Fede cristiana e impegno politico: un rapporto problematico di A.Cavadi

Augusto Cavadi
www.nientedipersonale.com

Una riflessione sul rapporto che, in linea di principio, dovrebbe intercorrere fra fede (cristiana) e impegno politico presupporrebbe una chiara, inequivoca, determinazione di cosa intendiamo per “fede” e cosa per impegno “politico”. Infatti la risposta alla domanda sul rapporto fra i due termini dipende moltissimo dal significato che attribuiamo a ciascuno dei due.

Se, provvisoriamente, li intendiamo in accezioni abbastanza generiche da poter essere condivise senza forti obiezioni, la “fede” sarebbe l’accettazione del messaggio evangelico come criterio di orientamento nel mondo e l’impegno “politico” sarebbe qualsiasi attività in forma associata che incida sulla società in maniera metodica (non occasionale) e durevole (non momentanea). Ebbene, se così intesi, i due poli possono essere concepiti in tre prospettive differenti.

a) L’integralismo (soprattutto cattolico)
Secondo la prima prospettiva, che potremmo definire “integralista”, il messaggio evangelico contiene delle indicazioni precise sulla società, sulle istituzioni politiche, sulle leggi dell’economia, sulla bioetica e così via: il cristiano davvero coerente deve soltanto applicare, in maniera quanto più fedele possibile, queste indicazioni (possibilmente interpretate in maniera autorevole dal magistero ecclesiastico). L’angolazione “integralista” si trova declinata a destra, a centro e a sinistra: in genere è una tentazione tipicamente cattolica.

b) Il dualismo separazionista (soprattutto protestante)
Per molti versi opposta è la visione, che potremmo definire “dualista” o “separatista”, di chi ritiene che la sfera della fede e la sfera della politica debbano mantenersi rigorosamente parallele. Il vangelo ci parla del rapporto intimo fra l’anima e Dio, non si occupa del mondo – regno del Demonio – con il suo groviglio di vizi e di peccati. Questa ottica è stata declinata in varie chiese ma è particolarmente congeniale con l’impostazione “protestante” o “riformata” di matrice luterana e calvinista. Il principio di dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare ( Luca 20, 20 – 26 e passi paralleli in Marco e in Matteo) è stato, ad esempio, applicato in Germania al tempo del nazismo: davanti a Dio tutti i regimi politici sono peccaminosi, al cristiano spetta obbedire alle leggi vigenti anche senza nessuna convinzione interiore, soltanto per garantire un minimo di ordine sociale.

c) Una terza via: la fede nel vangelo come “riserva critica” e pungolo costruttivo
Dall’ epoca, moderna a oggi, però, ci sono stati cristiani (sia cattolici che protestanti) insoddisfatti sia dell’integralismo che identifica fede e politica sia del dualismo che le separa nettamente.
L’integralismo, infatti, attribuendo alla Bibbia una competenza anche in campo socio-politico, apre la strada alla teo-crazia, al “governo di Dio” o, meglio, in concreto, alla iero-crazia, al “governo dei gestori del sacro” (che si autoproclamano interpreti autorevoli della Bibbia).
Non molto meglio vanno le cose, però, quando la propria fede cristiana si auto-esonera da qualsiasi “giudizio” sulla storia: è il motivo per cui grandi pensatori protestanti, come Barth e Bonhoeffer, si fecero promotori di una “Chiesa confessante” che proclamasse, anche a rischio di morire, l’incompatibilità del messaggio evangelico con certi regimi politici disumani (cfr. la celebre Dichiarazione di Barmen).

Una terza via fra integralismo e dualismo separazionista l’hanno segnata pensatori particolarmente acuti (tra i quali il domenicano Edward Schillebeeckx). Secondo questa prospettiva:

–   il vangelo dà al credente solo alcune indicazioni di massima: la dignità di ogni essere umano (in quanto figlio/figlia di un unico Padre), il primato della condivisione fraterna rispetto all’accumulazione privata, la nonviolenza come metodo di risoluzione dei conflitti e così via. Queste indicazioni di principio sono poche (a differenza di quanto ritengono gli integralisti che si illudono di trovare nella Bibbia ricette politiche dettagliate), ma irrinunciabili (a differenza di quanto ritengono i dualisti separazionisti che si illudono di poter accettare anche regimi politici programmaticamente contrari a quei pochi criteri orientativi evangelici);

–   il vangelo costituisce, dunque, per il credente sia una “riserva critica” nei confronti dei regimi politici (nessuno dei quali realizzerà mai al cento per cento l’utopia del “regno di Dio” in terra) sia anche un pungolo a collaborare lealmente con gli uomini e le donne di buona volontà affinché la convivenza sul pianeta sia sempre più vicina possibile alla solidarietà nella giustizia e nella libertà. Da entrambi gli aspetti, la fede esige attenzione a ciò che avviene nella storia ed esclude, radicalmente, ogni atteggiamento di a-politicità indifferenzista;

–    nel contesto italiano attuale questa visione del rapporto fra fede cristiana e prassi politica significa, da una parte, che nessuna autorità ecclesiastica può indicare – come avviene tuttora, più o meno scopertamente, da parte di alcuni vescovi e di alcuni preti – quali partiti politici, o per lo meno schieramenti, vadano sostenuti con il proprio voto; dall’altra parte, però, significa che nessun credente autentico può votare per quelle formazioni politiche che la sua coscienza, a un esame obiettivo , trovi all’esterno inclini ad adottare la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali e, all’interno, permissivi verso pratiche razziste (come ho cercato di mostrare nel mio Il Dio dei leghisti) o corruttive o mafiose (come ho cercato di mostrare nel mio Il Dio dei mafiosi).