Lc 13, 10-17).

Applicazione ad intra

Quanto detto finora può essere dato per scontato. Certamente, negli ultimi decenni, le congregazioni religiose hanno cambiato il loro modo di intendere l’esercizio dell’autorità e non c’è dubbio che vi sia anche molta buona volontà per metterlo in pratica. Tuttavia, ci sono molte preoccupazioni per la realtà della vita quotidiana. Possiamo dare per scontato che le superiore e le formatrici, con autorità, fanno si che ogni Suora – dalla novizia alla più anziana – possa svilupparsi “così come Dio l’ha pensata”? O non accade ancora troppo spesso che i “processi di formazione” (sia iniziale che permanente) siano più simili ad un “letto di Procuste”? (Procuste era un personaggio malvagio della mitologia greca, che offriva ospitalità ai viaggiatori solitari. Se la vittima era alta e il suo corpo più lungo del letto, tagliava le parti del corpo che sporgevano. Se invece la vittima era più corta del letto, la allungava con forza. Il “letto di Procuste”, dunque, è una metafora per uno standard arbitrario per forzare ad un conformità perfetta). Non è forse ancora una preoccupazione dominante che le persone “si adattino” (conformino) piuttosto che accompagnare ognuna nell’affascinante avventura dell’incontro col proprio mistero e di realizzarsi in pienezza? Non predomina generalmente la paura per chi si distacca dall’ordinario? “Si taglia ciò che sporge” afferma un proverbio tedesco.

Una variante particolarmente triste del “letto di Procuste” è stata la ‘formazione’ delle religiose africane, indigene o latino-americane da parte delle fondazioni di origine europea. In nome della formazione religiosa si distruggevano i loro modelli culturali e venivano sottoposte ad una violenta ‘europeizzazione’. In tal modo si mutilavano gravemente queste persone che rimanevano separate dalle sorgenti profonde della loro vitalità e creatività. L’arroganza dell’eurocentrismo e la sua mania di superiorità sono state superate in profondità e verità? Noi europei abbiamo rinunciato veramente alla “sovranità di interpretazione” di ciò che è e di ciò che deve essere la vita religiosa? Possiamo accettare e rispettare serenamente la ‘de-europeizzazione’ e la ricchezza del pluralismo culturale: la pluralità nello stile di vivere in comunità, di realizzare la missione e di esprimere il nostro rapporto con Dio?

Queste domande si impongono perché toccano il modo di vivere le relazioni umane nelle congregazioni. A livello teorico, abbiamo superato il modello gerarchico-verticale, centrato sulla superiora che controlla tutte le relazioni delle suore, all’interno della comunità e, ancor più, al di fuori di essa. Senza dubbio, i modelli, sofferti e interiorizzati nel corso dei secoli, continuano ad agire a livello inconscio, e quindi in maniera più sottile. Realmente i processi di formazione si sono liberati dal modello della dipendenza e del controllo o continuano, in maniera nascosta, la loro opera distruttiva? Promuovono e facilitano realmente lo sviluppo di relazioni adulte e riconoscono il valore fondamentale dell’amicizia tra le suore e con le persone che vogliamo servire? Un abisso separa la sintonia e la vivacità tra persone adulte e mature nella propria identità dalla uniformità. Infine, una comunità strutturata sul controllo e sulla uniformità non serve per la missione evangelica. L’unico modello di comunità che ci impegna è il movimento di Gesù: semplice, fraterno e con un grande calore umano per accogliere e condividere la vita con tutti gli esclusi dal banchetto dei ricchi e dei potenti.

Applicazione ad extra

Queste due concezioni della leadership si possono spiegare anche utilizzando la “meditazione delle due bandiere” degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola. Egli ci invita ad un esercizio di immaginazione, ad immaginare due leader opposti, Cristo e Lucifero. Descrive il profilo di queste due modalità di signoria, abissalmente diverse, con metafore forti e primitive: Lucifero, il “nemico mortale della natura umana” si trova seduto a Babilonia “su un grande trono di fuoco e di fumo, orribile e spaventoso nel suo aspetto”. Si tratta di una suggestiva manifestazione del potere che affascina e, a volte, provoca come prima reazione, quasi inevitabilmente, sottomissione e servilismo. E’ un potere fondato sulla paura. Lucifero insegna ai suoi demoni una tattica sottile di seduzione. Comanda loro di risvegliare nei loro seguaci, prima di tutto, l’avidità per le ricchezze per spingerli poi verso la brama del vano onore e di una immensa superbia. Il suo trucco geniale è che seduce con la falsa promessa che coloro che si sottomettono al suo dominio aumenteranno in dominio e prestigio. Ma, in verità, questa dinamica sfocia in un sistema di dipendenza, che distrugge ogni autodeterminazione e sottomette in maniera brutale. Alla fine, vincitori e vittime si troveranno intrappolati nelle stesse “reti e catene”.

