Conflitto, appartenenza, guida di M.Pivetta

Marina Pivetta
www.womenews.net

Vorrei partire da alcuni nodi concettuali emersi durante il dibattito su “Vite, lavoro, non lavoro delle donne” tenuto a Bologna il 3 e il 4 marzo. Una iniziativa nazionale promossa da Senonoraquando e organizzata dal comitato di questa città.

Alcune intervenendo hanno introdotto la parola conflitto, molte hanno sottolineato la necessità di nominare i luoghi di appartenenza e, alla fine dei lavori Raffaella Lamberti ha sottolineato la differenza tra il significato di leader e di guida. Questi, a mio avviso, i tre gangli che hanno segnato e continuano a segnare le modalità del confronto, non solo a Bologna, sui vari temi proposti dal movimento delle donne oggi.

Partiamo dalla parola conflitto alla luce anche del dibattito sulla violenza, non nuovo, aperto da Via Dogana. Il conflitto è una modalità della relazione tra soggetti differenti che partono dal presupposto di avere un senso di sé e di riconoscere spessore alla controparte. Consapevoli, quindi, di una loro identità capace di reggere il necessario confronto-scontro per raggiungere l’obbiettivo prefissato o , per lo meno, per avvicinarsi a questo. Una modalità dell’agire umano molto sana perché riconosce in un protagonismo attivo la soggettività di ognuna/o. Sono le forme del confliggere che devono poi essere valutate e sulle quali è necessario anche esercitare un giudizio di valore.

Se noi introduciamo il concetto di violenza nel conflitto recuperiamo tutto ciò che questo significante ha significato nella storia dell’umanità ma sopratutto quello che ha significato nella vita delle donne. Con la violenza c’é la violazione dell’altra/o quindi la cancellazione della sua soggettività. C’é esercizio di dominio e pratica della sottomissione. E’ un modo di agire per causare impotenza e morte… Alle donne questo non può interessare. Se il conflitto invece viene praticato nel riconoscimento della reciproca forza non può esserci violenza ma come diceva Angela Putino può esserci una danza “guerriera” dove vengono messe a confronto intelligenze e creatività nel rispetto reciproco. Nella danza è il movimento che conta: si può arretrare, avanzare, porsi di lato, sottrarsi o abbracciarsi, mai cancellarsi. La violenza porta alla morte del conflitto se questo la sceglie come suo strumento, perché la violenza ha, come finalità, la cancellazione dell’altro/a e quindi mina l’architettura stessa del conflitto. Nella fisiologia del conflitto sono previste pause e silenzi. Momenti di pace rigenerante. Non è pace invece ciò che segue la guerra. La morte non è né pausa né silenzio è solo dolore, cancellazione, assenza.

Il secondo tema enucleato dal termine appartenenza ha messo in evidenza come nel movimento della donne ci siano più soggettività che si intersecano senza negarsi , potenziandosi a vicenda nel reciproco riconoscimento. Nel dibattito però faceva capolino, a volte, un segnale di debolezza: la paura di non esserci perché non riconosciute. Di essere cancellate. Una paura che si percepiva sia negli interventi di chi esprimeva la sua prioritaria identità in Senonoraquando, sia di chi, sentiva il bisogno di essere riconosciuta da questa nuova soggettività.

Come dimenticare tutto quello che è stato fatto e pensato anche nei momenti di riflusso. Il continuare ad esserci ha alimentato un fiume sempre presente anche se, in certi momenti , carsico. Un fiume che però è stato in grado di emergere quando è stato sollecitato da nuovi eventi oggettivi e da soggettività capaci di scegliere tempi e modalità giuste. A Bologna, tra le righe di un ricco dibattito sulla faticosa vita delle donne si potevano intravedere i termini di un conflitto che ripercorreva passi di danza incapaci di quello scatto di reni necessario a fare da moltiplicatore. A risentirne la forza di tutte noi. Inutili minuetti del non detto, del sottaciuto che hanno più volte utilizzato la violenza, e non a caso uso questo termine, psicologica per cancellare l’avversaria. Un modo apparentemente più facile, più rapido, per superare ciò che ci fa problema. Un meno che impoverisce!

E’ qui che si inserisce il termine guida. Non dunque leader o capo che ci riportano ad una cultura tutta verticale, maschile, una cultura di violenze e guerre. Ma guida. Cioè colei che sa indicare la strada. Una strada che lei conosce , ma che noi dobbiamo percorrere con la nostra storia, con il nostro corpo, con le nostre gambe. Poi, quando ci si trova ad un bivio dove le strade divergono la guida può cambiare. Le nuove strade potranno essere riconosciute da altre che, con altrettanta maestria, le sapranno indicare.

Con il termine guida emerge dunque il concetto di potere come riconoscimento di conoscenza e autorevolezza ma anche di sapienza di chi è consapevole dei propri limiti e del valore altrui. Mentre nella leader il potere è troppo spesso riconosciuto per la sua visibilità ottenuta nelle forme più varie. Visibilità che a volte non è sinonimo di sapienza e autorevolezza. Cercare visibilità è un comportamento proprio di una cultura tutta maschile. Per fortuna le donne certi comportamenti sanno riconoscerli e mettere in atto una necessaria analisi critica e autocritica. Insomma, sanno ripartire sempre con nuovi passi di danza perché sanno quante e quanto lunghe sono ancora le strade da percorrere.