DEPRESSIONE MONDIALE: GUERRE REGIONALI E DECLINO DELL’ IMPERO USA

di James Petras

da www.globalresearch.ca

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CARLO PAPPALARDO

Introduzione

Tutti gl’idoli del capitalismo degli ultimi 30 anni sono crollati: premesse, deduzioni, paradigmi e previsioni di un progresso senza fine, grazie al libero mercato capitalistico, sono stati messi alla prova e hanno fallito. Stiamo vivendo la fine di un’era, e gli esperti sono oramai concordi nel riconoscere il collasso degli USA e del sistema finanziario mondiale, la mancanza di credito per le attività commerciali e di finanziamenti per gl’investimenti. L’ombra di una depressione mondiale, in cui più di un quarto delle forze attive sarà senza lavoro, incombe minacciosamente, e il peggior crollo del commercio della storia mondiale contemporanea (meno 40% annuo) lascia capire quale sarà il nostro futuro. L’imminente bancarotta delle più grandi aziende produttrici del mondo capitalistico ossessiona i politici occidentali. Il “mercato”, inteso come meccanismo di distribuzione delle risorse, e il governo statunitense, inteso come “leader” dell’economia globale, sono completamente screditati (Financial Times, 9 marzo 2009). Tutte le tesi su un “mercato in grado di autostabilizzarsi” sono manifestamente false e sorpassate. Il rifiuto dell’intervento pubblico nel mercato e l’esaltazione dell’economia dell’offerta sono oramai screditati anche agli occhi di chi ne fa uso. Persino gli ambienti ufficiali riconoscono che “lo squilibrio delle entrate” ha contribuito a spianare la strada al collasso economico e che dovrebbe essere corretto. Pianificazione, proprietà pubblica, nazionalizzazione sono i temi in agenda, e le alternative socialiste appaiono ora quasi accettabili.

Col sopravvenire della depressione, tutte le scelte dell’ultimo decennio sono state accantonate: le strategie volte alla crescita delle esportazioni hanno fallito ed ecco che emergono le politiche di sostituzione delle importazioni, l’economia mondiale “deglobalizza” mentre il capitale viene “rimpatriato” per salvare le aziende prossime al fallimento ed ecco che viene suggerita la proprietà nazionale. Beni per trilioni di dollari/euro/yen vengono distrutti e svalutati, licenziamenti in massa diffondono la disoccupazione dappertutto. Timori, ansietà e incertezza pervadono gli uffici pubblici, i gruppi dirigenti finanziari, le società, le fabbriche, le strade…

Entriamo in un’epoca di sconvolgimenti nel quale le fondamenta stesse dell’ordine politico ed economico mondiale sono frantumate, al punto che nessuno osa più immaginare il restaurarsi di quel sistema politico-economico che ha caratterizzato il recente passato. Il futuro ci promette caos economico, cataclismi politici e impoverimento di massa. Ancora una volta, lo spettro del socialismo aleggia sulle rovine degli antichi giganti della finanza.

Man mano che il mercato libero dei capitali collassa, i suoi sostenitori ideologici abbandonano la nave che affonda, mettono da parte la linea di pensiero che esaltava le virtù del mercato e inneggiano adesso allo Stato come salvatore del sistema, una proposta dubbia il cui solo risultato sarebbe quello di prolungare la rapina del tesoro pubblico e l’agonia del capitalismo che abbiamo conosciuto.

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Teoria della crisi del capitale: la morte dell’esperto economico.

Le fallimentari politiche economiche dei leader mondiali sono insite nel funzionamento dei mercati capitalistici. Per non dover criticare il sistema, leader ed esperti finanziari vengono accusati d’incompetenza, “avidità” e carenze personali.

Fumose spiegazioni psicologiche hanno sostituito le ragionate analisi delle strutture, forze materiali e realtà obiettive che guidano, motivano e incentivano investitori, decisori e banchieri. Quando le economie capitalistiche collassano, gli dei ottenebrano la mente di politici ed editorialisti, rendendoli incapaci di analizzare i processi obiettivi e spingendoli a formulare insensate ipotesi soggettive.

Invece di esaminare le opportunità create dall’enorme surplus di capitali e i margini di profitto reali che spingono i capitalisti verso l’attività finanziaria, ci viene detto che si è trattato di una “incapacità dei leader” Invece di studiare il potere e l’influenza della classe capitalistica sullo Stato, in particolare nella scelta dei responsabili economici e dei normatori che volevano massimizzare i loro profitti, ci viene detto che si è trattato di “incapacità di capire” o di un “deliberato trascurare le necessità dei mercati”. Invece di guardare alle classi sociali e ai rapporti di classe (in particolare le classi capitalistiche storiche che operano in mercati reali) i venditori di fumo favoleggiano di un “mercato” ideale popolato di irreali capitalisti “razionali”. Invece di valutare fino a che punto la crescita dei profitti, l’espansione dei mercati, il credito facile, la flessibilità del lavoro, e il controllo sulle politiche e i bilanci pubblici, abbiano contribuito a plasmare la “fiducia degl’investitori” (o, in loro assenza, a distruggerla) gli affabulatori dicono che è stata la “mancanza di fiducia” a provocare il crollo dell’economia. La causa obiettiva della crisi, il venir meno delle condizioni specifiche che generano profitto, viene invece cercata in una errata “percezione” di tale venir meno.

Nelle economie capitalistiche fiducia, confidenza e sostegno nascono dai rapporti economici e dalle strutture che generano profitto. Si tratta di percezioni psicologiche confortate da risultati positivi: transazioni economiche, investimenti e quote azionarie che aumentano di valore e moltiplicano i guadagni attuali e futuri. Quando gl’investimenti vanno male, le società perdono soldi, le aziende falliscono, e ne consegue una “perdita di fiducia” di azionisti e broker. Quando interi settori economici danneggiano gravemente in toto investitori, depositanti e risparmiatori, si ha una “perdita di fiducia nel sistema”.

Nell’universo capitalistico i venditori di fumo sono l’ultima risorsa di ideologi, accademici, esperti ed editorialisti di pagine finanziarie. Per non dover ammettere il crollo dei mercati capitalistici reali, scrivono e parlano di vaghe utopie, come quella dei “mercati responsabili” compromessi da “alcuni sconsiderati”. In altri termini, per salvare un’ideologia fallita fondata sui mercati capitalistici hanno inventato un ideale morale, un “mercato e una visione capitalistica responsabile”, estranea al comportamento, agl’imperativi economici e alle contraddizioni insite nella guerra tra classi.

Gl’inadeguati e scadenti argomenti economici che caratterizzano gli scritti degl’ideologi capitalistici vanno di pari passo con il fallimento del sistema sociale in cui sono inseriti. I fallimenti intellettuale e morale della classe capitalistica e dei suoi sostenitori politici non sono difetti individuali; riflettono il fallimento economico del mercato capitalistico.

Il crollo del sistema finanziario statunitense è il sintomo di un più profondo collasso del sistema capitalistico, che affonda le sue radici nello sviluppo dinamico del capitalismo nei 30 anni precedenti. In termini più generali, l’attuale depressione mondiale deriva dalla formulazione classica descritta da Karl Marx oltre 150 anni orsono: la contraddizione tra lo sviluppo delle forze e dei rapporti di produzione.

Al contrario di quel che affermano i teorici (secondo i quali la “finanza” e il capitalismo “postindustriale” avrebbero “distrutto” o deindustrializzato l’economia mondiale, sostituendola con una sorta di roulette o di capitalismo speculativo), abbiamo in effetti assistito alla più spettacolare crescita a lungo termine del capitale industriale, che ha usato più lavoratori e salariati di qualsiasi altro periodo storico. Sulla spinta dei crescenti tassi di profitto, gl’investimenti a grande scala e a lungo termine sono stati la forza motrice che ha permesso al capitale industriale, o a esso collegato, di penetrare nelle più remote regioni sottosviluppate del mondo. Nuovi e vecchi paesi capitalisti hanno dato vita a enormi imperi economici, abbattendo le barriere politiche e culturali per incorporare e sfruttare miliardi di lavoratori in un incessante processo. Quando la concorrenza dei nuovi paesi industrializzati si è intensificata e la crescente massa di profitti ha superato la capacità di reinvestimento vantaggioso nei centri capitalistici tradizionali, enormi quantità di capitale si sono trasferite in Asia, America latina, Europa orientale, e, anche se in misura più limitata, in Medio oriente e Africa meridionale.

I profitti in eccesso hanno sommerso i servizi, inclusi quelli finanziari, il settore immobiliare residenziale e industriale, il comparto assicurativo, l’area urbanistica.

La crescita dinamica delle innovazioni tecnologiche del capitalismo si è concretizzata in un maggior potere sociale e politico: ridimensionamento dell’organizzazione del lavoro, riduzione delle sue capacità negoziatrici, aumento esponenziale dei profitti. Con l’espandersi dei mercati mondiali i lavoratori sono stati sempre più considerati “costo di produzione” e non consumatori finali: gli aumenti salariali si sono fermati e i benefici sociali sono stati limitati, ridotti o posti a carico dei lavoratori. In una situazione di crescita dinamica del capitalismo, stato e politiche pubbliche sono diventate uno strumento conseguente: restrizioni, controlli e norme sono state indebolite. Il cosiddetto “neoliberalismo” ha aperto nuove aree d’investimento per i profitti in eccesso: aziende pubbliche, terre, risorse e banche sono state privatizzate.

Quando la concorrenza si è intensificata per l’emergere di nuove potenze industriali in Asia, il capitale statunitense ha cominciato a investire sempre di più nel settore finanziario, e ha elaborato, all’interno dei circuiti finanziari, una serie di strumenti basati sulla crescente ricchezza e i profitti dei settori produttivi.

Il capitale statunitense non ha “deindustrializzato”: ha delocalizzato in Cina, Corea e altri centri in pieno sviluppo, non a causa di una “caduta dei profitti” ma piuttosto dell’eccesso di profitto e dei maggiori profitti oltremare.

La Cina è stata in grado di fornire milioni di lavoratori per uno sfruttamento brutale caratterizzato da salati da fame, nessuna copertura sociale e un potere sociale nullo o scarsissimo. Una nuova classe di collaboratori asiatici del capitalismo, allevati e preparati dal capitalismo di stato asiatico, ha fatto abnormemente lievitare il volume dei profitti. I tassi d’investimento hanno raggiunto proporzioni vertiginose, grazie allo squilibrio tra beneficiari delle entrate o dei beni e lavoratori. La produzione è aumentata di molto, ma la domanda interna è stata mantenuta sotto stretto controllo: esportazione, crescita delle esportazioni e consumatori d’oltremare sono diventati la forza trainante delle economie asiatiche. I produttori americani ed europei hanno investito in Asia per esportare poi nei propri mercati interni, spostando la struttura del capitale interno verso commercio e finanza. I minori salari pagato ai lavoratori hanno portato a un’ampia espansione del credito. L’attività finanziaria è cresciuta in proporzione diretta con l’aumento delle importazioni di beni dai dinamici paesi di recente industrializzazione. I profitti industriali sono stati reinvestiti nei servizi finanziari; dal loro canto, profitti e liquidità sono cresciuti contemporaneamente al declino relativo in valore reale dovuto al passaggio dal capitale industriale a quello finanziario/commerciale.

Gli enormi profitti legati a produzione, commercio e finanze mondiali – e il riciclaggio dei risparmi d’oltremare negli USA attraverso i circuiti finanziari pubblici e privati – hanno generato un’enorme liquidità, di gran lunga superiore alla capacità storica delle economie statunitense ed europea di assorbire tali profitti in settori produttivi.

Il dinamico e vorace sfruttamento delle abbondanti forze di lavoro in Cina, India, e altrove, e la rapina e successivo trasferimento di centinaia di milioni dalla Russia ex-comunista e dall’America latina “neoliberalizzata” ha permesso di riempire le casseforti delle istituzioni finanziarie, vecchie e nuove.

Il supersfruttamento del lavoro in Asia, e la sovraccumulazione della liquidità finanziaria negli USA, ha portato all’ottimizzazione dell’economia cartacea e di quella che gli economisti liberali hanno definito “lo squilibrio globale” tra risparmiatori/investitori industriali/esportatori (in Asia) e consumatori/strutture finanziarie/importatori (negli USA). I consistenti surplus commerciali nell’est sono stati monetarizzati con l’acquisto di biglietti di banca statunitensi. L’economia americana è stata precariamente sostenuta da un’economia cartacea sempre più gonfiata.