L’applicazione di queste due metafore primitive ai poteri che dominano in gran parte del mondo è ovvia. L’industria degli armamenti, le borse e le agenzie di rating con le loro ampollose liturgie e simboli di potere, condannano innumerevoli esseri umani alla miseria. Proprio come i demoni, i soggetti che agiscono, usurai e lobbisti, non hanno volto, rimangono nascosti dietro una facciata ingannevole, dietro “il fumo e il fuoco”.

L’altra bandiera, l’altro leader che Ignazio ci presenta è “Cristo, nostro Signore”, seduto a Gerusalemme, “un luogo umile, bello e gradevole”. Nessuna dimostrazione di potere, ma l’invito alla povertà e alla umiltà. Ignazio vuole provocarci col paradosso di un Cristo che “conquista” (tra virgolette) tutto il mondo con la rinuncia radicale ad ogni violenza ed imposizione e che invita i suoi seguaci a seguirlo nello stesso cammino. Il motore del mondo, ai tempi di Ignazio di Loyola, così come oggigiorno, è la cupidigia ad accumulare ricchezze, capitali. E, il prestigio che una persona, una comunità, un gruppo sociale conquistano, si misura in base alla quantità di ciò che hanno accumulato. Chi non si sottomette a questa logica diventa ridicolo e soffre di impotenza. L’invito di Cristo alla povertà ed all’umiltà è un invito a “invertire la rotta” della logica del mondo in modo radicale. Ignacio Ellacuría, in un discorso a Barcellona, il 6 novembre 1989, dieci giorni prima di essere assassinato, afferma: “Solo con l’utopia e la speranza si può credere e avere il coraggio necessario per tentare di cambiare la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione, insieme a tutti i poveri e gli oppressi del mondo”. L’umiltà non è un desiderio perverso e autodistruttivo, ma il valore e la libertà di vivere radicalmente “contro corrente” e la disponibilità ad assumere le conseguenze con semplicità. Smascherare le reti di dipendenza, scoprire i giochi dell’imposizione, dell’ansia di profitto e del servilismo, disturba gli interessi dei “potenti” e, per questo, si attira la persecuzione e la croce. Il Regno di Dio può irrompere in questo mondo reale solo grazie a chi ha il coraggio di seguire il cammino di Gesù e solo così le relazioni tra le persone possono diventare più umane.

Ovviamente, la “logica del mondo” penetra anche in tutti i livelli della Chiesa e nelle comunità di religiosi e religiose. Anche nelle nostre comunità viviamo in una continua lotta tra “i due regni”, tra “le due bandiere”. Per questo, per esercitare l’autorità all’interno e all’esterno della Chiesa, abbiamo bisogno di persone che abbiano integrato tutte le energie vitali ed aggressive e che siano capaci di usarle liberamente per l’inevitabile battaglia. La motivazione che le spinge non è certamente la sete di potere, ma la passione per la vita, la passione per le vittime del potere, che è la passione per Dio stesso. Abbiamo bisogno di occhi limpidi e di un cuore puro e onesto per scoprire e denunciare con coraggio le strutture, e le persone che si nascondono dietro di esse, che sottomettono e sfruttano altre persone economicamente, psicologicamente e socialmente.

