Donna, perchè piangi? (Gv 20:13)

Paola Cavallari

Quanti sospetti ed ostacoli verso un diaconato inclusivo per le donne?

Dalle donne emergono domande sofferte e sincere. Card. M. M. Martini

La samaritana, non appena terminato il suo dialogo con Gesù, divenne missionaria, e molti samaritani credettero in Gesù «per la parola della donna» (Gv 4,39). Evangelii gaudium n.120

 

  1. I laici e la Chiesa

Ha scritto Papa Francesco: “Tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità. Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo”(E.G n. 83). E allora: qual è la realtà italiana nelle attività – svolte da laici – di evangelizzazione, pastorali, catechetiche, liturgiche ecc. che si svolgono nelle parrocchie e nelle diocesi? E quanti di tali laici ricoprono queste funzioni perchè considerati dal vescovo o dal parroco fidati “esecutori”? E quanti sono invece “cattolici adulti”, che non rinunciano al dono di un proprio cuore pensante e alla fascinazione che la semplice Parola evangelica evoca alla loro anima in ricerca?

Un arcipelago di cattolici “adulti” – numericamente minoritario – sappiamo che esiste, anche se ignorato o sottovalutato dai mezzi di informazione. Ne sono la prova numerose riviste e associazioni, molto dinamiche, coraggiose, vitali, molte delle quali la rete dei Viandanti si è fatta carico di collegare.

  1. Esistono e quante sono le cattoliche laiche attive?

Affrontando il tema con una attenzione alle donne, pongo alcune domande.

  • ci sono in Italia spazi in cui donne sono state coinvolte o in cui sono state accettate nelle comunità cattoliche: 1. in una modalità egualitaria e non paternalistica; 2. con forme rispettose dei loro progetti, della loro operosità? O semplicemente del loro essere?
  • Esistono donne in Italia che possono realizzare la loro esperienza cristiana non soffocando l’esercizio della presa di parola in spazi ecclesiali/liturgici (e a quali livelli?); donne a cui sono riconosciute la funzione del diaconato nel senso letterale del termine, in quanto hanno assunto la presa in carico di alcuni compiti? Intendo non solo servizi di “manovalanza” (quella zona opaca che papa Francesco ha chiamato servidumbre, “servitù”, potremmo tradurre) ma servizi di autentica diaconia evangelica?
  • Esistono donne che in queste realtà attuano scelte in autonomia, anche in forma sinodale, e si sentono libere di esprimersi senza alcun pregiudizio per il loro genere? Oppure: quanta discriminazione hanno vissuto per essere parte del popolo di Dio femminile? Quanti e quali sussulti e oasi di “discepolato degli uguali” sono invece attivi?
  • Esistono e dove sono le donne che esercitano – “in libertà o nelle mediazioni” opportune – cioè in forme che sono frutto di relazioni – funzioni pastorali /ministeriali dentro la realtà ecclesiale italiana? Donne che hanno riscoperto nel Vangelo e nelle Scritture il proprio desiderio d’amore, che hanno saputo corrispondere al Vangelo con la loro propria memoria di vita, nonché con la propria singolare ed irripetibile esperienza, e si pongono al servizio non per consuetudini sbiadite ma per una consapevolezza che si fonda su un sentire autentico? Esistono e possiamo conoscere le loro voci? o è meglio lasciarle avvolte nell’ invisibilità (per un velo voluto da loro stesse, una scelta meditata)?
  • Esistono donne che hanno anticipato i suggerimenti dell’ appello del papa o in esso si sono sentite riconosciute e sostenute : ” Più che mai abbiamo bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito, per proteggere tutti insieme le pecore che si affidano a noi dai lupi che tentano di disgregare il gregge”?( E. G. 171)
  1. Accedere alle decisioni importanti? Non è il punto centrale.