L’espansione del settore finanziario è stata resa possibile dall’elevato tasso dei benefici, grazie anche all’economia “liberalizzata” imposta dal potere degl’investimenti di capitale diversificati dei precedenti decenni.

L’internazionalizzazione del capitale, la sua crescita dinamica e lo smisurato aumento del commercio hanno superato i salari stagnanti, la caduta dei pagamenti sociali, l’ampio surplus della forza di lavoro. Il capitale ha cercato per un certo tempo di sostenere i suoi profitti grazie al settore immobiliare, gonfiato con l’espansione del credito, l’effetto leverage sul debito, e la massiccia emissione di “strumenti finanziari” fraudolenti (beni invisibili senza valore). Il collasso dell’economia cartacea ha messo in pericolo un sistema finanziario sovradimensionato e ha obbligato a modificarlo. La perdita di finanze, crediti e mercati, ha avuto conseguenze per tutte potenze industriali produttrici di beni per l’esportazione. La mancanza di consumo sociale, la debolezza del mercato interno e gli ampi squilibri hanno reso impossibile alle potenze industriali sfruttare mercati alternativi per stabilizzare o limitare la spirale recessiva e depressiva. La crescita dinamica delle forze produttive fondate sullo sfruttamento intensivo del lavoro ha portato al sovradimensionamento dei circuiti finanziari, con la conseguenza di avviare il processo di “eliminazione” dell’industria e di subordinare il processo di accumulazione a un capitale estremamente speculativo.

Lavoro a basso costo – alla base della crescita di profitti, investimenti, commercio ed esportazione a scala mondiale – non è più stato in condizione di sostenere la rapina del capitale finanziario e di fornire un mercato al dinamico settore industriale. Quella che è stata erroneamente indicata come una crisi finanziaria, o in senso più stretto una crisi dei “mortgage” o dell’immobiliare, era più semplicemente il segnale del collasso di un settore finanziario sovradimensionato. Il settore finanziario, nato dall’espansione del capitalismo “produttivo”, gli si è poi “rivoltato contro”. I legami storici e i collegamenti storici tra industria e capitale finanziario hanno inevitabilmente condotto a una crisi sistemica del capitalismo, preso nella contraddizione tra un lavoro impoverito e un capitale concentrato. L’attuale depressione mondiale è il risultato di un processo di “sovraccumulazione” del sistema capitalistico, all’interno del quale il crollo del sistema finanziario ha funzionato da “detonatore” ma non da determinante strutturale. E le cose stiano così è dimostrato dal fatto che due paesi industriali, Giappone e Germania, hanno affrontato una caduta delle esportazioni, degl’investimenti e della crescita superiore a quella registrata in due paesi “finanziari”, USA e Regno Unito.

Il sistema capitalistico in crisi distrugge capitale per “espellere” le industrie e i settori meno efficienti e competitivi e più indebitati, in modo da riconcentrare il capitale e ricostruire il potere dell’accumulazione, se le condizioni politiche lo permetteranno. La ricomposizione del capitale passa attraverso la rapina delle risorse pubbliche: il cosiddetto bailout e gli altri massicci trasferimenti dal tesoro pubblico (ovverosia dai “contribuenti”) ottenuti con la selvaggia riduzione dei trasferimenti sociali (ovverosia i “servizi pubblici”), del costo del lavoro (grazie ai licenziamenti, alla disoccupazione generalizzata e alla riduzione dei salari, delle pensioni e delle spese sanitarie) e degli standard di vita. Tutto per aumentare i tassi di profitto.

La depressione mondiale: analisi di classe

Gl’indicatori economici aggregati sull’ascesa e la caduta del sistema capitalistico mondiale non ci aiutano molto a capire le cause, la traiettoria e l’impatto della depressione mondiale. Nel migliore dei casi descrivono il macello economico; nel peggiore nascondono le classi sociali dominanti (classi dirigenti), che con le loro complesse reti e trasformazioni hanno pilotato l’espansione e il collasso economico, e le classi dei lavoratori e salariati (classi lavoratrici), che hanno prodotto la ricchezza necessaria ad alimentare la fase espansiva e che adesso pagano i costi del collasso economico.

È un truismo ben noto che quelli che hanno innescato la crisi sono anche i maggiori beneficiari della generosità del governo. Le nude e crude osservazioni quotidiane ci mostrano che la classe dirigente “ha creato” la crisi e che la classe lavoratrice “ne paga” a dir poco i costi; un riconoscimento dell’utilità dell’analisi di classe per decifrare la realtà sociale soggiacente agli aggregati economici. Dopo la recessione dei primi anni ’70, la classe capitalistica industriale dell’occidente ha garantito i fondi per dar vita a un periodo di ampia e profonda crescita per il mondo intero. I capitalisti tedeschi, giapponesi e del sud-est asiatico hanno prosperato, entrando in concorrenza e in collaborazione con le loro controparti statunitensi. In tutto questo periodo il potere sociale, l’organizzazione delle classi lavoratrici e la loro influenza politica hanno subito una perdita di posizioni (relative e assolute) nel totale delle entrate materiali. Le innovazioni tecnologiche, compresa la riorganizzazione del lavoro, hanno controbilanciato gli aumenti salariali riducendo la “massa dei lavoratori” e, in particolare, la loro capacità di esercitare pressioni sulle prerogative della dirigenza. La posizione strategica capitalistica nella produzione ne è uscita rafforzata, e ha reso possibile un controllo quasi assoluto sulla localizzazione e i movimenti di capitale.

Soprattutto negli USA e nel Regno Unito, i poteri consolidati dei capitalisti, con consistenti accumuli di capitale e una sempre maggiore concorrenza dei colleghi tedeschi e giapponesi, avevano cercato d’incrementare i tassi di guadagno spostando gl’investimenti di capitale nelle finanze e nei servizi. In un primo momento l’operazione mirava a fornire credito e finanziamento per favorire la vendita di automobili e di elettrodomestici “bianchi”. I capitalisti industriali meno dinamici avevano trasferito le linee di montaggio in regioni o paesi a basso costo di lavoro. Come conseguenza, negli USA i capitalisti industriali avevano assunto l’aspetto di “finanzieri”, pur conservando il carattere industriale nella gestione delle fabbriche sussidiarie nei paesi oltremare e dei fornitori in subappalto. L’utile delle fabbriche oltremare e delle operazioni finanziarie locali gonfiava il profitto aggregato della classe capitalista. Mentre l’accumulazione di capitale aumentava nel “paese di origine”, i salari locali e i costi sociali erano sotto pressione, perché, con la collaborazione delle unioni sindacali negli USA e dei partiti politici socialisti in Europa, i capitalisti scaricavano i costi della concorrenza sui lavoratori. Le clausole salariali, che legavano in modo asimmetrico salari e produttività, e i patti lavoro-capitale facevano aumentare i profitti. I lavoratori statunitensi erano “ricompensati” dal basso costo dei beni di consumo importati, prodotti da forze di lavoro sottopagate nei paesi di recente industrializzazione, e dal facile accesso al credito.

Per tutti gli anni ’90, la rapina dell’ex Unione Sovietica, con la collaborazione degli oligarchi locali, aveva dato luogo a un massiccio flusso di capitali saccheggiati nelle banche occidentali. La transizione della Cina verso il capitalismo, avviatasi negli anno ’80 e intensificatasi nel decennio successivo, aveva poi aumentato l’accumulazione dei profitti industriali, grazie allo sfruttamento intensivo di decine di milioni di salariati a livelli di pura sopravvivenza. Mentre i trilioni di dollari dell’ex Unione sovietica si riversavano nei settori finanziari dell’Europa occidentale e degli USA, il sovradimensionamento del settore finanziario era aggravato dalla massiccia crescita di miliardi di dollari dei trasferimenti illegali e del riciclaggio tra banche statunitensi e britanniche.

L’aumento dei prezzi petroliferi e gli utili dei capitalisti “rentier” (il termine indica i capitalisti che vivono essenzialmente del profitto ricavato dal capitale liquido. NdT) aveva nel frattempo aggiunto un’importante nuova fonte di profitti finanziari e liquidità. Rapina, profitto, e capitale illecito aveva dunque permesso un’ampia accumulazione di ricchezza finanziaria del tutto indipendente dalla produzione industriale. D’altra parte, la rapida industrializzazione della Cina e di altri paesi del sud-est asiatico aveva aperto un importante mercato ai fabbricanti tedeschi e giapponesi di beni tecnologicamente complessi, permettendo loro di vendere alle fabbriche vietnamite e cinesi apparecchiature di alta qualità e tecnologicamente complesse.

I capitalisti statunitensi non hanno “deindustrializzato”, lo ha fatto il paese. Spostando la produzione oltremare, importando i prodotti finiti, e occupandosi solamente del credito e del finanziamento, la classe capitalistica americana e i suoi membri sono diventato multisettoriali e diversificati. Hanno così moltiplicato i profitti e accelerato l’accumulazione di capitale.

I lavoratori sono dal canto loro stati sottoposti a numerose forme di sfruttamento: stagnazione dei salari, stretta creditizia, passaggio da lavori specializzati con alti salari a lavori meno pagati con conseguente riduzione dello standard di vita.

Le cause di base del collasso erano chiaramente visibili: la crescita dinamica del capitalismo occidentale era in buona parte basata sulla rapina brutale dell’URSS e dell’America latina, con una marcata contrazione del livello di vita su tutto l’arco degli anno ’90. Lo sfruttamento selvaggio e intensificato di centinaia di milioni di malpagati lavoratori cinesi, messicani, indonesiani e indocinesi, così come l’esodo forzato di ex agricoltori riciclati come lavoratori migranti nei centri di produzione,aveva permesso alti livelli di accumulazione, rafforzati anche dalla relativa contrazione dei salari negli USA e in Europa occidentale. La priorità data da Germania, Cina, America latina, ed Europa orientale alla crescita basata sulle esportazioni aveva aggravato il sempre maggiore “squilibrio” (o contraddizione) tra ricchezza capitalistica concentrata e la crescente massa di lavoratori sottopagati. A livello mondiale le iniquità erano cresciute in progressione geometrica, e il processo dinamico di accumulazione aveva superato la capacità del sistema capitalistico, estremamente polarizzato, di assorbire capitale nelle attività produttive garantendo gli elevati tassi di profitto registrati.

Si era così arrivati ad una crescita generalizzata e multiforme di capitale speculativo che aveva gonfiato i prezzi e investito in beni immobiliari, materie prime, hedge fund, titoli, finanziamento mediante la cessione di crediti, fusioni e acquisizioni: tutte attività senza alcun collegamento con le attività reali che producono valore. Il boom industriale e le pressioni esercitate sui salari dei lavoratori avevano però minato la domanda interna e intensificato la concorrenza sui mercati mondiali. L’attività speculativo-finanziaria, con le sue massicce liquidità, aveva permesso una “soluzione nel breve termine”: i profitti basati sul finanziamento mediante la cessione di crediti. La concorrenza tra finanziatori aveva dato impulso alla disponibilità di credito a basso prezzo, e la speculazione immobiliare era diventata possibile anche per la classe lavoratrice, permettendo a salariati e operai che non disponevano di risparmi o beni personali di ottenere facilmente mutui e partecipare alla frenesia alimentata dagli speculatori e fondata sull’idea di una crescita irreversibile del valore degl’immobili. L’inevitabile collasso si è propagato in tutto il sistema, partendo dalla base della catena speculativa: dagli ultimi arrivati detentori di ipoteche immobiliari subprime, la crisi è salita fino a colpire le più grandi banche e società che si erano lanciate nelle acquisizioni e nelle operazioni di leveraged buyout. Sono stati colpiti tutti i “settori” che avevano “diversificato” passando dalla produzione alle finanze, al commercio e alle materie prime. L’intera classe dei capitalisti si è trovata di fronte al fallimento. Gli esportatori industriali tedeschi, giapponesi e cinesi, che avevano sfruttato i lavoratori hanno dovuto affrontare il collasso dei loro mercati di esportazione.