Gesù è l’ “autorità liberatrice” incarnata e il suo modo di “governare” è l’archetipo e il “canone”, la misura normativa, di ogni legittima autorità nella Chiesa. Tuttavia, già nei primi secoli del cristianesimo, il modello giudaico patriarcale cominciò a sostituire lo stile di Gesù. Che differenza tra l’autorità di Gesù e il buon patriarca delle lettere pastorali! Da una parte Gesù, che valorizza i piccoli e gli emarginati e che mantiene relazioni fraterne e paritarie con le donne. Per questo, sfida i sacerdoti e gli anziani del popolo e affronta con libertà Pilato, il rappresentante dell’Impero che ha il potere di torturarlo e di ucciderlo. Dall’altro lato, come modello della ormai prossima autorità ecclesiale, il buon padre di famiglia che governa bene la propria famiglia e mantiene sottomessi i suoi figli con ogni dignità” (1 Tim 3,4). Perdonate la mia domanda che può apparire ingenua o maliziosa, ma che è totalmente sincera: Com’è stato possibile che la Chiesa si sia allontanata così rapidamente dalle parole di Gesù: “Voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23, 8f)?

Sappiamo bene che le cose si complicheranno ancor di più quando la Chiesa, nel secolo IV, non sarà più una minoranza oggetto di persecuzione e si convertirà nella Chiesa dell’Impero, partecipando ed appoggiando il suo potere. L’autorità evangelica si converte in “potestas sacra”, in “potere sacro”. La comunità dei cristiani cessa di essere una Chiesa del martirio al seguito di Gesù, il protomartire, dando la sua vita per la difesa delle vittime. La stessa Chiesa diviene sempre più parte di quel mondo che produce vittime, o almeno le tollera come un “effetto collaterale”. La simbiosi tra potere politico e potere ecclesiale comporta il grave pericolo che la Chiesa tradisca la sua essenza, la sua missione, che perda la sua autorità, che ha il suo unico fondamento in Gesù e nel Vangelo, per trasformarsi in un’istituzione potente che difende, prima di ogni cosa, i suoi interessi. Tuttavia, sin dalle sue origini come comunità di Gesù, la Chiesa ha un unico diritto di esistere: rendere presente – con l’autorità di Gesù – il Vangelo come realtà salvatrice e liberatrice nelle situazioni che affliggono e schiavizzano concretamente gli esseri umani in questo mondo.

2. La sedia vuota

Per la tradizione cattolica il concetto di “rappresentazione” è essenziale per la comprensione dell’autorità nella Chiesa. Un’eco di questo si trova nelle regole e nelle costituzioni di ordini e congregazioni. Le Costituzioni della Compagnia di Gesù in modo molto naturale parlano del Papa come del “Vicario di Cristo nostro Signore” e del Superiore come “colui che è al posto di Cristo nostro Signore”. Ma, è davvero possibile “sostituire”, “rappresentare”, “stare al posto di” Cristo, del “Messia”? E questo può accadere come “opus operatum”, non per l’autorità o il carisma che corrisponde ad una persona, ma per l’incarico assegnato? Si può davvero “istituzionalizzare” l’autorità liberatrice di Gesù? Si può “rappresentare” l’autorità di Dio in questo mondo contingente e relativo?

Si può dare per scontato che, certamente, tutto questo non va inteso al modo dei faraoni, degli imperatori, come un’apoteosi che colloca una figura storica tra gli dei, né al modo dei leader e dei capi militari che “per grazia di Dio” sottomettono i popoli. Nel corso della modernità, la Chiesa e la teologia hanno imparato in un doloroso processo che non è possibile applicare questo modello al governo ecclesiale e che non è permesso fondere l’autorità spirituale e il potere politico. E, anche se troppo tardi, il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che non si può intendere la “rappresentazione”, come un concetto antidemocratico che nega la dignità del popolo e perpetua la costruzione del potere dall’alto.

In definitiva, in che cosa consiste il significato autentico di “rappresentazione”, di “Vicario di Cristo in terra”, dell’essere “al posto di Cristo”? In effetti, il potere ecclesiale e spirituale è un paradosso, che esiste solo nel suo continuo superamento. Esso tradisce la sua essenza e vocazione nel momento stesso in cui “prende” il potere, in cui si installa nel potere come i potenti di questo mondo. Al contrario, tanto più rappresenta l’autorità di Dio, l’autorità di Cristo, quanto più rimane solamente un indicatore, una mano che punta fuori di se stessa verso l’Altro più grande. “E non fatevi chiamare “maestri’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo” (Mt 23, 10). Il lungo dito indice del Battista che addita il Cristo crocifisso sopra l’altare di Mathias Grünewald può essere il simbolo di tale rappresentazione: “Io non lo sono. … Io non sono il Cristo” (Gv 1, 20-21).

