Teologia della Liberazione di G.Codrignani

Giancarla Codrignani
Esodo, gennaio 2013

Come mai non è un’ovvietà dire che tutte le teologie sono “di liberazione” e, invece, quando una di esse ha preso questa denominazione, ha subito suscitato sospetti e censure? Eppure una verifica serena della “tradizione” riscontra che divieti, castighi, scomuniche sono stati accompagnati da argomentazioni giustificative di autoritarismi, assunzioni di potere e repressioni chiamate teologiche in nome di una verità data per definita dalla gerarchia, spesso abusando della Parola. Operazioni del genere non hanno mai prodotto migliore immagine della Chiesa per i tempi avvenire o maggiore sua libertà e, tanto meno, liberazione dei fedeli.

Per Teologia della Liberazione (TdL) storicamente si intende la teologia, figlia del Concilio Vaticano II, che, nata in America Latina, prese la parola nella II Conferenza generale del Celam (Consiglio Episcopale latinoamericano) a Medellìn, in Colombia, nel 1968 e trovò il suo testo fondamentale in “Storia, Politica e Salvezza di una Teologia della Liberazione” del domenicano Gustavo Gutiérrez, peruviano. In quegli anni l’America Latina era una specie di lager: quasi tutti i paesi vivevano la repressione di dittature militari e molti cristiani si venivano dissociando dal mondo conservatore e, in gran parte, ecclesiastico, che sosteneva i poteri forti e i privilegi “di classe”. Bisognava coscientizzare “dal basso” e dare alla parte più povera e sfruttata del popolo gli strumenti per liberare il proprio destino e aprire una via alla democrazia. Nacquero decine di migliaia di Comunità di Base e il cardinale di San Paulo, Evaristo Arns, e molti vescovi, come Helder Càmara, Pedro Casaldaliga, Samuel Ruiz, Batista Fragoso, Tomàs Balduino furono pastori che, illuminati anche dal Concilio, si presero cura della loro gente per la prima volta muovendo dal principio di realtà.

La teologia latinoamericana si diffuse rapidamente nel mondo e risultarono evidenti i riferimenti al Concilio Vaticano II, a conferma che Giovanni XXIII non era un sognatore, ma raccoglieva l’evidente “segno dei tempi” del bisogno di emancipazione proprio dei popoli oppressi che interpellavano la storia e, quindi, anche le chiese. Intanto, nel 1967, Paolo VI, che non aveva la percezione politica della storia né il coraggio di Papa Giovanni, aveva pubblicato la Populorum Progressio, un documento carico di “visione” che dà ancora la percezione di quanto i nostalgici del latino siano lontani dal senso comune: per i Romani antichi – che non avrebbero mai pensato che i popoli crescessero – l’espressione poteva significare solo “la crescita dei pioppi”: purtroppo anche nelle lingue moderne il concetto non ha fatto grande strada ed è del 10 novembre 2012 la lettera apostolica di Benedetto XVI che, nonostante il riconoscimento che “sin dalla Pentecoste la Chiesa ha parlato e pregato in tutte le lingue” raccomanda la Pontificia accademia di latinità per la valorizzazione del latino.

Quattro mesi fa (7-11 ottobre 2012, a Sao Leopoldo, presso l’Università dei Padri Gesuiti) si è tenuto in Brasile un Congresso continentale di teologia per rifare il punto, anche in prospettiva della prossima Conferenza del Celam, sia delle ricezione del Vaticano II in America latina, sia della TdL. Due luoghi profetici poco amati dai curiali, anche se non fu possibile censurare il primo come il secondo. Infatti la TdL fu attaccata da Roma in tutti i modi e perfino contro quest’ultima convocazione sono state esercitate pressioni sul vescovo locale.

La cosa ha del paradossale: il capitalismo condannato dalla TdL oggi è oggetto delle stesse critiche da parte del Papa e della Curia. Tuttavia anche su questo piano si registra il cambio di paradigma: non ci sono più Marx e la lotta di classe, mentre restano, le ingiustizie divenute sistemiche. Ne deriva che le denunce valgono poco se non si riconoscono i diritti dei più poveri e si propongono riforme compatibili con le maggioranze governative.

E’ interessante una riflessione sul Congresso almeno per informare chi ne sa poco o nulla e per rendersi conto dello spostamento culturale avvenuto durante questii decenni. Il Concilio ha subito cinquanta anni di decostruzione più o meno strisciante; le Comunità di Base, giudicate devianti, di sinistra e anticlericali, hanno ceduto terreno alle sette (“sono già notevoli – hanno riconosciuto i teologi – i flussi di fedeli che abbandonano le chiese tradizionali”); la TdL, fuori contesto, appare ormai una scuola di pensiero propria di tempi già “rivoluzionari” e bisognosa oggi di riferimenti storici per essere conosciuta. Eppure, come tutti i lasciti del Vaticano II e dei suoi protagonisti, resta una questione “sospesa”, non superata.