Ha scritto recentemente L. Scaraffia: “Benché le religiose costituiscano i 2/3 del numero totale dei religiosi, non svolgono alcun ruolo decisionale, e soprattutto non sono ascoltate nelle riunioni in cui si prendono decisioni importanti”. (La Chiesa di Francesco è pronta per una donna cardinale?, Il Messaggero, 9 – 11 – 2013).

Introdurre “quote rosa” nel mondo ecclesiale? Il mio parere è: No, grazie. La logica che reclama incarichi e riconoscimenti nei territori delle decisioni “in alto” e dei compiti autorevoli mi pare molto scivolosa. Per due ordini di motivi. Primo, perchè accedere a questi luoghi non basta a dare ossigeno alla svolta di cui la Chiesa ha bisogno. Le donne potrebbero essere risucchiate dentro l’orizzonte gerarchico e dei privilegi castali o elitari, nel tourbillon di titoli e ruoli, o del tritacarne della competizione; come è successo in non poche occasioni in istituzioni pubbliche (politiche e culturali) ed imprese. Potrebbe succedere che posti di responsabilità affidati alle donne perpetuino lo spodestamento della Vigna (Mt 21,33-43).

Secondo – e soprattutto – perchè qui si tratta di Regno di Dio e non di società civile, si tratta di Evangelo e non solo di democrazia. Il vangelo ha suscitato un ribaltamento inaudito, in Gesù si è compiuta non l’etica aristotelica ma la dismisura dell’amore. Per noi, poveri discepoli di sesso maschile e femminile, non si tratta di salire, ma semmai di scendere, di spogliarsi da ogni onore: la meta è “lasciare tutto”. Sogno uomini che lavino i piedi alle donne e donne che li lavino agli uomini, in reciprocità. Sogno quindi uomini ordinati, ministri, che rinuncino, che lascino la presa.

È questo un punto decisivo: la prospettiva “rivendicativa” è tristemente fiacca e deforma ancora una volta la nostra vocazione di cristiani. Il discepolato dovrà essere inclusivo, di tutti, dovrà avere come modello solo il Vangelo. Tutti dovrebbero tendere all’abbassamento, alla povertà, ad essere “minimi”; con timore e tremore, porsi nella sequela in Cristo, senza le dorate separatezze introdotte di soppiatto dopo di Lui. (“A tutti [Gesù] si rivolge con la stessa voce solare, come se non ci fosse né virtuoso, né canaglia, né mendicante, né principe, ma solo, ogni volta, due esseri viventi faccia a faccia, e in mezzo ai due la parola che va e che viene” (C. Bobin, L’uomo che cammina).

Non vorrei essere fraintesa, però. Ciò non vuol dire che le donne non debbano essere riconosciute per quel che sono e sanno: per le loro competenze, conoscenze, studi, ricerche negli ambiti accademici ecclesiastici, nelle facoltà teologiche, nei convegni scientifici, e in ogni situazione in cui il loro sapere, la loro intelligenza, il loro sguardo di donna e la loro consapevolezza sono contributi importanti.

Il convegno tenuto al monastero di Camaldoli Una Chiesa di Donne e Uomini, nell’agosto di quest’anno, organizzato in collaborazione con Associazione Teologica Italiana e il Coordinamento delle Teologhe Italiane, ha brillantemente illustrato come tali “pari opportunità” siano ancora remote. L’ufficialità della Chiesa cattolica non ha dato alla produzione intellettuale delle donne in campo teologico diritto di cittadinanza, essendo considerata pregiudizialmente inadeguata in confronto alla razionalità teologica maschile. La maggior parte dei chierici, “funzionari della Parola”, irride alle pubblicazioni delle teologie femministe o di genere; anche se poi, in realtà, ne ignora i veri e reali contenuti. Dov’è la differenza col mondo secolarizzato?