L’esplosione della bolla finanziaria è stata la conseguenza della “sovraccumulazione” del capitale industriale e della rapina della ricchezza a scala mondiale. La sovraccumulazione radica nel più importante caratteristica del capitalismo: la contraddizione tra proprietà privata e produzione sociale, la contemporanea concentrazione del capitale, il rapido declino degli standard di vita.

Obama e la crisi del capitalismo: analisi di classe

Gl’indicatori dell’aggravarsi della depressione nel 2009 sono visibili ovunque:

– i fallimenti sono aumentati del 14% nel 2008 e dovrebbero aumentare di un altro 20% nel 2009 (Financial Times, 25 febbraio 2009, p. 27)

La svalutazione delle grandi banche occidentali ha raggiunto il trilione di dollari, e continua ad aumentare (secondo l’Institute for International Financing, the banking groups Washington lobby). (Financial Times, 10 marzo 2009, p.9).

E secondo il Financial Times le perdite dovute all’obbligo delle banche di ricalcolare i propri investimenti sulla base dei prezzi di mercato si avvicina ai 3 trilioni di dollari, pari a un anno di produzione economica britannica. Nello stesso rapporto, si afferma che secondo l’Asian Development Bank i beni patrimoniali si sarebbero ridotti di oltre 50 trilioni a livello mondiale, una cifra dello stesso ordine di grandezza della produzione mondiale annua. Nel 2009 gli USA avranno un deficit di bilancio pari al 12,3% del PIL e un deficit fiscale enorme che finiranno per distruggere le finanze pubbliche.

I mercati mondiali sono crollati:

– il TOPIX è sceso da 1800 (metà 2007) a 700 (inizi 2009);

– Standard and Poor da 1380 (inizi 2008) a meno di 700 (2009);

– FTSE100 da 6600 a 3600 (inizi 2009);

– Hang Seng da 32.000 (inizi 2008) a 13,000 (inizi 2009) (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.27);

– nel quarto trimestre 2008, il PIL si è contratto a un tasso annuo del 20,8% nella Corea del sud, del 12,7% in Giappone, dell’8,2% in Germania, del 2,9% nel Regno Unito, del 3,8% negli USA (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.9);

– l’indice Dow Jones Industrial Average è crollato da 14.164 (ottobre 2007) a 6.500 (marzo 2009);

– il declino annuo della produzione industriale è stato del 21% in Giappone, del 19% nella Corea del sud, del 12% in Germania, del 10% negli USA, del 9% nel Regno Unito (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.9);

– si prevede che i flussi netti di capitale privato dai paesi dominati verso i paesi capitalistici meno sviluppati si ridurranno dell’82% e i flussi creditizi di 30 miliardi di dollari (Financial Times, 25 febbraio 2009, p.9);

– l’economia statunitense è scesa del 6,2% negli ultimi tre mesi del 2008, e ancora di più nel primo trimestre del 2009 a causa del netto declino delle esportazioni (23,6%) e delle spese al consumo (4,3%) nell’ultimo trimestre del 2008 (British Broadcasting Corporation, 27 febbraio 2009).

Con oltre 600.000 nuovi disoccupati al mese negli ultimi tre mesi del 2009, e molti di più messi a tempo parziale o prossimi al licenziamento nel 2009, la disoccupazione reale e mascherata potrebbe raggiungere a fine anno il 25%. Tutti i sintomi fanno pensare a una depressione profonda e prolungata:

– le vendite di General Motors, Chrysler e Ford sono scese di oltre il 50% sull’arco di un anno (2007-2008). Il primo trimestre del 2009 ha visto un ulteriore declino del 50%;

– i mercati esteri si stanno prosciugando man mano che la depressione di diffonde;

– nel mercato interno americano le vendite di beni durevoli sono scese del 22% (BBC, 27 febbraio 2009);

– gl’investimenti residenziali sono crollati del 23,6% e gl’investimenti d’affari del 19,1%, con una caduta del 27,8% delle apparecchiature e software.

L’onda crescente della depressione è guidata dal disinvestimento degl’investimenti privati. Crescenti giacenze, ridotti investimenti, fallimenti, uscita dai mercati, insolvenze bancarie, massicce perdite di accumulazione, restrizioni nell’accesso al credito, crollo del valore dei beni patrimoniali, e riduzione di oltre il 20% dei valori immobiliari (oltre 3 trilioni di dollari) sono al tempo stesso causa e conseguenza della depressione. Come conseguenza del collasso dei settori industriale, minerario, immobiliare e commerciale, ci sono in tutto il mondo almeno 2,2 trilioni di dollari di debiti bancari “tossici” (inesigibili), ben più dei fondi di soccorso messi a disposizione dalla Casa Bianca tra ottobre 2008 e marzo 2009.

La depressione sta riducendo il peso economico a livello globale dei paesi imperialisti e sta minando le strategie di esportazione finanziate dal capitale straniero in America latina, Europa orientale, Asia e Africa.

Tra gli economisti tradizionali, i consiglieri finanziari, esperti e specialisti in storia dell’economia, è diffusa la convinzione che “a lungo termine” il mercato azionario recupererà, la recessione terminerà e il governo si ritirerà dal settore economico. Questi analisti guardano all’esperienza dei precedenti cicli, i “cicli storici”, e non percepiscono la realtà attuale, che non ha precedenti: la natura globale della depressione economica, la velocità del crollo mai prima conosciuta, il livello del debito che i governi devono sopportare per sostenere le banche e le industrie insolventi, i deficit pubblici senza precedenti che prosciugheranno le risorse per molte generazioni a venire.

I profeti ufficiali dello “sviluppo a lungo termine” selezionano arbitrariamente alcuni indicatori del passato, stabiliti sulla base di un contesto politico-economico completamente diverso da quello attuale. L’ozioso parlare degli economisti “post-crisi” ignora i sempre diversi parametri variabili, mancando così i veri “indicatori di mercato” dell’attuale depressione. Come ha sottolineato un analista, “ogni punto di partenza che scegliamo tra i dati storici non può replicare le condizioni di partenza di un diverso momento, perché gli eventi che lo precedono nei due casi non possono essere identici” (Financial Times, 26 febbraio 2009, p.24). L’attuale depressione statunitense si è sviluppata nel contesto di una economia deindustrializzata, un sistema finanziario insolvente, un deficit fiscale eccezionale, un deficit commerciale enorme, un debito pubblico senza precedenti, un debito estero di vari trilioni di dollari, e una spesa militare per le varie guerre e invasioni in corso ben al di sopra degli 800 miliardi di dollari. Ognuna di queste variabili contraddice il contesto in cui si sono sviluppate le precedenti depressioni. Non c’è niente nelle precedenti crisi del capitalismo che rassomigli alla situazione attuale. L’odierna configurazione delle strutture economica, politica e sociale del capitalismo include livelli astronomici di rapina delle risorse del tesoro pubblico, usate per sostenere le banche e le industrie insolventi, con trasferimenti senza precedenti di entrate dei salari e dei contribuenti verso “profittatori” non produttivi e capitalisti industriali falliti, beneficiari di dividendi e creditori. I tassi e livelli di appropriazione e di riduzione dei risparmi, delle pensioni e dei programmi sociali, sempre senza contropartita, hanno condotto alla più rapida e generalizzata riduzione degli standard di vita e impoverimento delle masse mai registrato nella recente storia americana. .

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Mai, nella storia del capitalismo, si è avuta una profonda crisi economica senza un movimento sociale alternativo, e la presenza dei partiti o dello stato per proporre soluzioni. Mai gli stati e i regimi sono stati così strettamente controllati dalla classe capitalistica, soprattutto per quanto riguarda l’assegnazione delle risorse pubbliche. Mai, nel corso di una depressione economica, una parte così importante delle spese pubbliche è stata selettivamente destinata a compensare una classe capitalistica fallita, lasciando così poco ai salari e ai lavoratori dipendenti. .

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Le scelte e politiche economiche del regime di Obama riflettono in modo evidente il controllo totale della classe capitalista sulle spese pubbliche e sulla pianificazione economica… I programmi messi a punto dagli USA, dall’Europa occidentale, e da altre regioni capitalistiche non hanno nemmeno cominciato ad ammettere le basi strutturali della depressione.

In primo luogo, Obama ha destinato 1 trilione di dollari all’acquisto di titoli bancari senza valore e oltre il 40% dei suoi 787 miliardi di dollari d’incentivi non ai settori produttivi ma a banche insolventi e ad evasori fiscali, in modo da salvare i possessori di azioni e titoli; e questo mentre ogni mese oltre 600.000 si ritrovano senza lavoro.

In secondo luogo, per sostenere la costruzione di un impero basato sulle armi, il regime di Obama sta destinando oltre 800 miliardi di dollari al finanziamento della guerre in Iraq e Afghanistan. Si tratta di un massiccio trasferimento di fondi pubblici dall’economia civile al settore militare che spinge decine di migliaia di giovani disoccupati ad arruolarsi dell’armata (Boston Globe, 1 marzo 2009).

In terzo luogo, la commissione di Obama per sorvegliare la “ristrutturazione” dell’industria automobilistica statunitense ha approvato i piani che prevedono di chiudere molte fabbriche, eliminare i piani di protezione sociale finanziati dalle aziende a favore dei pensionati e obbligare decine di migliaia di lavoratori a brutali tagli nelle pensioni e l’assistenza sanitaria. L’intero onere per riportare in attivo l’industria privata dell’auto ricade sulle spalle degl’impiegati, salariati e pensionati, e naturalmente sui contribuenti americani.

L’intera strategia economica del regime di Obama consiste nel salvare i possessori di titoli, iniettando trilioni di dollari in strutture insolventi e comprando titoli di credito senza alcun valore e azioni di società finanziarie in fallimento. Al tempo stesso, però, il suo regime evita ogni investimento diretto nelle imprese pubbliche produttive, cosa che permetterebbe di dar lavoro a 10 milioni di disoccupati. Mentre oltre il 40% del bilancio di Obama è destinato alle spese militari e al pagamento del debito, un americano su dieci è stato sfrattato, il numero di americani senza lavoro sta arrivando al 10%, e quelli che devono usare i buoni statali per ottenere gli alimenti di base sta aumentando di vari milioni nel 2009.

Il programma di “creazione di posti di lavoro” di Obama indirizza miliardi di dollari verso le società private di telecomunicazione, costruzione, ambientali e di produzione elettrica, dove il grosso dei fondi pubblici serve per i bonus degli alti papaveri e per i dividendi degli azionisti, mentre solo una quota minima serve per i salari dei lavoratori. Inoltre, il grosso dei disoccupati nei settori della produzione e dei servizi non può essere riconvertito nei settori “beneficiari”. Nel 2009 verrà assegnata solo una minima parte dei “pacchetti d’incentivi”, che hanno il fine di sostenere le entrate della classe finanziaria e dominante e di rimandarne la loro già da tempo necessaria eliminazione. L’effetto sarà quello di aumentare il divario tra classe dirigente e lavoratori salariati. Gli aumenti delle tasse per la classe ricca sono incrementali, mentre l’enorme debito legato al deficit fiscale ricadono sui contribuenti attuali e futuri.

L’adesione entusiastica alla creazione di un impero su basi militari – anche in una situazione di deficit di bilancio da record, di un enorme passivo commerciale e di una depressione incalzante – identifica Obama come un militarista senza eguali nella storia contemporanea. Nonostante avesse promesso il contrario, il bilancio militare per il 2009-2010 supererà di almeno il 4% quello di Bush: il numero di militari statunitensi aumenterà di varie centinaia di migliaia, in Iraq si manterrà vicino al massimo e in Afghanistan aumenterà di varie decine di migliaia, almeno nel 2009, mentre gli attacchi aerei e terrestri in Pakistan sono cresciuti in progressione geometrica. I massimi responsabili nominati da Obama al Dipartimento di stato, al Pentagono, al Tesoro e al National Security Council sono in gran parte, soprattutto per quel che concerne le funzioni legate al Medio oriente, ebrei guerrafondai con una lunga storia di incitamento alla guerra contro l’Iran e strettamente legati ai comandi militari israeliani.

