2013. Anno nuovo, vecchi conflitti d’interessi

Gianni Rossi
Paneacqua News

Anno elettorale pesante questo 2013. Elezioni politiche generali, regionali (Lombardia, Lazio e Molise) e locali. In tempo di crisi è quanto di più problematico ci si possa aspettare. Una crisi che dura dal 2008, che è passata da finanziaria a industriale, quindi economica globale, culturale e istituzionale.

Neppure i governi cosiddetti “tecnici” sono riusciti a mettere su binari sicuri un paese come l’Italia, nonostante massicce dosi di tasse e leggi che hanno modificato in peggio il welfare state nostrano, già molto carente ed esoso di suo.

Abbiamo assistito da oltre un anno anche ad una strana e sconcertante “Grosse Koalition” in salsa mediterranea, dove i nemici di sempre si sono messi insieme facendo finta di rimanere gli uni contro gli altri, ma poi sempre pronti a votare le norme più antisociali che questo paese abbia mai potuto sopportare.

E niente di nuovo è successo sul versante dei diritti e delle leggi di modernizzazione, che avrebbero potuto modificare realmente lo stato delle cose. Sembra un ritornello che andiamo ripetendo da oltre un decennio alla stragrande maggioranza della classe politica, soprattutto quella consociativa della Grosse Koalition: la regolamentazione dei conflitti di interessi, una più stringente normativa antitrust, una legge di sistema sui media radiotelevisivi, pubblici e privati, e sulle nuove piattaforme web.

Ci si è spesso rivolti a noi come fossimo dei “sognatori”, degli illusi “sessantottini”, degli ingenui “fuori dal tempo”. Eppure non c’è democrazia compiuta, capitalistica avanzata, liberale, che non abbia da molto tempo prima ottemperato a queste riforme, proprio per difendere i diritti delle “minoranze”, dei “concorrenti”, di coloro che pur volendo competere non avevano però i mezzi adeguati per farsi spazio nel libero mercato, fosse questione di finanza, di industria, di libera espressione del pensiero, di politica e più in generale di un’affermazione di diritti fondamentali.

Nella maggioranza dei paesi aderenti all’Unione Europea esistono leggi che tutelano la concorrenza, che influiscono sui conflitti di interessi e che estendono i diritti fondamentali ai soggetti (persone singole, gruppi o società) che vogliono competere nel libero “gioco democratico”. Leggi votate nell’Europarlamento anche dai rappresentanti italiani, senza distinzioni politiche. Eppure, queste normative non sono mai state prese come punto di riferimento dal Parlamento italiano, se non qualche volta in maniera molto blanda.

Dietro alla “cacciata” dal governo di Berlusconi e della sua “compagnia di saltimbanchi” non c’è stata una “Congiura”, come il Pifferaio stonato di Arcore si ostina a denunciare nella sua ossessiva controffensiva mediatica; ma una presa d’atto della Cancellerie europee ed americane che proprio il “berlusconismo” con i suoi tanti conflitti di interessi potesse estendersi come un virus al di là dei confini italici. Ecco quindi la pressione costante e brutale dei mercati finanziari, la delegittimazione di Berlusconi nei consessi internazionali, le campagne stampe che ne ripercorrevano i tanti scandali giudiziari e amplificavano le sue “scorribande erotiche”.

Faceva paura alle Cancellerie quell’intreccio perverso tra potere pubblico e sistema dei media (dalla comunicazione, al cinema, alla pubblicità), ovvero il “cuore” delle moderne democrazie.

Faceva paura la disinvolta politica affaristica del Pifferaio, che di volta in volta si alleava con Gheddafi e con Putin, solo per fare degli esempi eclatanti, nei settori dell’energia, dei media e in chissà quali altri business meno noti.

Faceva paura il suo euroscetticismo, che già tanto serpeggia nei paesi dell’Est Europa.

Faceva paura la sua estrema difesa di un passato oscuro che riportava a frequentazioni mai chiarite con personaggi a loro volta inquisiti per mafia, spesso da lui stesso difesi strenuamente come persone degne di rispetto.