Ogni “rappresentazione” dell’autorità di Dio è soggetta alla “proibizione delle immagini”: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio forte e geloso …” (Es 20, 4-5). Il compito più nobile dell’autorità spirituale è mantenere libero, con forza, quello spazio che appartiene unicamente a Dio.

Nella tradizione ebraica troviamo la metafora della sedia vuota. Durante il Seder, il pasto della notte del Pesaj, si lascia intorno al tavolo una sedia vuota per il profeta Elia, che esprime la speranza che egli torni insieme al Messia. Agnes Heller, una filosofa di origine ungaro-ebraica, sfuggita alla macchina mortale dei nazisti, interpreta questa metafora in modo geniale. “La sedia vuota è in attesa del Messia. Se qualcuno occupa questa sedia, si può star certi che si tratta di un Messia pervertito o falso. Se qualcuno porta via questa sedia, la rappresentazione è finita e lo Spirito abbandonerà la comunità. La politica non può utilizzare questa sedia, ma fintantoché la si lascerà dove si trova, esattamente al centro della sala, in cui resterà immobile col suo vuoto ammonitore e forse persino patetico, gli attori politici dovranno fare i conti con la sua presenza. Ma almeno, sono liberi di contare sulla sua esistenza. Tutto il resto è pragmatismo” [3]

Se questo requisito è valido per qualsiasi esercizio del potere politico è ancor più valido per qualsiasi esercizio dell’autorità spirituale. Non consente alcuna “intronizzazione”, chiunque si siede sulla sedia la profana. L’autorità nella Chiesa è legittima solo nella misura in cui lascia vuoto quello spazio che non le appartiene.

3. “La terribile banalità del male” in nome dell’obbedienza

Parlare di obbedienza in un mondo che è passato attraverso la critica dell’Illuminismo è una questione molto difficile: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è causa” risuona il motto kantiano. In un mondo post-illuminista la rinuncia all’autodeterminazione non è più considerata una virtù, ma una vigliaccheria che non ha il coraggio di assumersi la responsabilità del proprio agire, in ultima analisi come una condotta immorale. Lasciarsi condurre dai criteri e dalla volontà di altri senza prima esaminarli appare alienante e disumanizzante. Inoltre, non è solo difficile, ma quasi impossibile parlare di obbedienza – anche dell’obbedienza religiosa – dopo i principali sistemi fascisti e totalitari del XX secolo.

Nel 1961 la filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt potè assistere, a Gerusalemme, come giornalista, al processo di Adolf Eichmann, che aveva organizzato il trasporto di milioni di ebrei nei campi di concentramento. La sua scoperta più raccapricciante fu quella della “terribile banalità del male”. Quest’uomo, che condusse migliaia di esseri umani verso una morte spaventosa, era privo di qualsiasi motivazione, né vi era alcunché di grandioso nella sua perversione. Eichmann è stato semplicemente un burocrate, che ha commesso i suoi crimini di “sterminio amministrativo di massa” con la coscienza tranquilla, perché eseguiva atti richiesti dai suoi doveri, agendo per obbedienza a “ordini superiori”. La sottomissione all’autorità si rivelò uno strumento di barbarie. [4]

Nel racconto della Arendt è molto triste leggere di come Eichmann, in sua difesa, esaltasse “l’obbedienza cieca” e “l’obbedienza dei cadaveri”, un’eco perversa delle Costituzioni della Compagnia di Gesù. [5] I carnefici nazisti, come la maggior parte dei carnefici di ogni dittatura militare e dei regimi totalitari del XX secolo, si sono giustificati affermando che agivano per “obbedienza dovuta”. Da allora, la parola “obbedienza” è stata definitivamente infangata e inficiata.

Tenendo presente tutto questo si può ancora riscattare l’obbedienza come concetto della vita religiosa, della vita religiosa rinnovata secondo il Concilio Vaticano II? Ovviamente dobbiamo ricordare che Ignazio di Loyola – in sintonia con tutta la tradizione della vita religiosa – pone una condizione essenziale per l’obbedienza: ascoltare la voce del superiore “come se provenisse da Cristo nostro Signore”, “in tutti i casi in cui non c’è evidenza di peccato” e “in tutto ciò cui si può estendere l’obbedienza”.[6] Ignazio non sospende la responsabilità individuale, nega la dignità della coscienza di ogni persona o la consegna all’arbitrio di un superiore. Ma, non basta affermare questo se non facciamo prima una giusta critica.