(Per conoscere la cronaca del convegno si può leggere la brillante relazione che ne ha fatto Patrizia Morgante: Una Chiesa di donne e uomini, settimana teologica, Camaldoli in http://www.esodo.net/doc/morgante.pdf)

  1. Perchè le donne soprattutto.

Perchè occuparsi allora di donne? Perchè nei loro confronti si cela qualcosa di indicibile. Il non detto si annida nei meandri di una oscura paura del femminile, paura che si mostra con evidenza ogniqualvolta si celebra con enfasi la sacralità del femminile, rivelantesi per l’appunto nei tratti del materno, luogo di sconfinata tenerezza e oblatività. Un’esaltazione che rivela le tracce di una fissazione, un desiderio di reinfetazione in cerca di protezione ossessiva dal reale. La donna, in questa strozzatura, non sarà conosciuta come un Volto altro, come persona che “mi guarda”. Deve restare sempre e solo “guardata”. E lo sarà come madre, nutrimento vitale, fonte inesauribile di pienezza di vita, garanzia di sopravvivenza per quell’uomo che continua a cullare i suoi bisogni di bambino. Bambino non è più, ma se l’autenticità della relazione è negata, egli non accederà alla maturità, al suo divenire/essere umano.

In questo campo le posizioni del Magistero della Chiesa sono sorprendentemente convergenti con quelle di una cultura patriarcale del mondo borghese e secolarizzato, le cui forme sono state indagate da tempo nel movimento delle donne e ormai molto assimilate. È stato messo a fuoco con lucidità la riduzione della realtà femminile in icone simmetricamente speculari, ma entrambe rigide: la donna santa e la donna perduta, peccatrice. Strabismo che secoli di cristianesimo non solo non hanno estirpato (e a gridare tale ribaltamento c’era tutto il messaggio di Cristo), ma hanno invece sostanziato, inverato. Gesù toccava i volti e le persone toccavano le sue vesti; la chiesa invece teme il corpo, il contatto; le persone per lo più sono “casi”.

Il magistero ha impiegato molto tempo a chiedere scusa per avere sottovalutato o ignorato l’apporto che l’antigiudaismo – perpetrato nei secoli dai suoi ministri e dai suoi riti (si pensi all’espressione: “Preghiamo anche per i perfidi Giudei…” pronunciata nella preghiera del venerdì santo, soppressa nel 1959 da Giovanni XXIII) – ha provocato nella diffusione della ferocia dell’antisemitismo. Soffocata nel proprio intimo, ma nondimeno balbettante, certo si annida una domanda nell’animo di molti ecclesiastici: tanta violenza contro le donne non si nutre anche della cecità della Chiesa per il loro Volto, per il loro volto vero, non più svuotato, volto innervato di creaturalità e non trasfigurato da specchi deformanti?

  1. Il Volto di Dio è maschile e femminile.

Non possiamo abdicare dal compito di nominare l’usurpazione avvenuta nelle chiese: le attuali guide (il sacerdozio ordinato, esclusivamente composto da soli uomini) si sono impossessate della Vigna, tradendo la forza del messaggio inclusivo di Gesù.

Il volto di Dio è maschile e femminile. La chiesa, se è Casa del Padre e della Madre, ha il compito di rifletterlo: anche essa deve manifestare un volto maschile e femminile. Per cui le donne cristiane non possono non sentirsi votate a recuperare l’antica radice, a “restituire” a Dio quello che è di Dio e consegnare alla comunità l’integrità di questo Volto.

La Bibbia è fonte inesauribile come ispirazione e guida (quantunque sia stato ricostruito che sono state operate omissioni o traduzioni errate a sfavore delle donne ); fonte inesauribile per credere che la donna, nella volontà di Dio, abbia una dignità assolutamente uguale e una natura per nulla deficitaria rispetto quella dell’uomo ( convincimento ancora diffuso nel presbiterato cattolico). “Maschio e femmina li creò” (Gn 1,27).

