POVERTÀ IN ITALIA: L’ULTIMO TABÙ

di Mario Braconi
da www.altrenotizie.org

Nel giro di qualche settimana Caritas Italiana, Istat e OCSE hanno diffuso diverse statistiche in materia di povertà e distribuzione del reddito in Italia; il collage di questi dati ci fornisce l’immagine di un Paese con un problema di povertà e di sperequazione dei redditi e della ricchezza, aggravato da una scarsissima coscienza sociale e da un’inerzia dello stato spiegabile forse solo in termini di rimozione psicoanalitica di una scomoda realtà. E’ opportuno premettere che gli economisti distinguono due tipi di povertà: quella cosiddetta assoluta e quella relativa. Per misurare la povertà assoluta si fa riferimento al “valore monetario di un paniere di beni e servizi indispensabili affinché una famiglia possa raggiungere un livello di vita socialmente accettabile”; una famiglia o una persona viene invece definita “povera” in senso relativo se il suo reddito è inferiore al 50% del reddito individuale medio (o della mediana del reddito) registrato nella comunità di riferimento.

Dal 2002 l’Istat non elabora statistiche sulla povertà assoluta, dal momento che si è ritenuta inappropriata la relativa metodologia di calcolo. Parrebbe di capire che la revisione del modello non sia una delle priorità più brucianti per la commissione appositamente installata, dato che il relativo processo, dopo ben otto anni di ripensamenti, non sembra approdato ad alcuna conclusione. In compenso, l’Istat si esercita nella stima dell’incidenza di povertà relativa. Quella relativa al 2007, calcolata su un campione di circa 28.000 famiglie, è pari all’11,1% della popolazione e, se si tiene conto dell’errore statistico, si può concludere che, con una probabilità del 95%, la percentuale oscilli tra il 10,5% e l’11,7%.

In modo meno asettico, questo vuol dire che quasi 2,7 milioni di famiglie, circa 7,5 milioni di Italiani, soffrono una situazione più o meno grave di povertà. Mentre nel Nord e nel Centro del Paese il tasso di povertà relativa oscilla tra il 5,5% e il 6,4%, nel Sud l’indice tocca il 22,5%: dunque, più di un abitante su cinque del Meridione d’Italia è povero. Sono numeri che farebbero temere una rivoluzione, che oggi è in effetti scongiurata dal gigantesco meccanismo di economia criminale che ormai in quelle latitudini ha sostituito lo Stato.

Secondo l’Istat, la percentuale degli Italiani “relativamente poveri” è rimasta inchiodata all’11,1% negli ultimi tre anni, il che rafforza l’impressione non si sia messa in atto alcuna seria strategia di lotta alla povertà, ovvero che le ricette attuate dai vari governi non abbiano prodotto alcun beneficio. Il rapporto individua inoltre un sottogruppo di persone “sicuramente povere”, quelle con entrate pari all’80% del reddito-soglia sotto al quale si entra nella zona di povertà relativa: si tratta del 4,9% della popolazione. Se, con una forzatura, utilizzassimo la percentuale dei “sicuramente poveri” come surrogato della attualmente inesistente misura della povertà assoluta, potremmo concludere che, mentre nel 2002 i poveri “doc” erano il 4,2% della popolazione oggi sono poco meno del 5%.

Che l’atteggiamento del governo nei confronti di questa grave emergenza sia confuso e velleitario è facile capirlo scorrendo il “Libro Verde sul futuro del modello sociale”. In esso, se da un lato si dichiara guerra “alle povertà estreme”, non si fa alcuno sforzo per definirle; mentre netta e dettata da ragioni di opportunismo economico ed ideologico appare la bocciatura di qualsiasi politica di reddito minimo di inserimento (RMI). A dispetto della raccomandazione 92/441 Cee, che invitava tutti gli Stati Membri ad adottare delle misure di garanzia di reddito, l’Italia è l’unico paese dei 27 (assieme a Grecia e Ungheria) a non essersi ancora dotato di misure di “universalismo selettivo” contro la povertà. Ciò non le impedisce, pare, di ergersi al ruolo di arbitro della loro validità.

Insomma, come rileva Francesco Marsico, vicedirettore della Caritas Italiana, quale tipo di politiche possiamo attenderci da chi non si è ancora fatto un’idea chiara della platea dei beneficiari? Senza contare che, nonostante la legge l’art. 21 della legge 328/2000 obblighi lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni ad istituire un “sistema informativo dei servizi sociali” per assicurare una compiuta conoscenza dei bisogni sociali, al fine di poter disporre tempestivamente di dati ed informazioni necessari alla programmazione, alla gestione e alla valutazione delle politiche sociali, “il nostro paese non ha un sistema di rilevazione nazionale degli interventi sociali”.

Insomma, lo Stato sembra ignorare il problema povertà: non lo riconosce come tale, destina all’esclusione sociale una quota ridicola del PIL (0,1% contro l’1,7% registrato in Gran Bretagna e una media europea dello 0,9%). Non c’è da meravigliarsi, dunque, se gli scarsi trasferimenti sociali sortiscano effetti appena percepibili: come ricorda Vittorio Nozza, direttore di Caritas Italiana, mentre altri paesi d’Europa (Germania, Svezia, Danimarca, Germania, Olanda e Irlanda) riescono contrastare efficacemente il rischio di povertà, riducendolo del 50%, l’azione dei governo in Italia costituisce un paracadute per il solo 4% delle categorie a rischio. Un ulteriore impaccio è causato dal fatto che la spesa destinata all’assistenza sociale viene erogata a livello centrale, mentre sarebbe molto più utile se fosse gestita dalle amministrazioni locali, che meglio di chiunque altro dovrebbero conoscere il contesto socio-economico in cui operano.

Non solo, dunque, esiste un problema povertà nel nostro paese, aggravato dal sonno delle istituzioni; ma, come segnala il recente rapporto OCSE dal titolo “Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD countries”, nella classifica dei 30 paesi OCSE che presentano la più elevata disparità di reddito tra ricchi e poveri, l’Italia si piazza al sesto posto. La relazione segnala inoltre che, anche se dal 1990 al 2005 la povertà infantile nel nostro Paese è scesa drasticamente (dal 19% al 15%) il suo valore resta più elevato della media OCSE (12%); la mobilità sociale rimane scarsa – in Italia il figlio di genitori poveri di solito rimane tale. Inoltre, la distribuzione della ricchezza è ancora più iniqua di quella del reddito: infatti se il primo 10% dei cittadini con i patrimoni più elevati detiene il 42% della ricchezza complessiva, il primo 10% dei cittadini che percepiscono i redditi più elevati detiene il 28% del reddito disponibile. In questa classifica poco edificante, indovinate dove si colloca il Premier?