Per riassumere, le massime priorità del regime di Obama sono messe in luce dall’assegnazione di risorse finanziarie e materiali, dalle nomine dei responsabili economici e di politica estera, e dalle classi che trarranno benefici o che verranno penalizzate dalle sue scelte. La politica di Obama dimostra che il regime si preoccupa solo di salvare la classe capitalistica e l’impero USA, e per raggiungere il suo scopo il presidente è disposto a sacrificare i bisogni basici immediati, gl’interessi futuri, gli standard di vita della grande maggioranza dei lavoratori e proprietari americani, più direttamente colpiti dalla depressione economica nazionale. Nella nuova amministrazione, Obama ha ampliato gli obiettivi della costruzione di un impero basato sulla forza militare e rafforzato il potere dei guerrafondai proisraeliani. Le sue strategie di escalation militare e di “recupero economico” e sono incompatibili dal punto di vista finanziario e fiscale: il costo dell’una annulla l’impatto dell’altra e lascia un vuoto incolmabile negli sforzi di contrastare il collasso dei servizi sociali, dei sempre più frequenti sfratti, delle bancarotte e delle chiusure massicce.

I trasferimenti orizzontali di ricchezza pubblica dal gruppo di potere di Obama alla classe economica dominante non “hanno ricadute” sull’occupazione, il credito e i servizi sociali. Il tentativo di trasformare le banche insolventi in attive aziende di credito è un ossimoro. Il dilemma centrale di Obama è come creare le condizioni per rendere nuovamente lucrosi i settori falliti dell’attuale economia statunitense.

La sua strategia presenta numerosi problemi di base:

In primo luogo la struttura economica del paese – che in passato generava occupazione, profitti e crescita – non esiste più: è stata smantellata dirottando il capitale oltremare, in strumenti finanziari e in altri settori economici non produttivi.

In secondo luogo le politiche “d’incentivi” di Obama rinforza il potere finanziario su quello economico, destinando importanti risorse a quel settore invece di “riequilibrare” l’economia a favore del settore produttivo. E all’interno del settore produttivo le risorse pubbliche vengono usate per sostenere le élite capitalistiche che hanno dimostrato la loro incapacità di creare impiego, rafforzare la competitività sui mercati e di innovare alla luce delle preferenze e degl’interessi dei consumatori.

In terzo luogo la strategia economica di Obama di un recupero diretto verso il basso annulla buona parte del suo impatto sussidiando imprese capitalistiche fallite invece di aumentare le entrate della classe lavoratrice raddoppiando il salario minimo e i sussidi di disoccupazione, la sola base reale per aumentare la domanda e stimolare il recupero economico. Alla luce della riduzione dello standard di vita, imputabile al crollo nazionale e all’espansione dell’impero basato sulla forza militare, due fattori che sono parte integrale delle fondamenta istituzionali dello stato, non esistono speranze per un tipo di trasformazione strutturale in grado di modificar le onerose politiche “top-down” promosse dal regime di Obama.

Il segreto per uscire dalla sempre più profonda depressione non consiste nello stampare trilioni di dollari, operazione che crea solo le condizioni per l’iperinflazione e la marginalizzazione del dollaro. La causa principale è la sovraccumulazione del capitale legata allo sfruttamento intensivo del lavoro, che ha provocato tassi di profitto sempre più alti e il collasso della domanda: alla base dell’esplosione della bolla finanziaria c’è l’enorme disparità tra espansione del capitale e declino del consumo della classe lavoratrice.

“Riequilibrare” l’economia significa creare domanda (non di un settore produttivo privato stremato o di un sistema finanziario insolvente) attraverso la proprietà pubblica diretta e gl’investimenti a lungo termine e grande scala nella produzione di beni e servizi sociali. L’intera “sovrastruttura” speculativa, cresciuta in massima parte mettendo da parte il valore generato dal lavoro, si è riprodotta in una miriade di “strumenti cartacei” senza rapporto con il valore d’uso. Per liberare le forze produttive dai legacci e limitazioni dei capitalisti improduttivi e dei loro seguaci, è necessario smantellare l’intera economia cartacea, definire un ampio programma di formazione per riconvertire i broker in elementi creativi e produttivi, smantellare completamente l’impero mondiale per ricostruire il mercato domestico e per fare largo a innovazioni che incrementino la produttività. Le costose e improduttive basi dell’armata, elementi essenziali per l’espansione di un impero su basi militari, dovrebbero essere chiuse e sostituite da reti commerciali, mercati, transazioni economiche con produttori che operano al di fuori dei mercati domestici. Invertire la tendenza al declino domestico esige la fine dell’impero e la costruzione di una repubblica socialista democratica. In questa ottica, è imprescindibile porre fine alle alleanze politiche con le potenze guerrafondaie d’oltremare, in particolare con lo stato israeliano, e modificare radicalmente una struttura domestica che mina alla base gli sforzi per una società democratica aperta al servizio degl’interessi del popolo americano.

Impatto regionale della crisi globale

La depressione mondiale ha cause comuni e differenti, influenzate dagli specifici legami tra economie e strutture socioeconomiche. A un livello globale più generale, il crescente tasso di profitto e la sovraccumulazione del capitale che ha portato alle folli speculazioni finanziarie e immobiliari e al susseguente crollo hanno colpito, in modo diretto o indiretto, la maggior parte dei paesi. Ma al tempo stesso, anche se tutte le economie regionali stanno subendo le conseguenze della depressione, gli effetti sono notevolmente diversi dato che le regioni sono posizionate differentemente nell’economia mondiale.

America latina

Il Brasile – con una politica di libero mercato e di profonde divisioni di classe che vanificano ogni tentativo di recupero interno, e con il rapido declino delle esportazioni e della produzione industriale – avanza a grandi passi verso la recessione, nonostante le roboanti dichiarazioni del presidente Lula da Silva, il pupillo di Wall Street e della Casa Bianca.

Nel gennaio 2009 la produzione industriale è scesa del 17,2% annuo, mentre nell’ultimo trimestre del 2008 il PIL si è ridotto del 3,6% (Financial Times, 11 marzo 2009). Tutto lascia pensare che in quel che resta del 2009 la decrescita continuerà e si aggraverà: i mercati esteri dell’esportazione e degl’investimenti diretti, forza trainante delle passata crescita, sono in netta contrazione. Le politiche di privatizzazione di Lula hanno permesso che il settore finanziario cadesse in mano a investitori stranieri, che hanno importato la crisi degli USA e dell’UE. Le “politiche di globalizzazione” hanno reso il Brasile più vulnerabile al collasso del commercio estero. I flussi di capitale sono decisamente negativi. Tra dicembre 2008 e aprile 2009 centinaia di migliaia di persone hanno perso il lavoro. I 5 milioni di lavoratori rurali senza terra impoveriti, e i 10 milioni di famiglie che vivono con il sussidio alimentare governativo di un dollaro al giorno sono esclusi dalla domanda interna, così come le decine di milioni di lavoratori che vivono con il salario minimo di 250 dollari al mese. Il potere d’acquisto degli agricoltori superindebitati non sostituisce la latitante domanda estera. Tutti i settori, rurale e urbano, della classe capitalistica stanno congelando i nuovi investimenti visto che il credito è scomparso, gl’investitori stranieri abbandonano il campo e i la spesa dei consumatori locali si riduce a causa della sempre più grave recessione. Le affermazioni di Lula e le sue previsioni di crescita del 4% sono considerate “pura illusione” per coprire il sopravvenire di una dura recessione economica. Il cieco sostegno di Lula alla globalizzazione e al “libero mercato” è un elemento determinante della crescente recessione.

Il passaggio del Brasile a un PIL negativo precede di poco quello previsto per gli altri paesi della regione: -2% l’Argentina, -3% il Messico, 0% o meno il Cile. America centrale e area caraibica, totalmente “integrate” nell’economia statunitense e mondiale, stanno provando la forza devastante della depressione mondiale, con un tasso di disoccupazione che schizza verso l’alto a causa del collasso del turismo, della ridotta domanda di beni primari, e della grave caduta delle rimesse dei lavoratori emigrati. Povertà, criminalità e possibili rivolgimenti sociali contro i governi di centro e centro-sinistra si aggraveranno.

La diffusione mondiale del capitale dell’imperialismo (“globalizzazione” secondo i sostenitori, “imperialismo” secondo gli avversari) ha portato al ripercuotersi della crisi finanziaria e dei fallimenti nei paesi più strettamente legati ai circuiti finanziari europei e statunitensi.

La globalizzazione ha legato le economie latino-americane ai mercati mondiali, a spese dei mercati interni, e ha aumentato la vulnerabilità alle cadute della domanda, dei prezzi e del credito che oggi sperimenta. La globalizzazione, che prima aveva agevolato l’entrata di capitali, ne agevola, ora che siamo in presenza della depressione, la fuga massiccia. Gli USA, che assorbono il 70% dei risparmi mondiali nel suo sforzo disperato di cancellare e rifinanziare il suo mostruoso deficit di bilancio e commerciale ha estromesso i suoi partner commerciali latino-americani dal mercato mondiale del credito. La depressione ha dimostrato in modo chiarissimo il vuoto della globalizzazione centrata sull’imperialismo e l’assenza di rimedi per i suoi collaboratori sudamericani. Il crescente protezionismo (e i miliardi di dollari in sussidi di stato per sostenere i capitalisti degli stati imperialisti nei settori bancario, assicurativo, immobiliare e produttivo) dimostra in modo lampante la disintegrazione dell’economia globale centrata sull’imperialismo. La depressione mondiale non solo mette in luce i limiti intrinseci dell’economia globalizzata ma ne rende inevitabile la frantumazione in una molteplicità di unità in conflitto: le nazioni, ognuna delle quali dipende dalle proprie finanze e settori statali per poter uscire dalla profonda depressione a spese degli antichi alleati. Man mano che la deglobalizzazione accelera, la depressione mondiale spinge a tornare alla nazione-stato.

Parallela e strettamente collegata alla caduta del mercato mondiale è la crescita dello stato capitalistico come elemento chiave per recuperare le ricchezze nazionali ed imporre un esorbitante tributo alle pensioni e ai fondi sanitari e pensionistici di miliardi di lavoratori, pensionati e contribuenti. In un momento di collasso del capitalismo, il crescente “capitalismo di stato” nasce solo per “salvare il sistema capitalistico dai suoi fallimenti”, come affermano i suoi sostenitori. E per arrivare a questo risultato sfrutta la ricchezza collettiva dell’intero paese. La “nazionalizzazione” delle banche e delle industrie insolventi è l’apice del capitalismo predatore. Non sono più le singole imprese o i singoli settori a profittare dei salariati, ma è il capitalismo di stato che rapina l’intera classe di coloro che producono ricchezza.

Le possibilità dell’America latina partono dal riconoscimento che la globalizzazione è morta, che solo grazie al controllo popolare democratico la nazionalizzazione può servire a generare ricchezza e creare occupazione, invece di servire per indirizzare e ridistribuire le risorse a una classe capitalistica fallita e in bancarotta.

Europa dell’est e paesi dell’ex blocco comunista

Nell’Europa dell’est, il passaggio dal comunismo al capitalismo ha seguito un processo di privatizzazione, spesso basato su una rapina generalizzata, l’uso illegale delle risorse pubbliche e la caduta drammatica del livello di vita e della produzione nella prima metà degli anni ’90. Approfittando del costo ridotto del lavoro e del facile accesso a lucrose opportunità in tutti i settori economici, i capitalisti europei e americani hanno assunto il controllo dei settori produttivo, estrattivo, finanziario e delle comunicazioni. La caduta delle barriere tra Est e Ovest è stata accompagnata da un flusso massiccio di lavoratori specializzati verso i paesi occidentali. Il recupero economico, e la susseguente crescita, nell’Europa dell’est e nei paesi dell’ex blocco comunista è andato a braccetto con l’espansione degl’investimenti e del credito dal capitalismo occidentale: il trasferimento dei centri produttivi, l’arrivo di capitale speculativo nei settori finanziario e immobiliare, l’accesso ai mercati occidentali in piena espansione, e, in particolare, il finanziamento via indebitamento delle spese dei consumatori hanno drogato la crescita. La regione è stata quindi doppiamente colpita: dal collasso economico causato da una speculazione interna insostenibile e dalla sua dipendenza da un occidente in fase di depressione per i capitali, il credito e i mercati. Le economie capitalistiche degli stati baltici, dell’Europa dell’est e della Russia hanno subito un collasso rapido: man mano che i mercati creditizi dell’Europa occidentale si restringevano e le multinazionali disinvestivano largamente, le valute locali si sono svalutate e i mercati esteri si sono dissolti. L’intera strategia dello “sviluppo dipendente” basata sulla disarticolazione dei mercati locali e il flusso di capitali ha vanificato gli sforzi per contrastare il crollo. La sola scelta possibile era cercare di ottenere un sostanzioso aiuto finanziario dal FMI e dalle banche, a condizioni pesanti e tali da limitare le opzioni dei piani nazionali d’incentivazione fiscale.