Il Soggetto-Uomo non è l’unico, “il” rappresentante dell’umanità; la componente maschile è quel polo che deve relazionarsi all’altro polo (evocando in lontananza l’eco dell’armonia degli opposti). Ciò che ci dice Genesi è che a lui è donata dall’origine una natura volta a promuovere, a risvegliare in sé l’apertura all’umano, alla bellezza della creaturalità: ma questa si scioglierà e si illuminerà solo in rapporto a l’Altra, Lei. L’Altro è qualcosa d’oltre un semplice altro uomo, simile, perchè l’Altro risplende di una differenza molto più sostanziale, rappresentata dalla Donna.

I due sarebbero complementari? Termine più appropriato di complementarietà è dialettica: tra i Due fermenta una Dialettica feconda e inesausta che, in obbedienza al testo sacro, non si ricapitola nell’Uno.

  1. Sacerdozio femminile?

Ordinazione delle donne: questione “eversiva”, non solo nei palazzi apostolici, ma anche nelle misere periferie parrocchiali. È incredibile la coltre di nebbia, l’assenza di ragionamenti che avvolge questo tema. Un silenzio greve, spaventato, restio a ragionare sulle motivazioni, diversificate nel tempo, che il magistero romano ha addotto e tanto bene inculcato. Operazione riuscita, visto il silenzio che avvolge il tema. Ma un tale tacere non è forse imparentato con la disaffezione e con la risentita disillusione che sempre più ricadono sulle mense dei nostri altari e non solo?

Molte teologhe cattoliche, all’eventualità dell’ordinazione femminile, risponderebbero che il sacerdozio, così com’è, proprio non interessa loro. Ma, ripeto, l’argomento non dovrebbe costituire né un tabù, né un feticcio, ma una materia su cui confrontarsi, con parresia e umiltà. Il confronto e l’attenzione occorrono soprattutto perchè donne e uomini possano percepire che un dialogo su tali temi apre una finestra che irradia un benefico ossigeno:

  • per l’animo femminile, dove si annidano da secoli domande sofferte e sincere. Esordiva proprio con questa espressione, nel 1981, il Cardinale Martini al convegno «La donna nella Chiesa oggi», interpretando così il disagio di fronte al retorico ritratto della «donna cristiana» (Mulieris dignitatem). In tale modello le donne a stento trovano il conforto, poiché esso, smontato, non appare altro che una proiezione dell’immaginario maschile;
  • per l’animo maschile, soprattutto a partire dai ministeri consacrati. Sia l’uomo che Dio sono relazione, ma i membri ordinati della Chiesa, per lo più, si comportano alla stregua di fortezza assediata, utilizzando l’alibi della “difesa della fede”.

 

“Il fine del seminario è quello di educare i futuri preti… una istituzione totale per forgiare funzionari della religione, dunque molta ideologia sacrale, un continuo insinuare l’esemplarità della vita sacerdotale come separatezza; di conseguenza una sottile, continua violenza repressiva rispetto all’affettività e alla sessualità, con l’ossessivo allontanamento della donna, considerata un pericolo per il sacerdote […] Importante farne un funzionario garante dell’istituzione religiosa; talmente efficiente da essere in grado di […] nascondere, dietro la brillantezza ammirata dei riti religiosi, una fede tiepida, scarsa, insignificante.” Così Pierluigi Di Piazza, sacerdote friulano, in Fuori dal Tempio. La Chiesa al servizio dell’umanità, Laterza, 2011 (pagg. 15-16): una delle poche e coraggiose voci che si sono espresse a riguardo.

La teologa Lilia Sebastiani ha recentemente ribadito la sua posizione sull’argomento. Le sue affermazioni andrebbero discusse e ne riporto un frammento, anche se io, per le ragioni sopra esposte, le condivido non in toto.