Certamente, il voto di obbedienza, l’obbedienza religiosa, in ultima analisi, può rispondere solamente all’autorità di Dio. Nel linguaggio tradizionale, compiere la volontà di Dio è l’unica motivazione legittima dell’obbedienza religiosa. Proprio per questo, i veri obbedienti sono veramente liberi e sono pericolosi per i potenti. Consapevoli di essere dedicati incondizionatamente all’autorità suprema, sono liberi da ogni servilismo. Anche rischiando la propria vita hanno il coraggio di affrontare qualsiasi situazione: sono liberi di guardare in profondità e di camminare sulle orme di Gesù.

La questione decisiva è quindi: come facciamo a trovare la volontà di Dio nella realtà quotidiana della nostra vita senza ingannarci e senza cadere nell’infantilismo? Dove Dio ci parla in maniera “infallibile”? In definitiva, non ci rimane che proteggere “la sedia vuota” che ci conduce al mistero trascendente e, così, allo stesso tempo, proteggere la coscienza individuale? O appare improvvisamente una vera mediazione, una “presenza reale”, un “sacramento” dell’autorità suprema, “materializzato” in modo reale e concreto in questo mondo che, a pieno diritto, può esigere – e lo merita – la nostra obbedienza incondizionata?

4. L’autorità di chi soffre

“Conosco una sola autorità che non può essere revocata da nessuna spiegazione o emancipazione: l’autorità di coloro che soffrono” [7] Così afferma il teologo tedesco Johann Baptist Metz, in una conversazione con il sopravvissuto all’Olocausto e Premio Nobel della Pace, Elie Wiesel.

Certamente, l’autorità di Dio non si rivela come apoteosi nelle manifestazioni del potere, né del potere politico, né del potere sacrale, quanto piuttosto “sub specie contrarii”, in ciò che pare essere il suo opposto. Tutta la piena autorità di Dio è realmente presente, ha corpo e visibilità, nei più vulnerabili, in chi non ha potere, nelle vittime. Gesù stesso, nella sua famosa parabola sul giudizio finale (Matteo 25) pone l’intera storia dell’umanità sotto “l’autorità di coloro che soffrono”. La loro autorità è l’unica nella quale si può manifestare l’autorità di un Dio Giudice di tutti gli esseri umani, in tutto il mondo ed in ogni tempo. Ciò che noi chiamiamo la voce della coscienza è la nostra reazione di fronte alla sofferenza altrui. [8]

Il sistema politico dominante, la democrazia liberale è un concetto fortemente incentrato sulla “uguaglianza” di tutti gli esseri umani. Di conseguenza, con buone o cattive intenzioni, spesso immagina un mondo fantasma, l’illusione di un mondo egualitario senza sofferenza, in cui tutti abbiano le stesse opportunità. Ma questa finzione non ha nulla a che vedere con il nostro mondo reale. Proprio perché il nostro mondo è uno scandalo di disuguaglianza e ingiustizia, la “parzialità” di Dio a favore delle vittime, degli emarginati e degli esclusi ha bisogno di una “rappresentazione” nella storia concreta. “La Chiesa non esiste per rappresentare il potere politico, ma per riportare alla memoria l’impotenza politica”. [9] Questo è, in definitiva, la legittimazione più profonda di ogni autorità nella Chiesa.

Quelli che muoiono di fame o a causa di violenza come conseguenza di una disuguaglianza scandalosa, i migranti, combattuti da Europa e Stati Uniti nei loro confini meridionali, i prigionieri politici di tutte le vittime, tutti questi rappresentano la massima autorità alla quale dobbiamo rispondere senza protestare. Nessuna istanza, neppure l’istanza gerarchica più alta della Chiesa, sta al di sopra di questa autorità. Un’obbedienza ed un amore adulto alla Chiesa sanno che questa è la vocazione più nobile della Vita Religiosa, il servizio di verità che dobbiamo alla Chiesa: sottometterci all’autorità delle vittime e affermare profeticamente che tutta la Chiesa deve configurarsi e definirsi a partire da questa autorità. Se la Chiesa non fa questo deforma il volto di Gesù Cristo.