I legami regionali con i mercati mondiali, basati su rapporti di dipendenza con i capitalisti occidentali, implicano in primo luogo l’assenza di mercati interni e di capitali per attenuare il crollo e in secondo luogo il pericolo che l’arrivo di capitali esterni aggravi la depressione. Dal Baltico ai Balcani, dall’Europa dell”est alla Russia, la potente forza della depressione ha provocato disoccupazione generalizzata di lunga durata, bancarotta delle industrie locali sussidiarie, dei servizi e delle banche. I neonato movimenti popolari rimettono in discussione le politiche commerciali dei governi e, i certi casi, rifiutano il modello capitalistico di dipendenza dalle esportazioni.

Asia: la fine dell’illusione d’indipendenza e crescita autonoma

La grande depressione del 2009 ha colpito tutte le economie asiatiche, che dipendono dai mercati internazionali finanziari e dei beni. Anche i paesi più dinamici (Giappone, Cina, India, Corea del sud, Taiwan e Vietnam) non hanno potuto sottrarsi alle conseguenze del drastico declino del commercio, dell’occupazione, degl’investimenti e degli standard di vita. Due decenni di espansione dinamica, alta crescita ed elevati tassi di profitto, grazie ai mercati dell’esportazione e allo sfruttamento intensivo del lavoro, hanno provocato una sovraccumulazione di capitale. Molti esperti asiatici ed occidentali parlano di “un nuovo ordine mondiale”, guidato e orientato dalle potenze economiche emergenti dell’Asia, in particolare la Cina, in cui il potere si baserebbe sempre di più sulla loro “autonomia regionale”. In realtà, la dinamica crescita industriale cinese era profondamente inserita in una catena mondiale di beni in cui i paesi industriali avanzati (Germania, Giappone, Taiwan e Corea del sud, ad esempio) fornivano strumenti di precisione, macchinari e pezzi alla Cina, che li assemblava e li esportava poi nei mercati statunitensi, europei e asiatici. “L’indipendenza” era un mito.

La crescita pilotata dalle esportazioni è stata alimentata dallo sfruttamento selvaggio del lavoro, dalla distruzione di vaste aree di servizi sociali (servizi sanitari, pensioni, sussidi alimentari e istruzione) e dalla generalizzata concentrazione della ricchezza nelle mani di un gruppo ristretto di nuovi ricchi miliardari (Economic and Political Weekly – Mumbai, 27 dicembre 2008, p. 27-102). La crescita della Cina e del resto dell’Asia si basava sulla contraddizione tra espansione dinamica delle forze produttive e crescente polarizzazione dei rapporti produttivi di classe. Gli alti tassi di profitto hanno condotto alla sovraccumulazione del capitale (alti tassi d’investimento) e quindi a notevoli attivi di bilancio e commerciali che si sono poi propagati nei settori finanziari, nell’espansione oltremare (riciclaggio di fondi neri) e nella speculazione mobiliare.

L’edificio economico asiatico poggiava precariamente sulle spalle di centinaia di milioni di lavoratori, virtualmente non consumatori, e sulla sempre maggiore dipendenza dai mercati di esportazione. La crisi mondiale ha fatto collassare soprattutto i mercati di esportazione, mettendo in luce i punti deboli delle economie asiatiche e provocando una grave caduta del commercio e della produzione, accompagnata da una considerevole crescita della disoccupazione. Gli sforzi cinesi e degli altri paesi asiatici per contrastare il crollo dei mercati di esportazione con massicce iniezioni di capitale pubblico per stimolare la liquidità finanziaria e lo sviluppo delle infrastrutture sono risultati insufficienti per bloccare l’aumento della disoccupazione e la bancarotta di milioni di imprese dipendenti dall’esportazione.

La classe capitalistica asiatica e il gruppo dirigente sono del tutto incapaci di “ristrutturare” la struttura economica e sociale dando forza alla domanda interna ora che il mercato esterno ha ceduto. Un tale passo comporterebbe molte profonde trasformazioni nella struttura di classe: ad esempio il passaggio da investimenti basati sul profitto elevato a servizi produttivi e sociali a scarso margine per centinaia di milioni di lavoratori e contadini a basso reddito, oppure il trasferimento di capitali dal settore immobiliare privato, i mercati azionati, e l’acquisto di titoli stranieri, per finanziare servizi sanitari universali, istruzione, pensioni, o ancora il recupero dei suoli per un uso produttivo piuttosto che per le speculazioni immobiliari.

L’intera crescita dinamica dall’Asia, costruita sulla concentrazione di capitale, alti profitti e bassi salari, sta cercando di sopravvivere aggravando l’impoverimento del lavoro con massicci licenziamenti, ampliando i flussi di ritorno dei lavoratori migranti verso i campi devastati, e aumentando il surplus di forza di lavoro. L’espulsione del lavoro, tradizionale soluzione del capitalismo, non fa altro che spostare e intensificare la contraddizione e allargare il conflitto tra il capitale industriale e finanziario a base urbana e le centinaia di milioni di lavoratori e contadini poveri, disoccupati o sottoccupati. Le iniezioni statali di capitale per stimolare l’economia passano attraverso il “filtro” dei dirigenti regionali e della classe capitalista, che assorbe e usa buona parte dei fondi per puntellare le imprese in fallimento, senza impatto sensibile sulla massa di lavoratori disoccupati.

La proprietà privata e il controllo capitalistico sullo stato impedisce il tipo di trasformazione sociale che potrebbe espandere il mercato interno e far ripartire la crescita.

Il sistema cinese di crescita ha ovviamente minato i suoi partner commerciali, che dipendono dalle esportazioni verso il paese di materie prime e industriali. Il collasso della domanda dei mercati euro-americani ha distrutto l’intera architettura delle industrie che lavorano per l’esportazione. Lo sfruttamento selvaggio del lavoro e il potere della nuova borghesia cinese fa sì che esistano poche possibilità di una ripresa della domanda interna.

La riprese economica della Cina dipende da una nuova trasformazione socialista che renda la domanda interna il vero motore della crescita.

Medio oriente: depressione e guerre regionali

Il motivo fondamentale della crisi e del fallimento del Medio Oriente risiede nelle guerre regionali sionistiche e nel collasso dei prodotti di base.

I paesi produttori di petrolio hanno accumulato ampi “redditi”, usati per acquisti a grane scala, nella regione o fuori, nei settori finanziario, immobiliare e militare. I profitti si sono concentrati nelle mani di capi assolutisti miliardari con un rapporto di classe estremamente polarizzato: super ricchi e lavoratori immigranti con salari bassissimi hanno limitato la portata e l’ampiezza dei mercati interni. Per eliminare la crisi della sovraccumulazione e della contrazione dei profitti, i gruppi dirigenti hanno adottato due strategie che hanno ritardato l’inevitabile: in primo luogo la dipendenza dall’esportazione massiccia (dapprima in USA e Europa e poi in Asia e Africa) di capitali da prestare ad alti tassi d’interesse, in secondo luogo il reimpiego dei profitti in immobili faraonici, centri turistici e settore bancario negli Stati del Golfo che ha portato a una immensa bolla immobiliare. Il collasso dei beneficiari di questi redditi (non produttivi) nel Medio oriente è stato preparato dal frenetico aumento dei prodotti petroliferi, tra il 2004 e il 2008, che ha accelerato il processo di sovraccumulazione e la generalizzazione del debito e dell’importazione di lavoro.

Ne è seguita una crisi economica regionale, in cui gli attivi di bilancio e commerciali sono stati rimpiazzati da deficit sempre più grandi. Le economie mediorientali non si sono mai modificate dopo la loro creazione per dar vita a un sistema diversificato, basato non più sui “redditi” ma sulla produzione e la creazione di un dinamico mercato regionale di massa. La classe dominante deve far fronte a una sempre crescente massa di lavoratori locali e immigrati disoccupati, la fuga compatta di migliaia di espatriati europei del settore finanziario, del settore immobiliare e di altri operatori di settori non produttivi. Ora che non possono più profittare del boom petrolifero (prezzi, profitti e ricavi sono crollati) e non sono più i potenti banchieri e detentori di debiti, la classe dominante dei Paesi del Golfo dispone di poche risorse esterne o interne per mettere a punto un “programma di recupero”. Peggio ancora, nel pieno di questo crescente collasso economico lo stato militarista di Israele funziona da forza regionale di destabilizzazione e proietta la sua potenza e le sue ambizioni coloniali in tutta l’area. Con una situazione di potere unica nella storia del mondo, lo stato d’Israele, economicamente insignificante, controlla i livelli fondamentali del potere politico del governo USA grazie all’attività di varie decine di migliaia di membri della Diaspora strategicamente situati, estremamente organizzati e disciplinati, e ideologicamente impegnati…

Il regime Obama, la struttura del potere sionista e il Medio Oriente

Durante la peggiore crisi economica dopo la “Grande depressione” degli anni ’30, in presenza di un deficit di bilancio pari a 1,7 trilioni di dollari e con 8,1 milioni di disoccupati nel marzo 2009 (BBC News, 6 marzo 2009), cifre che si prevede raddoppino entro fine anno, l’amministrazione Obama ha incrementato le spese militari, dichiarate o nascoste, portandole a oltre 800 miliardi di dollari (un aumento del 4% rispetto al precedente regime guerrafondaio di George W. Bush). I principali obiettivi dell’espansione militare statunitense sono il Medio oriente e l’Asia meridionale, una popolazione di centinaia di milioni di musulmani pro-palestinesi e fieri oppositori della politica coloniale israeliana e dell’attuale occupazione militare americana dei paesi musulmani della regione. La spinta alla base del militarismo statunitense in Medio oriente dev’essere cercata nei funzionari e esperti sionisti/ebrei che occupano posti chiave nel governo, a loro volta sostenuti e incoraggiati da una miriade di organizzazioni ebree americane di azione politica o “civica”, editori, accademici, editorialisti, giornalisti e propagandisti presenti in tutti i media, che appoggiano sistematicamente gl’interessi israeliani.

Un’attenta analisi del regime di Obama dimostra l’alto livello di penetrazione sionista e fornisce una base empirica per capire l’escalation militare USA in Medio oriente, nonostante le catastrofiche condizioni dell’economia nazionale. Partecipare alla crociata israeliana contro i musulmani è più importante dell’impoverimento collettivo della popolazione americana. Non c’è niente che illustri l’enorme forza della ZPC (Zionist Power Configuration, il gruppo di potere sionista) della loro capacità di anteporre il programma guerrafondaio nel Medio oriente alle necessità di 350 milioni di americani, al fallimento di oltre 500 società Blue Chip e delle 5 più importanti banche del paese, per non parlare degli oltre 50 milioni di lavoratori che non hanno diritto alle cure mediche.

ZPC (Zionist Power Configuration, gruppo di potere sionista) e guerre regionali La manomessa israelo-sionista sulla politica estera di Obama, in particolare sui problemi in Medio oriente che minacciano l’ambizione egemonica di Israele, salta agli occhi se si guarda al passaggio di poteri e ai primi mesi del nuovo presidente. Un’analisi empirica delle principali posizioni israeliane e della risposta del regime di Obama ribadiscono il potere della ZPC:

1. la selvaggia invasione israeliana di Gaza – con il massacro di qualche migliaio di civili (soprattutto donne e bambini), la distruzione di buona parte delle infrastrutture civili, e il brutale internamento virtuale di oltre un milione e mezzo di persone ridotte alla fame – e la reazione del regime di Obama e dell’intera leadership del partito democratico è un caso emblematico. Il regime di Obama e l’intera leadership del partito democratico hanno appoggiato senza riserve il massacro in corso: si sono rifiutati di attribuire ai capi militari e civili di Israele la benché minima responsabilità per i crimini commessi, si sono rifiutati di chiedere una sospensione del mortale assedio terrestre e marittimo d’Israele che impediva l’arrivo di rifornimenti alimentari e dei materiali indispensabili per la ricostruzione. I capi israeliani hanno respinto con arroganza il suggerimento del segretario di stato americano Clinton di allentare anche di poco il blocco, e non c’è stata nessuna reazione da parte di Obama. Gli attacchi militari israeliani contro la popolazione di Gaza sono stati sostenuti dal regime Obama-Clinton-Gates.

