«Valzer con Bashir ». Medaglia del disonore

di Gideon Lévy
da Haaretz, 20 febbraio 2009

Che buon gusto: il sangue sembrava una meraviglia estetica e la vera crudeltà non è affatto la nostra ma quella di tutti i Samir Geagea e Elie Hobeika. “Valzer con Bashir”, in gara domenica per gli Oscar, è un film israeliano nauseante. Dobbiamo stupirci di esserne così fieri?

Tutti incrociano le dita per Ari Folman e tutti gli autori di “Valzer con Bashir”, perché vincano un Oscar. Primo Oscar israeliano? Perché no? Ma dopo aver detto ciò, aggiungiamo: questo film è irritante, snervante, provocante, nauseante, ingannevole e pieno di girotondi. Merita l’Oscar per le immagini, merita di essere bollato di infamia per il suo messaggio. Non è un caso se Folman non ha aperto bocca alla cerimonia di consegna dei “Golden Globes”: non una parola sulla guerra che infuriava a Gaza in suo nome, nel momento stesso in cui lui era sulla scena a ricevere il premio.

A Gaza quel giorno si vedevano immagini straordinariamente simili a quelle presentate da Folman nel suo film, ma l’autore non ha trovato una sola parola da dire su questo. Prima di intrecciare corone per lui – il che sarebbe un modo di intrecciarle per noi stessi, perché questo sarà l’Oscar per t-u-t-t-i-n-o-i è bene ricordare che non si tratta di un film anti-guerra, e nemmeno di un film critico sull’Israele aggressivo; si tratta di una frode, di un inganno, un film che vuol farci piacere e vuol dire, a noi e al mondo: guardate come siamo belli.

Hollywood sarà in festa, l’Europa applaudirà e il Ministero degli esteri di Israele spaccerà il film e il suo autore in ogni angolo della terra per presentare la faccia bella del paese. La verità è che si tratta di un film di propaganda. Impeccabile, sofisticato, pieno di talento e di buon gusto – ma un film di propaganda. A Amos Oz e a A. B. Yehoshua, si aggiungerà adesso un nuovo ambasciatore culturale. Anche lui passerà per illuminato, immensamente illuminato, talmente diverso dai soldati appostati ai checkpoints, dai piloti che fanno saltare i quartieri residenziali, dagli artiglieri che bombardano donne e bambini e dai genieri che distruggono le strade.

Al posto di tutto ciò, ecco – in disegni – l’immagine capovolta: il bell’Israele, illuminato, tormentato e che si giustifica, quello che danza il valzer con Bashir, e anche senza di lui. Che bisogno abbiamo di propagandisti che recitino i messaggi del Ministero degli esteri? Che bisogno di ufficiali, di commentatori e di portavoce? Abbiamo un valzer.

Questo valzer è basato su due fondamenti ideologici: abbiamo sparato e poi abbiamo pianto, oh! come abbiamo pianto, e le nostre mani non hanno versato questo sangue. Aggiungete a questo un po’ di ricordi del genocidio, senza i quali non c’è attività israeliana degna di questo nome, in qualsiasi ambito, e un pizzico di vittimizzazione, e avete il ritratto falsificato di Israele 2008.
Folman ha partecipato alla guerra in Libano e due dozzine d’anni dopo gli viene l’idea di farne un film. Folman è tormentato. Ritrova i suoi compagni d’armi di allora. Beve al bar con l’uno, fuma spinelli in Olanda con l’altro, sveglia alle ore piccole il suo amico terapeuta e torna a fare una seduta dalla psicologa, tutto ciò per liberarsi finalmente dall’incubo che ossessiona la sue notti. L’incubo è sempre il nostro e nient’altro che il nostro.

E’ confortante realizzare un film sulla lontana prima guerra del Libano – ne abbiamo già mandato uno agli Oscar, “Beaufort” – e più confortante ancora è focalizzarsi su Sabra e Chatila.
Dall’inizio, le giornate della grande protesta contro il massacro in quei campi profughi sono state accompagnate dall’affermazione che, a dispetto dei silenzi e degli sguardi d’intesa, malgrado il via libera accordato ai falangisti, nostri factotum, e sebbene tutto si sia svolto in territorio sotto occupazione israeliana, le mani crudeli che hanno versato quel sangue non sono le nostre.

Alziamo la voce contro tutti i Samir Geagea e gli Elie Hobeika, tutti i crudeli Bashir e sì, anche un pochino contro di noi che abbiamo chiuso gli occhi, forse anche incoraggiato, ma almeno non siamo stati noi a versare il sangue con le nostre mani. Sul sangue dell’altro, quello che abbiamo versato e continuiamo a versare da Jenin a Rafah, su quello nessun autore israeliano si è ancora deciso a fare un film. Non è il caso.

I soldati dell’esercito più illuminato del mondo cantano una canzone, in “Valzer con Bashir”: “Buongiorno, Libano. Possa tu non conoscere sofferenza. I tuoi sogni si realizzeranno, i tuoi incubi si dissolveranno. Che la tua vita sia tutta una benedizione”. Carino, no? Quale altro esercito canterebbe simili canzoni, e per giunta al culmine di una guerra? Poi, cantano che il Libano è “l’amore della mia breve vita” e il carro da cui proviene la canzone schiaccia un’automobile, appiattendola come fosse una lattina, poi urta una casa, minacciando di farla crollare. Noi siamo così. Cantiamo e distruggiamo. Dove si trovano ancora soldati sensibili come quelli? Sarebbe preferibile che urlassero con voce roca “morte agli Arabi”.