“Chi mi conosce sa che sono seriamente impegnata sul fronte dell’accesso delle donne ai ministeri ordinati. Non perché io consideri il ministero ordinato così centrale nella prospettiva redenta: sono convinta che Gesù non intendesse affatto gerarchizzare la comunità di quelli che credevano e avrebbero creduto in lui, insomma che non intendesse affatto reintrodurre un sacerdozio nella sua comunità.

Ma poiché una gerarchia c’è, e non è affatto realistico ipotizzarne la sparizione, ritengo che il modo migliore per togliere al potere i suoi aspetti antisalvifici sia condividerlo, renderlo fluido quanto più è possibile.[…]

«Così com’è», la categoria dei ministri ordinati si fonda su una certa connotazione di casta e sull’esclusione del femminile. Ma molte cose cambierebbero nel momento in cui le donne non fossero più escluse dal ministero e i ministri non fossero più tenuti per obbligo di stato a vivere senza donne. (Sembrano due problemi; in realtà, almeno alla radice, sono uno solo). Le donne saranno veramente accettate dalla chiesa quando potranno essere non solo spose legittime dei ministri ordinati, ma anche sorelle e colleghe nel ministero. È l’unica trasformazione visibile coerente con la logica della salvezza portata da Gesù.

Le donne forse possono andare avanti benissimo senza l’ordine sacro; ma la chiesa cattolica forse non può andare avanti continuando a escludere le donne da ogni funzione di governo e di magistero e tenendo i propri ministri artificialmente al riparo dalla loro influenza.

Non è un ‘problema delle donne’, ma della chiesa cattolica”.

Da “Chiesa, ciò che manca, alla parità” in Rocca 21, 1 novembre 2014. http://www.rocca.cittadella.org/rocca/s2magazine/moduli/NEWSPAPER/PDF/non_abbonati/01112014/Rocca21DEL2014RIDOTTACONPRELIMINARI.pdf

  1. L’ appello.

Se questo appello, di primo acchito, potrebbe sembrare ribadire le note posizioni contro l’emarginazione e la discriminazione della donna nella chiesa, affamate come siamo di giustizia, non è però dall’orizzonte dell’etica tout court ( giustizia retributiva) che esso è sorto. Esso germina piuttosto da quello che il Signore ci ha indicato nei suoi dialoghi terreni: in quelle parabole, precisamente, che sovvertono i paradigmi etici consueti: quella del figliol prodigo, o quella degli operai che a fine giornata rivendicano una parcella differenziata a seconda del tempo corrisposto (Matteo 20, 1-16), o il celebre discorso paradossale sull’inversione tra perdere/rinvenire: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 24-25). È la spoliazione che libera.

È la logica scardinante che ha ben ricordato papa Francesco pochi giorni fa, in occasione della conferenza della Fao sulla nutrizione ( Roma 20/11/2014): fino ad oggi la fame nel mondo è stata considerata una questione di aiuti, di generosità dei paesi ricchi nei confronti dei paesi poveri. Invece il problema è l’ingiustizia dei paesi ricchi nei confronti dei paesi impoveriti. La prospettiva è rovesciata, perchè ora l’indice non è più puntato sulla necessità di aiuto da parte dei paesi ricchi, ma sull’ opposizione: paesi che derubano e paesi derubati. È la spoliazione che libera.

Chiedo il dialogo, i contributi e la collaborazione di quante/i possono essere interessati alla ricerca qui suggerita ed appassionati ai ragionamenti esposti. Uomini e consacrati compresi.

Il testo/appello non è stato sicuramente all’altezza del compito. Spero comunque si esca dal silenzio e, come dice il vescovo di Roma, da una fede che “si va logorando e degenerando nella meschinità”. Non mi illudo che l’indagine possa arginare – o iniziare a farlo – la dissipazione e lo spreco di forze genuine e sincere che pur ci sono e resistono esemplarmente; ma almeno spero che possa restituire voce e forme discorsive ad una questione da molti reputata così “minima”.

Dicembre 2014