Femminicidio

Dichiarazione di GENNARO MIGLIORE (SEL) alla Camera

Signora Presidente, colleghe e colleghi, signori del Governo, Vanessa Villani, una donna di 31 anni, si è da poche ore risvegliata dopo 75 giorni di coma.
Si era addormentata nel letto di casa sua e la madre aveva poi trovato il corpo esanime della figlia con la testa fracassata. Nel momento in cui si è risvegliata ha fornito le indicazioni necessarie per arrestare l’ex compagno, un uomo di 28 anni che, nel corso di queste giornate, non era stato ancora perseguito.
È una delle tante vicende drammatiche che si snodano, come un rosario di spine, nel corso della cronaca e della storia del nostro Paese, quella storia che ha motivato una denuncia fino all’organizzazione delle Nazioni Unite, che ha colpito il nostro Paese e che, per fortuna, è stata recepita positivamente dal nostro Parlamento e da questa Camera, con l’approvazione celere del provvedimento per il recepimento della Convenzione di Istanbul. Credo che quel recepimento, quell’atto parlamentare sia stato fondamentale anche perché approvato all’unanimità e devo dire che a quell’atto devono corrispondere i necessari provvedimenti, che dovranno implementare dei provvedimenti di legge, delle iniziative tese a contrastare a fondo il fenomeno della violenza e del femminicidio. Penso che sia un’intenzione sincera di tutta questa Camera.
Io devo dire che, però, arrivato a questo punto della nostra discussione, innanzitutto penso di dover esprimere delle parole di gratitudine nei confronti di vari soggetti, che nel corso di una battaglia durata decenni ci portano fino a questa condizione. Sono grato, innanzitutto, alle molte donne che ho conosciuto del movimento femminista storico, quelle che hanno nominato le parole dell’autonomia femminile, che hanno denunciato la subordinazione presente addirittura nelle leggi del nostro Stato, con un diritto di famiglia riformato solo nel 1975, quelle che hanno detto «no» alla violenza sul corpo delle donncitati per nomee che volevano interrompere la loro gravidanza o a quelle che volevano interrompere il rapporto con il proprio partner attraverso un divorzio.
Devo un ringraziamento alle giovani donne che nel corso di questi anni hanno portato alla luce e hanno nominato il tema del femminicidio, perché dare il nome alle cose è il primo passo per realizzare una trasformazione profonda del senso comune e del pensiero. Devo un ringraziamento alle donne impegnate in politica, di destra e di sinistra, che hanno attraversato anche consuetudini e ipocrisie interne ai loro partiti e che hanno scelto di liberare così una forza che è riuscita a contaminare positivamente tutto questo Parlamento. E devo un ringraziamento a lei, Presidente, perché la sua testimonianza si è trasformata anche in una battaglia concreta che, per quanto ci riguarda, è il fondamento anche di questo buon lavoro fatto nel ricostruire una mozione unitaria di tutto il Parlamento.

Ma devo un ringraziamento anche a quegli uomini – non sono tanti, a dir la verità – che nel corso di questi anni hanno, spesso solitariamente, lottato per dire che il problema della violenza è un problema maschile, un problema degli uomini, e che le donne la subiscono questa violenza. Adriano Sofri, Stefano Ciccone, Marco Deriu, Alberto Leiss, sono uomini che prima di noi hanno affrontato il tema e l’hanno reso plausibile all’interno di una rielaborazione anche del maschile che, per quanto ci riguarda, è fondamentale anche per leggere questi numeri agghiaccianti: 7 milioni di donne che hanno subito violenza, un milione che ha subito stupro. Sono stati qui raccontati anche dagli interventi che si sono succeduti, anche quelli che ho molto apprezzato del nostro gruppo, e ho ringraziato le compagne del mio gruppo, perché hanno scelto di far pronunciare a me la dichiarazione di voto, un maschio, un uomo.
Io penso che questa idea che la violenza è una componente fondativa del nostro modello di convivenza deve essere assunta come un principio sul quale riflettere e va smontata grazie alla nostra capacità di rielaborazione e alle nostre misure concrete, che mettano in pratica gli strumenti per rimuovere le disuguaglianze che ci sono, così come scrive l’articolo 3 della nostra Costituzione, così come necessita di intervento la disparità che è evidente nel lavoro, nel sistema sociale, nella scuola, e che deve essere accompagnata da misure di protezione e di incoraggiamento alla denuncia da parte delle tante donne che spesso non hanno ancora gli strumenti per denunciare.
Abbiamo giustamente svelato il velo che copriva la violenza domestica e familiare e l’abbiamo vista nella sua potente compresenza nella nostra vita quotidiana. Non dimenticheremo però le donne migranti, le prostitute, le donne schiave, che sono oggetto di una violenza sistematica. Ed è per questo motivo che anche nella mozione io credo sia stato fondamentale farvi riferimento, anche perché per loro vale una doppia discriminazione, spesso anche l’incapacità di avere reti di protezione adeguate.
Gli uomini non accettano l’alterità della loro compagna quando questa è oggetto di una violenza e preferiscono cancellare questa alterità piuttosto che accettare la propria parzialità e c’è un affanno, una mancata rielaborazione maschile di fronte alla libertà e all’autonomia femminile. Per questo penso che le indicazioni concrete contenute nella mozione, come il Piano nazionale contro la violenza, debbano essere oggetto certamente di un’iniziativa legislativa, ma anche di una promozione di una cultura differente – e voglio nominarla per come io mi sento –, di una cultura non violenta nel rapporto tra mezzi e fini e tra come vengono intesi i rapporti tra gli uomini e le donne. La non violenza non è un affare di pochi pacifisti, è uno strumento di intervento e di lotta che serve anche per mettere in discussione ciò che mette a rischio anche una riflessione più profonda per estirpare dentro la nostra società le ragioni della violenza contro le donne.
In realtà, io mi sono chiesto se il problema è di quell’uomo diverso, di quello che si ubriaca, di quello che viene tradito e che usa questa parola in senso negativo e che non accetta la libertà della propria compagna, se sia un problema di un altro uomo o sia un problema anche mio, di uomo che vive in una società patriarcale, nella quale se non si mettono in discussione i fondamenti di questa società, sarà difficile affrontare, anche con la costruzione di una stigmatizzazione di qualcuno che non ci appartiene, un’idea anche di autoassoluzione. Io penso che questo sia il tema rispetto al quale tutti gli uomini, noi compresi, ci dobbiamo mettere di fronte.
Il rapporto tra uomo e donna è l’esemplificazione del fatto che la violenza, in questa situazione, non viene più accettata – ed è importante che sia stata nominata dalle donne – come un esercizio di un’autorità correttiva, ma diventa un potere arbitrario e lesivo della dignità delle donne e della loro autonoma soggettività. Per questo noi dobbiamo un enorme ringraziamento alle donne che hanno iniziato a trovare le parole per esprimerla, questa violenza, e denunciarla, perché parla di noi, parla della libertà e dei poteri femminili che ancora mancano e che ancora fanno paura. E qui vorrei dire una cosa: le identità oggi sono fragili, le comunità spesso sono illusorie, le famiglie, al di là di ogni retorica, sono plurali e diversificate. I legami sono fragili e l’espressione che cova dentro la società patriarcale della violenza segna innanzitutto un’impotenza e una frustrazione che rappresenta in primo luogo il tema su cui noi uomini, noi maschi, non possiamo più rimetterci semplicemente alla volontà della legge, ma a un pensiero più profondo che attraversi la nostra esistenza.

5/6/13