Ho visto il film due volte. La prima volta, al cinema, ero rimasto impressionato: che ricercatezza, che talento! Le immagini sono splendide, le voci autentiche, la musica carezzevole, anche il dito mozzato di Ron Ben Yishai è disegnato con precisione. Non è stato dimenticato alcun particolare, nessuna sfumatura è stata trascurata. Tutti gli eroi sono eroi: meravigliosamente impeccabili come Folman stesso, si esprimono con scioltezza, sono belli, alla moda, curati nella persona, informati, di sinistra, sensibili e intelligenti

L’ho visto per la seconda volta, a casa, alcune settimane dopo. Questa volta, sono stato attento anche a quel che veniva detto e ho colto il messaggio che spunta dietro l’ingannevole schermo del talento. Ero sempre più nauseato ogni momento. E’ un film irritante come nessun altro, precisamente a causa dell’enorme talento che lo pervade. L’arte è mobilitata a favore di una campagna di inganno. La guerra è dipinta con colori dolci e carezzevoli. Come in una striscia di fumetti. Anche il sangue lì è meravigliosamente estetico, e la sofferenza non è veramente sofferenza, quando è disegnata. Gli istigatori della guerra sono stati mobilitati al servizio attivo dell’ammirazione e del tormento di se stessi. Boaz è distrutto dopo aver sparato, uccidendoli, su 26 cani randagi e si ricorda di ciascuno di loro. Adesso cerca “un trattamento, uno psicologo, lo shiatsu, qualcosa”.

Povero Boaz. E povero Folman: quale sortilegio gli impedisce di ricordarsi ciò che è avvenuto durante il massacro? “Anche i film sono una psicoterapia”, ammette, come consiglio gratuito. Sabra e Chatila? “A dire il vero, non rientra nel mio sistema”, dice in ebraico. Dopo l’incontro con Boaz, che è avvenuto nel 2006, ossia 24 anni dopo, arriva il “flash”, il grande flash che ha prodotto il grande film.

Da quell’estate, l’eroe del film si ricorda con grande tristezza: è precisamente il momento in cui Yaeli l’ha mollato. Nel frattempo, hanno ucciso e distrutto senza discernimento. Il comandante guardava film porno in una villa di Beyrut; anche (il giornalista) Ron Ben Yishai “aveva un appartamento” a Ba’abda dove, una sera, ha bevuto un mezzo bicchiere di whisky e ha sganciato il telefono per chiamare Arik (Sharon) nel suo ranch e raccontargli il massacro.

Nessuno si chiede a chi diavolo potessero appartenere quegli appartamenti saccheggiati, dove fossero i loro proprietari né, stupidamente, che cosa facessero le nostre forze là, in quegli appartamenti. Non rientra nel sistema dell’incubo. “Tutto ciò che mi resta è un’allucinazione, un mare di angosce” ammette l’eroe recandosi dalla sua terapeuta, che si affretterà a tranquillizzarlo: “ il suo i
nteresse per il massacro proviene, più in generale, da un altro massacro. Viene dai campi dai quali sono tornati i suoi genitori. Lei sta vivendo quel massacro e quei campi là”.

Bingo. Perché non ci avevamo pensato prima? Non siamo assolutamente noi, sono i nazisti, che il loro nome e il loro ricordo siano cancellati. “Le hanno fatto giocare il ruolo del nazista suo malgrado”, lo rassicura un altro terapeuta, quasi un ricordo delle stupide parole di Golda Meir quando diceva che non perdoneremo mai agli Arabi di averci fatti diventare quel che siamo. “Lei si è occupato dell’illuminazione, ma non ha commesso il massacro”, dice il terapeuta per pacificarlo. Perfetto. Noi non ci abbiamo messo mano.

E per di più non siamo noi che abbiamo perpetrato il massacro: com’è piacevole mostrare la crudeltà dell’Altro. Le membra amputate che i Falangisti – sia cancellato il loro nome – mettevano in barattoli di formalina, i plotoni di esecuzione davanti al muro, i marchi incisi nei corpi delle vittime.

Guardateli e guardateci: noi non facciamo mai cose simili. Quando Ben Yishai entrerà nei campi, evocherà immagini del ghetto di Varsavia. All’improvviso, in mezzo alle rovine, scorge una manina e una testa riccioluta, esattamente come quella di sua figlia. “Stop the shooting, everybody go home” (cessate il fuoco, tornate tutti a casa) grida nell’altoparlante il comandante Amos, e il massacro cessa di colpo. Cut. Tagliate. E allora, di colpo, le immagini disegnate lasciano il posto ad immagini reali di donne urlanti in mezzo a rovine e cadaveri. E’ la prima volta che nel film si vedono non solo immagini reali, ma vere vittime. Non quelle che hanno bisogno di uno psicologo o di un bicchiere per riprendersi, ma quelle che si sono trovate in lutto, senza casa, mutilate. Ed è il primo (e l’ultimo) momento di verità e di dolore in “Valzer con Bashir”