OCCUPAZIONE: LA CRISI DELL’OTTIMISMO

di Eugenio Roscini Vitali
da www.altrenotizie.org

E’ difficile prevedere quanto durerà e come andrà a finire, ma la crisi economica e strutturale che sta colpendo il sistema produttivo italiano sarà certo più lunga di quanto i maghi della finanza e il governo vogliono farci credere. Una crisi di cui si sono già visti gli effetti finanziari, che attacca l’economia reale e i consumi e che si sta espandendo al sistema industriale. Il cambiamento è palpabile, si legge negli occhi dei precari, degli operai, degli impiegati, degli studenti, di chi ha perso la speranza di trovare un lavoro e di chi ha paura di perderlo; di quei 7 milioni e 542 mila italiani che costituiscono la parte più povera del paese e di chi povero potrebbe diventarci domani. Si vede nei fatti di tutti i giorni, nella disperazione di una ragazza incinta, una precaria, incensurata e con un lavoro part time, che a Milano non può neanche permettersi di comprare la carne una volta al mese e che viene fermata in un supermercato mentre tenta di uscire con tre confezioni di spezzatino sotto al giubbotto.

Si vede, e non si può negare, perché oltre alla grande industria ora attacca anche l’artigianato e i servizi, perché oltre alla cassa integrazione si parla sempre più spesso di mobilità e prepensionamento, perché c’è chi cura la crisi chiudendo la fabbrica e chi non rinnova i contratti a termine. Si vede perché ora a tremare non sono solo gli operai e gli impiegati ma anche i piccoli e medi imprenditori.

Meno di un mese fa, in un’intervista pubblicata il 19 ottobre scorso su La Stampa, l’ex presidente della Confindustria, Luca Cornero di Montezemolo, parlava di un capitalismo che nei momenti di crisi è capace di rigenerarsi e, ricordando la lezione del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, rammentava che l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, che occorre avere fiducia, anzi far diventare la fiducia stessa una malattia contagiosa.

Dichiarazioni in linea con chi pensa che l’opinione pubblica italiana è spaventata da un falso allarmismo, revisionismo sessantottino che usa lo strumento della paura per trasformare una crisi passeggera in una catastrofica follia collettiva; fantasie “dark” alimentate dalle notizie diffuse da una stampa pessimista che non aiuta la ripresa. Un balletto nel quale si inserisce perfettamente lo studio sugli scenari economici divulgato dal Centro studi di Confindustria che da un lato prevede una recessione dell’economia italiana, la terza negli ultimi trent’anni dopo quella verificatasi nel 1975 e nel 1993, dall’altro parla di “timidi segni di stabilizzazione che preludono ad una svolta”.

Ottimismo quindi, ma fondato su cosa? Il settore della metalmeccanica è sicuramente uno dei più colpiti dalla crisi e la gravità della situazione è confermata da quello che sta accadendo nel laboratorio del mondo industriale italiano, l’area torinese. Qui sono centinaia le aziende che stanno ricorrendo alla mobilità e alla cassa integrazione, imprese che lavorano nel settore degli accessori auto, dei ricambi, dei pneumatici e non solo. Oltre agli operai della Fiat auto e dell’indotto, questa volta pagano anche i dipendenti dell’Iveco e delle fabbriche produttrici di macchine per il movimento della terra, settori fino a ieri definiti “inattaccabili”.

A Mirafiori i cassaintegrati sono più di settemila, Pininfarina ne ha annunciati 1400, Bertone 1224. Lavoratori diciamo “fortunati” rispetto alle migliaia di precari che non si vedono rinnovare il contratto. O ai 400 ingegneri della Motorola (circa 370 impiegati nel Centro Ricerche di Torino e il resto tra le sedi di Milano e Roma) licenziati perchè non hanno accesso alla cassa integrazione, in quanto l’azienda americana non ha pagato i contributi per gli ammortizzatori sociali.

Dalla crisi, che colpisce anche le piccole e medie imprese, non si salva neppure il motore trainante dell’economia nazionale, l’asse lombardo-veneto che la Lega Nord ha sempre considerato unico motore dell’economia nazionale e che ora sopravvive con gli ammortizzatori sociali erogati dallo Stato. Nelle due più produttive regioni d’Italia si registra infatti un incremento della cassa integrazione che ormai tocca il 50% e, da un’indagine congiunturale svolta dall’ufficio studi di Confindustria Veneto, si rileva che nel terzo trimestre 2008 la produzione industriale è scesa dell’1,3%, gli ordini dell’1,4%, l’occupazione dello 0,1%.

Sono dati che potrebbero sembrare relativi, ma la percentuale crescita degli strumenti ordinari di riduzione delle ore lavorate viaggia sull’ordine delle centinaia. In Lombardia poi le aziende al collasso sono migliaia: gli industriali e i piccoli imprenditori che compongono il cuore dell’economia italiana stanno alzando bandiera bianca. Per ora i posti di lavoro a rischio sono 50 mila, ottomila sono i dipendenti già licenziati o in mobilità. Assolombarda ha dichiarato che da luglio a ottobre le ore di cassa integrazione ordinaria sono passate da 9 a 12 milioni e secondo Unioncamere la Lombardia tornerà a crescere solo nel 2010.

L’elenco dei settori in maggiore difficoltà comprende la componentistica auto, il meccanotessile, l’elettrico, l’elettronico e la produzione degli elettrodomestici, la metallurgia e le lavorazioni meccaniche tradizionali, il cotone e i filati, ma cominciano a dare problemi anche settori come la gomma, la plastica e il cartario. Nokia, Siemens, Honegger, Astrazeneca, Engineering.it, Henriette, Eutelia, Innse, Fast &Fluid, Brembo, Iveco di Suzzara, Finnord di Jerago, Mib di Pontirolo Nuovo, aziende che hanno dato vita al quinto polo industriale europeo entrate in crisi non certo per il pessimismo dei media o per colpa del sindacato, ma perché questa è la peggiore crisi del dopoguerra.

Una crisi alla quale gli imprenditori non sanno far fronte se non con il taglio dell’occupazione, che durerà almeno cinque anni e che lascerà dei segni profondi nella nostra società; una crisi che non va combattuta con le parole o con l’ottimismo, ma con gli investimenti, puntando sull’innovazione e la ricerca, estendendo la cassa integrazione ai precari ed aiutando le fasce più deboli. Perché forse molti ancora non lo sanno, ma dalla crisi alla fame il passo è breve.