2. l’espansione degl’insediamenti israeliani illegali nella striscia di Gaza occupata – con l’espropriazione massiccia delle proprietà nella zona araba di Gerusalemme e la distruzione in corso delle case palestinesi – è un altro caso emblematico. Gli USA si sono limitati a ribadire la propria soluzione dei “due stati”. Il precedente timido interrogarsi di Clinton sull’espansione degl’insediamenti coloniali nel territorio invaso da Israele aveva incontrato lo stesso rifiuto dello stato ebraico e non aveva avuto conseguenze sui rapporti tra i due paesi.

3. Israele ha condannato la conferenza internazionale contro il razzismo di Durban (Africa del sud), che aveva denunciato la brutale forma di razzismo del sionismo israeliano. Quando alcuni esponenti del regime di Obama hanno proposto d’inviare una delegazione statunitense all’incontro preparatorio per discutere l’agenda dei lavori, la ZPC ha immediatamente mobilitato i suoi attivisti e Obama si è arreso. Gli USA e numerosi altri paesi europei hanno ritirato i loro partecipanti e hanno condannato la conferenza di Durban come “antisemitica”, allineandosi sulle posizioni d’Israele.

4. Israele e i suoi amici americani hanno fatto pressione affinché Obama nominasse degli ebrei come consulenti e decisori politici per tutte le scelte politiche che interessano i negoziati americani con Siria e Iran, in modo da essere sicuri che venga seguita la posizione israeliana. Si sono quindi opposti all’annunciata nomina dell’ex generale Anthony Zinni, ben noto per la sua indipendenza dalle imposizioni israeliane. La grottesca vicenda del generale Zinni e la successiva nomina di Dennis Ross, il più “leale” rappresentante israeliano, come negoziatore statunitense con l’Iran significa che il programma guerrafondaio israeliano di circondare e attaccare l’Iran dominerà ogni decisione. Ross, conosciuto anche come “l’avvocato d’Israele” è largamente screditato presso i governi iraniano e degli altri paesi mediorientali proprio per le sue posizioni di fedele partigiano d’Israele nella precedente amministrazione Clinton. Anche il fatto che Ross abbia lavorato per un gruppo di riflessione israeliano, creato e diretto dal quel governo (che lo aveva di fatto reso un agente non ufficiale dello stato ebreo), non ha ostacolato la sua nomina. Tra i sionisti che infestano la struttura per la politica estera del regime di Obama, il segretario di stato Clinton ha nominato come responsabili dei negoziati con la Siria Jeffery Feltman, vicesegretario per gli affari mediorientali, e Daniel Shapiro, del White House’s National Security Council (BBC News, 7 marzo 2009). La nomina di sionisti ai posti di massima responsabilità nei negoziati farà si che durante l’epoca di Obama verranno intrapresi ben pochi scambi e concessioni reciproche che potrebbero contrastare le ambizioni egemoniche regionali di Israele. La nomina di eminenti sionisti filoisraeliani in tutte le più importanti posizioni politiche e decisionali, con l’eccezione di Charles Freeman come capo del National Intelligence Council (cfr. più oltre), rende chiaro che la politica degli USA in Medio oriente continuerà ad essere elaborata a Tel Aviv.

5. La politica di Israele in Medio oriente ha due linee guida: a. incitare i suoi agenti alla guida delle 51 principali organizzazioni di ebrei americani a orientare la politica statunitense verso la distruzione militare degli avversari di Israele (ad esempio l’Iran), la copertura diplomatica e propagandistica e l’aiuto militare alle invasioni e agli attacchi contro la Siria, il Libano e la Palestina occupata (Striscia di Gaza), l’adozione di sanzioni economiche – che spingono ad atti deliberati di guerra – contro le vittime prescelte di Israele (ad esempio Iran, Hamas, Hezbollah, Sudan e Somalia).

b. dividere e conquistare gli avversari con vaghi negoziati diplomatici. Negli ultimi anni Israele, con il sostegno degli USA, ha diviso con successo libanesi (classe dirigente di Beirut contro Hezbollah), palestinesi (PLO/PA contro Hamas), iracheni (Kurdi contro Arabi), sudanesi (secessionisti del Darfur contro Kartoum) e, ultimi ma non meno importanti, americani (dirigenti proisraeliani contro il popolo americano). Incapaci di spingere gli USA a un bombardamento aereo dell’Iran o di ottenerne la collaborazione in un’operazione del genere condotta direttamente, il governo d’Israele, sia direttamente che attraverso i suoi sostenitori americani, ha iniziato una nuova politica che mira a una rottura dell’alleanza tra Siria e Iran. Attenendosi all’impostazione israeliana, il regime Obama-Clinton ha avviato colloqui con Damasco con l’obiettivo di offrire alla Siria un maggiore riconoscimento diplomatico e alcune concessioni economiche, a condizione che il paese rompa i contatti con Iran, Hezbollah e Hamas. Per essere sicuri di salvaguardare gl’interessi israeliani e di non dover arrivare a concessioni territoriali (ad esempio la fine dell’occupazione illegale del territorio siriano nelle alture di Gola), il regime di Obama ha nominato come capi dei negoziatori statunitensi due noti sionisti, Feltman e Shapiro. La manovra diplomatica siriana, in certi momenti perseguita “copertamente” da Israele e ora portata avanti dal pupillo americano, il segretario Clinton, non ha fino ad oggi raggiunto il suo scopo a causa dell’opposizione israeliana a ogni concessione territoriale, per tener conto della forza politica dei coloni e dell’incapacità di aprirsi al commercio occidentale e alle opportunità d’investimento. Il regime di Obama continuerà a perseguire l’obiettivo d’Israele di “neutralizzare” la Siria come base di sostegno politico per Hamas e di collegamento tra Iran e Hezbollah nel Libano meridionale.

6. L’elemento centrale della più importante campagna militare, politica, e propagandistica – cui partecipano tutte le più importanti organizzazioni ebree, le lobby sioniste, i legislatori e i responsabili governativi – è stato e continua ad essere l’indebolimento e la distruzione dell’Iran. L’opposizione alla politica di scontro frontale della struttura di potere sionista si trova in vari settori del governo (inclusi i servizi di spionaggio, l’esercito statunitense, gli ufficiali di carriera del Dipartimento di stato e molti ex alti ufficiali. I sionisti hanno trionfato al di là dei loro più audaci sogni: il sionista di estrema destra David Frum (che aveva scritto i discorsi più guerrafondai dell’ex presidente Bush e aveva proclamato l’Iran uno dei principali stati dell’Asse del male) e il sionista fanatico Stuart Levey, funzionario del Tesoro, sono stati e continuano ad essere tra i maggiori sostenitori di più dure e ampie sanzioni economiche contro l’Iran e del boicottaggio del suo sistema bancario e commerciale. Ogni dettaglio della politica e della legislazione statunitense che riguarda l’Iran viene attentamente controllato (ed è spesso direttamente suggerito) dalla lobby ebrea pro-israeliana. Di conseguenza, gli sforzi dei responsabili politici americani per arrivare a un accordo con l’Iran su punti d’interesse strategico sono stati sabotati dagl’israeliani, come dimostrano gli esempi che seguono.

a. subito dopo l’11 settembre 2001 l’Iran aveva appoggiato l’attacco americano contro i Talebani, aveva svolto un ruolo importante nella stabilizzazione della metà orientale dell’Afganistan (in particolare di Herat) e aveva tollerato che venisse rovesciato Saddam Hussein (anche se si era dichiarato contrario a un’occupazione statunitense a lungo termine dell’Iraq). Influenti agenti sionisti all’interno e all’esterno del regime Bush avevano respinto, e bloccato, ogni passo di Washington verso l’accordo di sicurezza reciproca proposto dall’Iran. Nonostante vari membri del comando militare americano avessero riconosciuto il ruolo fondamentale dell’Iran nell’agevolare le invasioni in Afganistan e in Iraq, al paese non venne proposta nessuna concessione reciproca. Anzi, lo “Stato sionista” annidato all’interno degli USA lanciò una serie di misure punitive, nate dall’ostilità israeliana, inclusa la creazione e l’addestramento di squadre della morte che passavano le frontiere irachena e afgano-pakistana per assassinare funzionari iraniani. Israele invocò severe sanzioni: l’AIPAC le preparò, i loro fantocci nel Congresso le firmarono e ne assicurarono l’approvazione, i sionisti nel ministero del Tesoro le misero in atto, e i funzionari proisraeliani nel Dipartimento di stato esercitarono pressioni sui governi europei perché facessero lo stesso. Il regime israeliano usò la sua rete mondiale per lanciare una campagna contro il programma nucleare di produzione di energia iraniano, del tutto legale e strettamente sorvegliato. L’isterica campagna propagandistica dei sionisti raggiunse un’intensità superiore a qualsiasi altra campagna lanciata contro l’Iraq. L’intero apparato ebreo-sionista si dette da fare per spingere gli USA verso una nuova guerra in Medio oriente, presentando la tradizionale opposizione dell’Iran al massacro colonialista israeliano dei palestinesi e dei libanesi come una minaccia alla sopravvivenza stessa dello stato ebreo e alla sicurezza degli USA contro un attacco nucleare iraniano.

b. nel novembre 2007 sedici agenzie di spionaggio statunitensi hanno pubblicato un rapporto (The National Intelligence Estimate on Iran) che ha smontato in modo dettagliato e accurato le accuse di Israele e dei sionisti contro il programma nucleare iraniano. Il rapporto ha inoltre respinto le affermazioni sull’avvio, e ancor di più sui progressi, di un progetto di armamento nucleare. Per rispondere alle “eretiche” osservazioni dello spionaggio USA, il potere sionista si è fatto in quattro: al momento dell’elezione di Obama si era già data da fare per convincere la nuova amministrazione ad accettare le fandonie israeliane sulla minaccia nucleare iraniana, e aveva dato vita a una sua versione (NIE, National Intelligence Estimate) della situazione che rispondeva perfettamente agli obiettivi politici dello stato ebreo.

c. di fronte all’insuccesso della guerra di repressione in Afganistan, ancora una volta il regime di Obama ha dovuto chiedere sostegno all’Iran. Per essere sicuri che non vi fossero negoziati importanti con concessioni reciproche, la lobby ha ottenuto che a capo della delegazione venisse nominato Dennis Ross, un fanatico pro-israeliano, che nell’estate 2007 aveva sottoscritto un rapporto “politico” straordinario sull’Iran, nel quale si chiedevano sanzioni più dure (incluso un blocco navale totale, un successivo blocco terrestre e aereo, e per finire un inevitabile attacco militare). Sotto la spinta sionista, nel febbraio 2009 Obama ha ampliato le severe sanzioni economiche contro l’Iran, facendo così in modo che la molto propagandata offerta del marzo 2009 sull’apertura di un nuovo capitolo nelle relazioni USA-Iran non venisse presa sul serio da Teheran (Financial Times, 23 marzo 2009). Qualsiasi eventuale riunione di facciata tra Stati Uniti e Iran verrà automaticamente posta a conoscenza, analizzata, censurata e sottoposta all’approvazione finale di Israele.