Come vivere il voto di obbedienza di fronte “all’autorità di coloro che soffrono”?

Fondamentalmente, “l’obbedienza cieca” – nel senso peggiore – è un atteggiamento di comodo e indegno di una condotta adulta: accettare il comando di un altro, eseguire un ordine e sfuggire, così, alla propria responsabilità e alle conseguenze del proprio agire. Anche dalla “autorità di chi soffre” nasce un “ordine” che ci impegna in modo incondizionato e radicale, senza sospendere in alcun modo la responsabilità individuale. Obbedire al comando delle vittime non rende immaturi, al contrario esige un atto libero ed adulto dal più profondo della persona. Un atto che ci rende persone realmente umane.

Vivere il nostro voto di obbedienza, sotto l’autorità di chi soffre è un processo complesso con molteplici dimensioni: personale e comunitaria, mistica e politica. Ma, tutto inizia con qualcosa di semplice e di elementare: risvegliarci dal nostro narcisismo e dal nostro mondo autoreferenziale e aprire gli occhi e il cuore alla sofferenza di un altro essere umano. La cosa fondamentale è quella di resistere alla tentazione di guardare dall’altra parte o di rifugiarsi nell’apatia. Nella parabola del “Buon Samaritano”, Gesù racconta che un uomo è caduto nelle mani dei ladri che lo hanno derubato e picchiato. Un sacerdote e un levita vedono il ferito, ma hanno “interessi più importanti” di cui occuparsi. Ma chi cerca “Dio”, nel senso di Gesù, non conosce “interessi più importanti”: Dio lo attende nel fratello o nella sorella maltrattati e non è possibile incontrarlo altrove. Il cristianesimo non conosce altra mistica che la mistica degli “occhi aperti”.

E allora come rispondere a ciò che vedono gli occhi e sente il cuore di fronte ad un essere umano che soffre? Nel modo più semplice e naturale: curando le ferite, preparando un pasto, offrendo accoglienza ed un aiuto economico. Fare questo non è affatto un atto di generosità, ma è obbedire in modo semplice all’autorità di chi soffre. È necessario un lungo processo di discernimento per decidere cosa fare. Tuttavia, questo si impone, con un’evidenza inequivocabile, ad ogni persona retta. Questa esperienza corrisponde a ciò che Ignazio di Loyola definisce “ il primo tempo per poter fare una scelta buona e sana”: la volontà di Dio si rivela in maniera immediata e sconvolgente. “Una persona fedele compie quello che le viene proposto senza alcuna incertezza o possibilità di incertezza” [10], in caso contrario sarebbe una disobbedienza evidente. Con le parole di un filosofo moderno: “Guarda con attenzione e lo saprai” [11].

È già tanto se obbediamo pienamente in quelle situazioni che ci interpellano in modo chiaro e manifesto. Ma, sappiamo bene, che molto spesso la vita è molto più complessa ed ambigua. Anzitutto, perché non sempre è evidente quali sono veramente le misure che promuovono la vita dell’altra persona e, in secondo luogo, perché la maggior parte delle volte i malfattori non sono singoli ladri, ma persone che ricevono la loro forza come parte delle “reti del male”, siano queste reti il crimine organizzato, il narcotraffico, i trafficanti di persone e di organi, o la politica neoliberale e l’avidità per il petrolio e per le “terre particolarmente ricche”.

Inoltre, sorge una domanda difficile e inquietante: In che modo è possibile tradurre il messaggio della parabola del buon samaritano nel contesto di un mondo globalizzato? Oggi non si tratta di una persona caduta nelle mani dei banditi, ma di una parte importante dell’umanità. Qui è necessario un discernimento serio e profondo per capire come difendere la vita delle vittime di fronte a questa grande minaccia. Obbedire “all’autorità di coloro che soffrono” richiede, a questo proposito, tutta la nostra conoscenza e la nostra scienza, esige tutta la nostra creatività e la nostra fantasia per creare in modo efficace, in questo mondo reale sfigurato dal peccato e dalle strutture di peccato, spazi in cui la vita possa rifiorire.