E faceva paura quel riprodursi di un “potere occulto”, non trasparente, basato su ristrette cerchie di salotti, lobbies, che riportavano alla memoria le trame oscure piduiste degli anni Settanta/Ottanta.

Quando si parla, insomma, del “vulnus” dei conflitti d’interessi irrisolti ci si rivolge a questo scenario inquietante, dove i veri “poteri forti” non fanno sconti a nessuno, neppure a chi proviene da quegli stessi ambienti.

Le regole del gioco capitalistico, piacciano o meno, sono quelle che vediamo in auge nei maggiori paesi industrializzati i quali, seppure in cerca di nuove identità, le difendono strenuamente e non possono permettersi, proprio nel pieno della più dura crisi dal 1929, che non vengano rispettate da tutti i partner e dai “competitors”.

Certo, le misure adottate nei paesi più a rischio (come i PIIGS europei, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) sono state eccessive e spesso controproducenti, “eterodirette”, “germanocentriche”. Ma né i partiti e i governi socialdemocratici, né quelli popolari o di centro liberal-conservatori, hanno trovato o saputo ideare ricette che andassero oltre la scuola “liberista e monetarista” dominante.

Destra e sinistra, come di fronte ad una guerra vera e propria, si sono alleate nel nome di una mera difesa dei valori conservatori, nell’abbattimento strisciante e continuo di quelle conquiste che proprio nel Dopoguerra destra e sinistra, socialisti, liberali e popolari, avevano attuate e allargate. Che avevano fato dell’Europa un faro avanzato nel sistema neocapitalistico moderno.

Oggi, mentre viviamo una crisi proprio dovuto all’esasperazione di quelle dottrine iperliberiste, monetariste e anti-industriali, le leaderships dominanti non sanno rivolgersi a quegli esempi illuminati del passato né trovano il coraggio per percorrere strade innovative, magari sposando le teorie neo-keynesiane con quelle sull’ecosostenibilità.

Cosa ci aspetta, dunque, con le prossime elezioni alla fine di Febbraio?

Nulla di nuovo, purtroppo!

Nessuna discussione sui temi qui trattati è stata appena messa in programma, nonostante le onorevoli intenzioni di alcune autorevoli personalità di farsene carico nella prossima legislatura. Ma intanto assistiamo alla “trombatura” eccellente di alcuni politici che da sempre si erano battuti per mettere in Agenda questi temi.

Dalla difesa dei diritti alla libera concorrenza in tutti i settori della società civile, sociale ed economica, dalla tutela degli spazi di libertà e democrazia, si misura il grado di maturità di un paese e la capacità del suo popolo di essere rispettato ed ascoltato da chi, di volta in volta, governa. Con la riduzione invece degli spazi di democrazia nei posti di lavoro, nell’informazione, con l’abbattimento di salvaguardie dello stato sociale nelle pensioni, nella salute e nell’educazione, un paese rischia non solo il collasso, ma anche la tenuta dell’ordine sociale.

L’Italia non è ancora uscita dall’era dei conflitti di interessi né sembrano farsene carico quei settori politici del Centro “montiano”, troppo presi ad onorare un’Agenda priva di innovazioni e zeppa di formule rigoriste, che non porteranno che ad altra recessione.

Eppure, basterebbe seguire il moderato esempio di giustizia sociale e fiscale che viene dall’amministrazione americana, dalla presidenza Obama con il suo piano teso a contrastare il fiscal cliff, per iniziare a tracciare un futuro diverso per l’Italia.

Non vorremmo, invece, che il 2013 si trasformasse in un altro anno “bisestile” come quello appena trascorso. I segnali che vengono dai paesi più in crisi dell’ Europa mediterranea sono preoccupanti; la tenuta della pace sociale anche in Italia è sempre più flebile.

E non saranno certo le tiepide promesse elettorali, il ricorso alla demagogia, al populismo e all’antipolitica, a placare gli animi di chi sta soffrendo dal 2008 per colpe non proprie