7. Israele e i suoi alleati e congressisti americani hanno svolto un ruolo di primo piano nel diffondere una feroce propaganda contro i musulmani e gli arabi, in campo diplomatico e nelle invasioni militari. Il regime di Obama riflette la loro pervicace influenza. Nonostante il fallimento della guerra in Afganistan e la crescente opposizione nella regione, e nonostante una crisi interna catastrofica, Obama ha aumentato il bilancio militare, il numero di soldati statunitensi (senza alcun appoggio europeo), e le incursioni in territorio pachistano (con bombardamenti giornalieri dei villaggi Pashtun). Il potere sionista e i suoi seguaci al Congresso hanno ottenebrato la mente di milioni di americani, specialmente democratici, che hanno votato per Obama considerandolo un “candidato per la pace” e si trovano ora di fronte a una più lunga e massiccia presenza di truppe statunitensi in Iraq, un aggravamento della guerra in Afganistan, i bombardamenti in Pakistan, e la presenza di navi da guerra, bombardieri e sottomarini nucleari dinanzi alle coste iraniane. Il potere sionista ha ingannato l’intero apparato di spionaggio USA e gli elettori americani sul problema iraniano e, con Dennis Ross come responsabile, lascia prevedere scontri ancora più cruenti.

8. Nel tentativo di “giudaizzare”, completare la pulizia etnica e annettere l’intera città, Israele sta cacciando a viva forza da Gerusalemme migliaia di palestinesi che vi risiedevano da lungo tempo, nonostante la richiesta dell’Unione europea, dell’opinione pubblica mondiale, della legislazione internazionale, e della soluzione dei “due stati” proposta da tutti i presidenti statunitensi degli ultimi 30 anni, incluso Obama (The Guardian, Londra, 7 marzo 2009). I saccheggiatori ebrei stavano attivamente demolendo le case dei palestinesi mentre il segretario di stato Clinton sollecitava il sostegno senza condizioni ad Israele e, di passo, commentava che la pulizia etnica e l’espulsione “non erano utili” (!). Le chiacchiere di Obama e Clinton ignorano le fondate obiezioni dei responsabili delle congregazioni religiose musulmane e cristiane, che parlano a nome di varie centinaia di milioni di credenti. Le più importanti organizzazioni ebree in USA e l’intero gruppo dirigente sionista al Congresso, compreso il senatore Joseph Lieberman assertore di “Israele prima di tutto”, hanno approvato entusiasticamente l’appoggio del regime Obama alla pulizia etnica condotta da Israele (Boston Globe, 9 marzo 2009).

9. Volendo ottenere un controllo totale su tutti i potenziali eletti che potrebbero rafforzare le posizioni d’Israele, il gruppo di potere sionista ha lanciato con successo una massiccia e calunniosa campagna nazionale per bloccare la nomina di Charles Freeman, un esperto diplomatico ex funzionario dello spionaggio e tra i pochi non-sionisti (o Gentili, per dirla altrimenti) candidato al posto di capo del National Intelligence Council. Sin dal momento in cui le talpe sioniste hanno lasciato trapelare la proposta nomina di Freeman, il gruppo di potere sionista ha lanciato un attacco frontale: ha fatto pubblicare nei più importanti settimanali e riviste e ha fatto trasmettere dalle principali catene radiotelevisive articoli offensivi per attaccare il candidato (un veterano che ha servito diverse amministrazioni sin dai tempi di Richard Nixon), dieci rappresentanti USA hanno chiesto al direttore del National Intelligence Inspector General, “d’indagare a fondo i passati rapporti di Freeman con l’Arabia Saudita e di controllare chi finanzia il Middle East Policy Council (un gruppo di riflessione di Washington guidato da Freeman)” (Financial Times, 7 marzo 2009, p. 3). L’intero gruppo dirigente repubblicano, guidato dal “fustigatore” Cantor, si è occupato d’infangare Freeman e i suoi sostenitori, di cui ha anche chiesto la punizione per il loro appoggio. Dinanzi all’offensiva sionista Obama ha ceduto senza nemmeno un segno di protesta. “La Casa Bianca non ha fatto commenti” (!) Il gruppo di potere sionista ha lavorato su entrambe le formazioni politiche. “Steve Israel (mai nome fu più appropriato!), un democratico dell’House Select Intelligence Oversight Panel, ha scritto a Maguire (l’ispettore generale) a proposito di alcune dichiarazioni apparentemente pregiudizievoli rilasciate da Charles Freeman, candidato alla guida del NIC” (Financial Times, ibid). La frase “dichiarazione pubblica pregiudizievole” si riferisce alle critiche di Freeman ad Israele per il selvaggio bombardamento del Libano dell’estate 2007 e della continua repressione dei palestinesi durante l’invasione. Nessun settore governativo, nessuna affermazione, sfugge alla vigile censura della struttura di potere ebrea pro-israeliana negli USA e dei simpatizzanti non ebrei del Congresso. Il lavoro sionista per bloccare la nomina di Freeman alla guida del National Intelligence Council è uno sforzo per impedire il ripetersi dell’insuccesso della campagna propagandistica anti-iraniana del 2007, quando sedici agenzie di spionaggio statunitensi avevano pubblicato un rapporto (National Intelligence Estimate) sul programma di armamento nucleare dell’Iran che toglieva ogni credibilità alle pretese d’Israele e del gruppo di potere sionista negli Stati Uniti, secondo i quali l’Iran stava producendo materiale fissile per dotarsi di un armamento atomico ed era a pochi mesi dal poter disporre di una bomba atomica. Il NIE aveva obbligato i sionisti americani a formulare furiose critiche sui risultati e sulla professionalità delle agenzie di spionaggio, per appoggiare la campagna d’Israele a favore di un intervento americano in una guerra contro l’Iran. L’obiettivo principale della campagna congressionale condotta dai sionisti contro Freeman è stato quello di usare le “indagini” per gettare ombre sulle sue capacità professionali e indipendenza e sul suo invito a un diverso approccio al Medio oriente. Catalogato come pro-Arabo e pro-Hamas (e quindi implicitamente legato al terrorismo), Freeman è stato costretto a ritirare la sua candidatura a tutto vantaggio di un funzionario disposto a manipolare i servizi segreti nell’interesse degli obiettivi israeliani.

La cultura della calunnia e il degrado dei valori democratici

Il successo del gruppo di potere sionista nel mettere all’indice e far scartare la candidatura di Charles Freeman come direttore del National Intelligence Council illustra la mano messa sulle nomine all’interno del governo USA. L’esclusione di Freeman illustra le tattiche e i metodi del gruppo, il suo potere nei differenti settori dell’amministrazione e i suoi legami con le principali organizzazione americane di sionisti ed ebrei. Mette inoltre in luce il fatto che la lealtà allo stato israeliano è diventata una condizione per poter accedere a un qualsiasi posto di rilievo nell’amministrazione e che, d’altro canto, un candidato a posti di responsabilità che abbia criticato la politica israeliana è automaticamente scartato, indipendentemente dalle sue qualifiche professionali. Il ricorso alla clausola di lealtà a Israele, come nel caso di Charles Freeman, è un chiaro atto d’intimidazione rivolto contro l’intera classe politica americana: criticate Israele, per qualsiasi ragione, e distruggete la vostra carriera per sempre! Il boicottaggio di Freeman ha notevoli conseguenze presenti e future per la politica USA, le discussioni pubbliche e la libertà democratica negli Stati Uniti.

Come succede quasi sempre quando di parla negli USA di un problema o di una nomina politica che interessa lo stato d’Israele, l’AIPAC prende l’iniziativa. Nel caso di Freeman, non appena il direttore della National Intelligence, Dennis Blair, ha annunciato la sua nomina, l’AIPAC ha fatto circolare un dossier pieno di calunniose menzogne sull’uomo e la sua posizione, centrato sulle sue critiche a specifiche azioni israeliane (in particolare la brutalità dimostrata a Gaza e in Libano e le violazioni dei diritti umani). La campagna ebrea e sionista è stata condotta da Steve Rosen, da lungo tempo uomo d’attacco dell’AIPAC e ora processato per spionaggio (ha trasmesso ad agenti del governo israeliano documenti confidenziali sulla politica iraniana). Su iniziativa dell’AIPAC, sui più importanti mezzi di comunicazione sono apparsi articoli e commenti che attaccavano Freeman, dipingendolo come “strumento degli Arabi”, “anti-israeliano” e peggio ancora. Contemporaneamente, i senatori sionisti Schumer e Leiberman e il congressista Cantor avevano avviato una virulenta campagna nel Congresso, anche se la nomina di Freeman non richiedeva il suo l’accordo: Schumer si assicurò l’appoggio della Casa Bianca parlando direttamente con Rahm Emmanuel , capo dello staff della Casa Bianca e amico dei sionisti, che passò poi la “linea” al consigliere capo di Obama, Axelrod, un altro amico dei sionisti. In nessun momento un qualsiasi funzionario del regime di Obama ha pronunciato anche una sola parola a favore di Freeman, nominato da Blair, o ha contestato le affermazioni false e distruttive di genere come Lieberman, Schumer e i loro seguaci. Se il regime di Obama non è stato apertamente complice della purga sionista, la manovra è stata comunque portata avanti in un silenzio di tomba.

Il profondo e insidioso carattere autoritario e partigiano dei dirigenti sionisti al Congresso, venuto alla luce nella vicenda Freeman, è coerente con l’appoggio di Schumer e Lieberman al sostegno a Michael Hayden come direttore della CIA di Obama, l’elemento chiave per realizzare il programma illegale di spionaggio interno, e all’ultra sionista Michael Mukasey, che ha perdonato l’uso della tortura con l’acqua dei sospetti da parte degli agenti americani.

Quello che colpisce nella censura congressuale pilotata dai sionisti della candidatura di Freeman è il fatto che i responsabili hanno apertamente dichiarato di aver scartato la sua nomina per soffocare ogni critica della politica israeliana. Il senatore Schumer ha detto: “Charles Freeman non era la persona adatta a questa posizione. Le sue critiche ad Israele erano sopra le riga e contrastavano con la posizione dell’amministrazione. Ho insistito varie volte con la Casa Bianca affinché lo rifiutasse e sono lieto che abbiano fatto la cosa giusta” (citato da Glen Greenwald in “Charles Freeman Fails the Loyalty Test”, www.salon.com, 10 marzo 2009).

Il potere e l’arroganza del gruppo di potere sionista è tale che Schumer si è apertamente vantato di essere riuscito a far capitolare il direttore della National Intelligence, Dennis Blair, costringendolo a ritirare la candidatura da lui stessa prescelta. Nella sua ampiamente diffusa dichiarazione di rinuncia, Freeman descrive in modo eloquente il potere e le azioni distruttive del gruppo di potere sionista:

“Le diffamazioni sul mio conto e le loro email, facilmente monitorabili, mostrano in modo inequivocabile che esiste una potentissima lobby decisa a impedire la diffusione di qualsiasi opinione diversa dalla loro”. “Le tattiche della lobby israeliana, che mostrano la profondità del disonore e dell’indecenza, includono denigrazione, citazioni ingannevoli, distorsione deliberata dei dati, menzogne, e un totale spregio della verità”. “La lobby si propone di controllare il processo politico esercitando un diritto di veto sulla nomina di persone che mettono in discussione i loro punti di vista, eliminando la correttezza politica nelle analisi, escludendo qualsiasi opzione che non vada a loro esclusivo vantaggio nelle decisioni prese dagli americani e dal nostro governo” (citato in Aljazeera, 10 marzo 2009).

Dopo aver eliminato Freeman, la ZPC è ora in grado d’influenzare i futuri direttori dei servizi di spionaggio americani e fare in modo che i loro rapporti non contraddicano quelli israeliani, soprattutto sulla produzione di armi nucleari in Iran. Schumer, Lieberman, l’AIPAC e i presidenti delle associazioni ebree in USA hanno ottenuto un’ulteriore potente leva per spingere la politica statunitense verso lo scontro militare con l’Iran, proprio come richiesto da Israele.

Il potere della ZPC sul regime di Obama ha importanti conseguenze sulla politica estera degli Stati Uniti, in particolare nell’area mediorientale e in quelle zone del mondo in cui paesi, movimenti e cittadini rifiutano lo stato guerrafondaio e colonialista israeliano e l’ideologia razzista dei sionisti. I politici che “stanno con Israele” sono gli stessi che appoggiano la linea di confronto militare con l’Iran, a meno che il paese non ceda agli ultimatum israelo-americani che chiedono l’abbandono della politica d’indipendenza energetica grazie all’atomo e dei legami con i musulmani/arabi anticolonialisti, con i movimenti d’indipendenza, e con certi governi.