Anche noi che conosciamo questi cinquant’anni dobbiamo ripensare i “segni dei tempi” in situazione necessariamente cambiata. Certo bisogna trasmettere memoria: l’assassinio di mons. Romero o il martirio di Marianela Garcìa testimoniano ancora la ferocia del fascismo salvadoregno e fanno capire la scelta estrema di chi allora appoggiò la lotta armata. Ma il senso di realtà obbliga a comprendere che la scomparsa dei regimi reazionari non ha risolto i problemi del popolo salvadoregno, come degli altri, tutti coinvolti e compressi nel processo ormai antico della globalizzazione. “L’ingiustizia non è una disgrazia, ma opera delle mani dell’uomo”, diceva e dice Gutierrez: inutile citare la Bibbia a commento, se non ci si rende conto che la complessità è cresciuta enormemente e le questioni si sono fatte di più difficile soluzione. Per questo neppure oggi è blasfemo ricordare che il credente non ha solo la preghiera come risorsa; e che il teologo, così come il vescovo, non ha solo il dovere dell’obbedienza al Papa. Fondamento della TdL era – e resta – una Chiesa che sia prioritariamente “la Chiesa dei poveri”. A Medellìn era già esplicita l’ “opzione preferenziale dei poveri” (certamente il tema “non finito” del Concilio: ricordiamo l’intervento – non solo terzomondista – del cardinal Lercaro). Come aiuto ermeneutico per le comunità cristiane possiamo dire che nemmeno in America latina la povertà è più la stessa: un’altra, non meno grave miseria si è diffusa nei diversi paesi e continenti. La gente stessa, ovunque, anche da noi, è diversa: produce rivolte in Islam con Internet e cellulari, ha Università di buon livello in Africa, usa – e subisce – in ogni luogo le stesse banche e le stesse assicurazioni occidentali (e, purtroppo, lo stesso mercato delle armi); anche da noi la gente è vittima di se stessa e deprime aspirazioni e desideri nel consumo di merci e ricerca di successi anche con mezzi corrotti.

La rivista dehoniana Il Regno ha riportato documenti e testimonianze del Congresso che mettono in luce critiche sempre più attuali: neppure la Chiesa riflette abbastanza sui poveri come “soggetti dotati della capacità di un proprio pensiero, secondo proprie categorie, miti e simboli”. Se “la secolarizzazione ha estromesso Dio… la globalizzazione ha estromesso il povero e lo ha reso insignificante per una storia pilotata dai potenti”. Esiste “un nuovo contesto culturale, sociale, politico, economico, ecologico (Leonardo Boff ha sostenuto appassionatamente la “povertà crocifissa della Madre Terra”), religioso ed ecclesiale, oggi escludente. Si tratta di un contesto che comprende la sfida di innovazioni scientifiche produttrici di conseguenze antropologiche, di virtualità della comunicazione universalizzata, di nuovi conflitti e insieme di nuovi “segni dei tempi” individuabili nei diritti delle donne, dei migranti, delle diversità sessuali, ma anche nel pluralismo delle religioni….

In questo contesto ai poveri – che siamo anche noi occidentali nella crisi – “di quale Dio stiamo parlando?”. Gutiérrez ritiene interpretabile la crisi come esperienza dell’Esilio: occorre “in questa condizione di esiliati operare la giustizia nella misericordia : il cuore del povero”. Se grande è lo sconcerto davanti alle nuove sfide, grande è la responsabilità della gerarchia e del clero. Non confortano, dicono i teologi di Sao Leopoldo, “le nuove nomine episcopali che mostrano di voler riassicurare l’omologazione ai disegni di Roma”, contenta di trovare negli “ordinati” più giovani dei nuovi conservatori obbedienti al Papa. Ma, se Roma ha paura di una Chiesa autonoma, se cresce la dialettica fra il magistero e le diverse teologie (la libera ricerca non è più condizionabile come un tempo), se “la parola stessa ‘liberazione’ suona dissacrante”, dove rischia di andare la Chiesa?

Forse quelle che Helder Càmara chiamava le “minoranze abramitiche” hanno qualche responsabilità in ordine ai prossimi quaranta, cinquanta anni: sotto il moggio della rassegnazione che fiaccola diventerà mai la fede?