Ha ancora valore ciò che Dietrich Bonhoeffer, il grande martire della Chiesa luterana tedesca, ha detto nel suo contesto storico: non è più sufficiente “assistere le vittime finite sotto la ruota”, ma ci viene richiesto di “bloccare i raggi per fermare la ruota” [12]. In questa dimensione la misericordia e l’amore appassionato devono tradursi in strategie ben pensate. Con l’astuzia del Vangelo, come congregazioni religiose possiamo sfruttare il nostro vantaggio di essere uno dei primi “global player” nella storia umana e utilizzare le nostre reti internazionali nella nostra congregazione, in collaborazione con altre congregazioni e tessendo relazioni con tutti coloro che lottano per l’umanizzazione del pianeta.

Il discernimento, come risposta “all’autorità di chi soffre” – realizzando, in tal modo, il nostro voto di obbedienza – è un compito permanente ed esigente. È un compito che esige il dono di ogni persona nella parte più intima dell’essere ed è un compito che richiede un impegno comunitario costante e tenace. Fondamentalmente, è un esercizio di “contemplazione”, l’esercizio di guardare e ascoltare con attenzione e onestà, perché “l’autorità delle vittime”, il “sacramento della volontà di Dio” ci parli. È necessario un cuore che ascolti con pazienza per comprendere ciò che le vittime ci chiedono concretamente in ogni situazione.

Se prendiamo sul serio questo concetto di obbedienza all’autorità di chi soffre, cosa può significare, allora, il ruolo di una superiora in una comunità religiosa? È superfluo? Certamente no, ma bisogna fare uno sforzo rigoroso per ripensare la sua funzione a partire dalle origini della vita religiosa. Non vi è alcun dubbio che anche le superiore sono sotto “l’autorità di chi soffre” e dedicate ad essa. Tuttavia, proprio per questo l’autorità delle superiore è più necessaria che mai. Il loro compito più nobile è vigilare attentamente perché tutta la comunità si sottometta all’unica rappresentazione legittima dell’autorità di Dio in un processo continuo. Il loro ruolo è quello di animare e richiedere con forza il discernimento, ma più di tutto devono far si che tutta la comunità si metta in marcia “pronta e sollecita” [13]: si avvicini fisicamente ai poveri e agli esclusi e condivida con loro la vita e le loro afflizioni, apprenda il loro linguaggio e cerchi e goda della loro amicizia. In sintonia con questo, dobbiamo riconoscere che ci dà una enorme speranza e ci apre una breccia che ci permette di continuare ad andare avanti, il fatto che Papa Francesco definisca il suo ministero esattamente in questo modo, quando dice: “La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria”.

Se ci sottomettiamo decisamente “all’autorità della sofferenza”, andremo verso un rinnovamento profondamente evangelico della vita religiosa, verso una vita autentica e feconda, secondo i consigli evangelici. E i nostri fratelli e sorelle più vulnerabili diventeranno i nostri veri maestri e guide verso il mistero di Dio.

NOTE:

[1]Max Weber, Economía y Sociedad. Esbozo de sociología comprensiva, México 1944, p. 43.
[2]Costituzioni della Compagnia di Gesù, N° 736.
[3]Johann Baptist Metz, Dios y tiempo. Nueva teología política, Madrid 2002, p. 220s.
[4] Cfr. Hannah Arendt, Eichmann en Jerusalén. Un estudio sobre la banalidad del mal, Barcelona 1999.
[5]“rinnegando con cieca obbedienza ogni parere e giudizio personale in contrario, in tutte le cose che il superiore ordina… Persuasi come siamo che chiunque vive sotto l’obbedienza si deve lasciar portare e reggere dalla Provvidenza, per mezzo del superiore, come se fosse un corpo morto”. Costituzioni della Compagnia di Gesù, N° 547.
[6]Costituzioni della Compagnia di Gesù, N° 547 e 549.
[7]Johann Baptist Metz / Elie Wiesel, A pesar de todo, Madrid 1996, p. 42.
[8] Cfr. Johann Baptist Metz, Dios y tiempo. Nueva teología política, Madrid 2002, p. 228s.
[9]Johann Baptist Metz, Dios y tiempo. Nueva teología política, Madrid 2002, p. 219.
[10] Cfr. Esercizi Spirituali, N° 175.
[11] Hans Jonas según Johann Baptist Metz, Memoria passionis. Una evocación provocadora en una sociedad pluralista, Santander 2007, p. 167.
[12]Cfr. D. Bonhoeffer, DBW 14, p. 421.
[13]Ejercicios Espirituales, N° 91.