Con i negoziatori e le condizioni imposte dai sionisti, le discussioni con l’Iran, la Siria e la Palestina proposti da Obama non potranno mai cominciare: sono già orientate in modo da portare a uno scontro militare, a un inasprimento delle sanzioni e alla giustificazione della politica del territorio israeliana. Di conseguenza, il regime di Obama ha continuato ad aumentare le spese militari, in un periodo di recessione economica disastrosa. L’apparente irrazionalità di destinare le scarse risorse economiche disponibili a una guerra senza fine e a scontri militari in cui non sono in gioco gl’interessi della sicurezza nazionale può essere spiegata solo dall’interesse guerrafondaio di Israele e dalla capacità dei suoi sostenitori americani d’imporre al governo statunitense la loro visione di “sicurezza”.

Per verificare empiricamente la nostra teoria sulla portata e la profondità dell’influenza della ZPC e sulla sua capacità di subordinare la politica dell’amministrazione di Obama agl’interessi israeliani, abbiamo analizzato 10 aree importanti: abbiamo esaminato le posizioni e le azioni d’Israele (in particolare su quei problemi di pace o di guerra che coinvolgono gl’interessi americani, le nomine chiave e i rapporti strategici) e abbiamo scoperto che praticamente in tutti i casi la posizione israeliana è diventata la scelta politica americana. Un così stretto rapporto si spiega con l’indefessa azione della ZPC, con l’alto livello di penetrazione di funzionari pro-israeliani in tutte le posizioni decisionali importanti, e con il potere di veto sulle nomine di cui dispongono la ZPC e i leader del Congresso.

La ZPC (Zionist Power configuration)

La ZPC ha apertamente organizzato e messo in opera l’allontanamento di un esperto diplomatico, Charles Freeman, dalla guida del National Intelligence Council. È una delle più grandi vittorie nel suo sforzo di controllare la politica estera USA in Medio oriente. Il NIC – una struttura che coordina 16 agenzie di spionaggio, con 100.000 dipendenti e un bilancio di 50 miliardi di dollari – costituisce il “cervello” e le “mani” che raccolgono le informazioni più riservate e importanti usate per analizzare ed elaborare la politica statunitense e per lanciare operazioni clandestine nell’intero impero mondiale USA. Silurando sfrontatamente il candidato scelto dall’ammiraglio Blair, capo dello spionaggio di Obama, la ZPC ha voluto far sapere all’intero apparato politico del paese, alleati e nemici, che il successivo candidato avrebbe dovuto avere il suo gradimento e approvazione, avrebbe dovuto, cioè, essere leale alle politiche d’Israele. La presenza dominante nel ramo esecutivo (incluse la Casa Bianca e i più stretti consiglieri del presidente), l’aperta ammissione del dominio totale di entrambi i rami legislativi e della crescente penetrazione nel comando civile e militare del Pentagono, l’occupazione dei posti più importanti: si chiude il circolo del controllo – o meglio della mano messa – sionista sull’intera nazione americana. Il risultato è la subordinazione degl’interessi nazionali e delle politiche degli Stati Uniti alla volontà guerrafondaia di Israele, incluso il sostegno alle conquiste israeliane e alla sua egemonia in Medio oriente e altrove.

I sionisti al potere

Il rapporto tra le politiche militaristiche e illegali d’Israele e il sostegno/approvazione del regime di Obama (anche quando significa sacrificare le promesse elettorali, gl’interessi economici e di sicurezza del paese, e l’opinione pubblica mondiale) può in gran parte spiegarsi con la nomina di sostenitori di vecchia data d’Israele nelle posizioni chiave della politica estera. L’elemento centrale del regime di Obama, colui che occupa la posizione più influente, è David Axelrod, consigliere principale del presidente, recentemente descritto dal New York Times in questi termini: “ha più peso di qualsiasi altra persona sul libro paga del presidente… Sono poche le frasi pronunciate dal presidente che non siano state prima approvate da Axelrod, che esamina ogni discorso, studia ogni posizione politica di rilievo e lavora… per elaborare le risposte alle crisi attuali” (New York Times, 9 marzo 2009). Axelrod e il capo dello staff della Casa Bianca, l’ebreo americano Rahm Emmanuel, suo amico di vecchia data, s’incontrano ogni mattino per coordinare l’agenda del giorno della Casa Bianca. il duetto sionista, i due Rasputin di Chicago, sono i più diretti e influenti politici sionisti e assicurano la priorità degl’interessi d’Israele nelle decisioni statunitensi in Medio oriente: affamare Gaza e aggredire l’Iran. Senza dubbio Axelrod e Emmanuel hanno svolto un ruolo importante nella nomina da parte di Obama e Clinton dei simpatizzanti sionista Jeffery Feltman e Daniel Shapiro a capo della squadra di negoziatori con la Siria (BBC, 7 marzo 2009). La loro agenda, cioè le priorità d’Israele, rende impossibile qualsiasi accordo di ampia portata. Il duetto alla Casa Bianca è rimasto stranamente silenzioso quando gli amici sionisti hanno impedito la nomina di Charles Freeman alla guida del National Intelligence Council di Obama e hanno ignorato l’umiliazione inflitta al segretario di stato Clinton da Israele, i cui bulldozer hanno distrutto le case delle famiglie palestinesi nella parte araba di Gerusalemme proprio il giorno in cui iniziava la sua visita ufficiale, e hanno così dimostrato di ripudiare la soluzione dei “due stati” avanzata da Obama.

Con il permesso del consigliere economico principale, il sionista Laurence Summers, il regime di Obama ha nominato il simpatizzante sionista David Cohen con l’incarico chiave di monitorare “il finanziamento dei terroristi” (Financial Times, 9 marzo 2009, p.2). Cohen sarà in grado di svolgere vari compiti cruciali per gl’interessi israeliani, compreso quelli di perseguire le organizzazioni benevole arabe e le organizzazioni umanitarie palestinesi, o di far pressioni sui fondi finanziari, commerciali o d’investimento (americani o stranieri) perché disinvestano dai paesi arabi e musulmani che criticano Israele. Ci si può attendere che faccia pressione sulle banche e gli esportatori europee e asiatici affinché smettano di commerciare e investire in Iran. Anche se sulla carta si tratta di una “nomina di secondaria importanza”, in realtà Cohen svolgerà un ruolo fondamentale nel favorire la linea dure sionista-israeliana per sanzioni economiche più pesanti contro l’Iran e per il mantenimento del blocco di Gaza. Il capo dell’agenzia di non proliferazione nucleare di Obama è Gary Samore, che ha messo ben in chiaro la priorità che accorda agl’interessi israeliani, quando, in un discorso tenuto in Israele il 18 dicembre 2008, si è dichiarato favorevole a bombardare l’Iran se il paese si fosse rifiutato di arrestare il suo programma di arricchimento dell’uranio, un programma che, in base al Trattato internazionale di non proliferazione è assolutamente legale (Financial Times, 24 febbraio 2009, p. 9). Il 24 febbraio 2009 il regime di Obama ha nominato Dennis Ross consigliere speciale di Hillary Clinton per la regione del Golfo. Ross, uno dei più importanti agenti di Israele nell’ambiente politico di Washington, ha da lunghi anni stretti rapporti di lavoro con Israele e con le istituzioni politiche americane legate agli ambienti israeliani militari, di spionaggio e di politica estera. Come inviato di Clinton ai negoziati arabo-israeliani, Ross, che nel novembre 2008 Ross ha sottoscritto un documento in cui si auspica l’invasione militare dell’Iran, ha contribuito al fallimento dei negoziati adottando in pieno le posizioni non negoziabili di Israele e accusando Yasser Arafat di “essere un ostacolo”.

La ZPC domina tutti i più importanti comitati di politica estera del Congresso, sia direttamente attraverso i sionisti presenti o gli eletti agganciati con contributi finanziari sia con la minaccia di rovesci elettorali o di campagne stampa denigratorie. Nelle prime settimane della nuova amministrazione, la macchina politica sionista ha bloccato con successo il tentativo di alcuni consiglieri di Obama di partecipare alla conferenza antirazzista di Durban e ha messo in sordina le critiche all’assedio israeliano che sta affamando Gaza formulate da due congressisti che avevano visitato l’area per constare di persona le distruzioni dell’aggressione sionista. La ZPC si è opposta alla nomina di Charles Freeman come capo dell’Intelligence Advisory Committee e lo ha costretto a farsi da parte. Ha apertamente sostenuto il massiccio esproprio delle terre della Striscia di Gaza e della parte orientale di Gerusalemme. Il regime di Obama, allineato sulle posizioni di Israele, ha scartato ogni possibilità di negoziati di pace con i palestinesi concentrandosi invece su “negoziati/accordi regionali”, in cui gl’inviati sionisti hanno il compito di fare pressioni su Siria, Libano e Iran per isolare tutti i leader palestinesi che si oppongono alla politica israeliana di annessione delle loro terre e di espulsione dei residenti.

La profonda ed estesa penetrazione della ZPC nel regime di Obama costituisce la più grave minaccia alla sicurezza nazionale da parte di un paese straniero dai tempi della nascita della Repubblica americana. La portata e le conseguenze distruttive verranno dettagliate in un ulteriore testo.

Il potere della ZPC si nota chiaramente nel ramo giudiziario, e il miglior esempio è il processo per spionaggio di due eminenti leader dell’AIPAC, la più importante lobby pro-israeliana: Steve Rosen e Keith Weissman, arrestati e incriminati dopo la loro ammissione di aver sottratto documenti segreti sulla politica degli USA verso l’Iran e di averli trasmessi a un agente del Mossad (il servizio segreto israeliano) assegnato all’ambasciata d’Israele a Washington. Il giudice federale incaricato del caso, T.S.Ellis, ha fatto numerose dichiarazioni a favore delle spie e ha accettato il loro punto di vista, secondo il quale passare documenti segreti a una potenza straniera è “una pratica corrente” a Washington e non un atto di spionaggio. La ZPC è riuscita a mobilitare a favore di Rosen e Weissman l’intero apparato mediatico, i sostenitori al Congresso e un certo numero di Gentili e sionisti liberali in nome della “libertà di espressione”: hanno cioè viziosamente equiparato il furto di documenti segreti statunitensi su problemi di sicurezza e la loro trasmissione agli agenti di una potenza straniera all’uso di fonti governative da parte dei giornalisti. I numerosi arresti dell’FBI e l’espulsione discreta di numerose spie israeliane senza accuse o processi, e le frequenti lamentele di ex funzionari statunitensi secondo i quali “ordini dall’alto” avevano bloccato le indagini, dimostrano la capacità dei sionisti in alto loco o delle autorità da loro controllate nel garantire l’impunità agli agenti israeliani/sionisti che compiono atti ostili e illegali contro la sicurezza e gl’interessi economici degli Stati Uniti. La presenza di un numero così elevato di sionisti nelle posizioni chiave della struttura presidenziale fanno sì che le operazioni di spionaggio israeliane negli USA possano ora essere sospese, dato che Israele può ottenere tutti i documenti e atti direttamente dai funzionari dell’amministrazione Obama. Ancora meglio, Israele può formulare direttamente alcuni documenti politici della Casa Bianca e dello spionaggio USA.

Sionisti al potere significa che l’impero USA continuerà attivamente e aggressivamente a provocare scontri militari e guerre regionali nel Medio oriente, nell’interesse d’Israele. In nessun momento la Casa Bianca e il Congresso, i cui la presenza dei sionisti è predominante, si sono soffermati sui costi esorbitanti che implica l’essere al servizio d’Israele, anche nel bel mezzo di una grave crisi economica. Tutti i maggiori media e le 51 più importanti organizzazioni ebree in America – che fanno pressioni per il blocco, le sanzioni e la guerra preventiva in Iran – sono virtualmente liberi d’ignorare le tremende perdite e sofferenze inflitte al popolo americano per il fatto di aver destinato miliardi di dollari dei contribuenti americani dagl’investimenti interni alle guerre a favore d’Israele. Il controllo sionista sulla politica della Casa Bianca in Medio oriente significa che gli USA saranno coinvolti in infinite guerre nel Golfo Persico e nel sud-est asiatico, perché Israele ha un piano militare che include l’intera regione e un’armata di agenti intenzionati e capaci d’imporlo al governo americano… FINE