Le veglie per le vittime dell’omofobia. Una scelta di solidarietà oltre ogni paura

di Gianni Geraci, gruppo del Guado di Milano
da Tempi di Fraternità, maggio 2009

Quando, due anni fa, il gruppo Kairos di Firenze ha lanciato l’idea di organizzare una veglia di preghiera per le vittime dell’omofobia ho accolto la proposta con entusiasmo. Mi sembrava infatti che, per la prima volta dopo tanto tempo, i nostri gruppi di cristiani omosessuali avessero la possibilità di dare corpo alla loro esigenza di testimoniare, un rapporto diverso tra esperienza di fede e condizione omosessuale, in modo appropriato e originale.

In modo appropriato perché la proposta di pregare insieme per coloro che vivono una condizione di violenza, di emarginazione, di discriminazione o di sofferenza a causa di uno specifico orientamento sessuale, aveva il grande merito di unire alle sollecitazioni di molte chiese che, almeno a parole, condannano tutte queste forme di violenza, le preoccupazioni che emergono invece dalla comunità omosessuale, dove lo stillicidio di episodi che vedono lesbiche e gay nel ruolo di vittime di una violenza irrazionale viene vissuto con crescente preoccupazione. In modo originale, perché il fatto che delle persone omosessuali si facessero carico dell’organizzazione di momenti pubblici in cui ci si ritrova solo per pregare, rendeva giustizia del profondo desiderio di spiritualità e di intimità con il soprannaturale che coinvolge tantissime lesbiche, tantissimi gay e, soprattutto, tantissimi transessuali.

Tra l’altro, pensavo che una proposta come quella di vegliare insieme in preghiera per ricordare le vittime dell’omofobia venisse accolta con entusiasmo dalle chiese cristiane che avevano già speso parole di condanna per la violenza omofoba e spingesse quelle chiese che invece non avevano ancora affrontato questo problema a ribadire la centralità della persona umana e della sua integrità, al di là di qualunque valutazione etica dei suoi comportamenti e delle sue scelte. Sarebbe stata senz’altro una scelta di grande impatto ecumenico quella di ritrovarsi tutti per chiedere al Signore di liberarci da questa forma subdola di violenza.

Le reazioni, come era prevedibile, sono state diversificate: le comunità valdesi metodiste e battiste si sono mobilitate per dare il loro appoggio alle veglie che si sono svolte; lo stesso hanno fatto le comunità di base, la chiesa veterocattolica e una galassia di chiese cattoliche indipendenti che hanno promosso un numero impressionante di veglie in molte località dell’America Latina; per quel che riguarda il mondo ortodosso va segnalata l’adesione del vescovo Teodoro Corino che ha rotto il muro di diffidenza con cui, ormai da molti anni, l’ortodossia guarda all’omosessualità. Nella chiesa cattolica romana le risposte sono state variegate: sono stati moltissimi i singoli credenti che hanno deciso di partecipare a titolo personale alle veglie e non sono mancati i casi in cui interi gruppi giovanili hanno deciso di unire le loro preghiere alle nostre; in alcune diocesi le veglie sono state ospitate dalle parrocchie con cui i singoli gruppi hanno dei contatti; in diocesi di Cremona, lo scorso anno, è stato addirittura il vescovo Dante Lanfranconi a offrire una chiesa della città a un gruppo che aveva scelto di ricordare, insieme agli omosessuali, anche le altre categorie di persone che subiscono violenze che nascono dalla discriminazione.

Non sarei però corretto se non dessi conto anche di alcune reazioni negative che le veglie in favore delle vittime dell’omofobia hanno suscitato. In particolare sono da segnalare quelle che ci hanno contestato un uso distorto del termine ‘omofobia’. Una lettera che è arrivata lo scorso anno al Guado, riprendendo un brano del «Lexicon dei termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche» pubblicato nel 2002 dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, ha, ad esempio, contestato l’esistenza stessa dell’omofobia che veniva definita: «Un’invenzione offensiva e ideologica creata ad arte dai gay per attaccare tutti quelli che non la pensano come loro».

In realtà la cronaca ci propone con regolarità casi in cui gli episodi di violenza sono generati da quella paura irrazionale dell’omosessualità che, appunto, viene indicata con il termine di omofobia. Quale altro movente avrebbe infatti spinto i tre giovani di Pordenone che, nel gennaio di quest’anno, hanno preso a botte un invalido omosessuale, visto che alla polizia si sono giustificati dicendo che il loro gesto aveva come intento quello di «dare una lezione ai froci»? E quale sarebbe stato poi il motivo che ha spinto la vittima di questa violenza a non denunciare i suoi aggressori se non il terrore della propria omosessualità, un terrore che spinge molto spesso le vittime di una violenza a colpevolizzarsi. E quale sarebbe infine il movente che ha spinto gli aggressori di Roberto Collu, il cuoco sardo che lo scorso 21 Marzo, si è presentato al pronto soccorso con la faccia devastata dalle botte?

In realtà, negare l’omofobia solo perché non si condividono alcune istanze del movimento omosessuale, significa tradire il senso stesso del messaggio evangelico così come ci viene comunicato, ad esempio, dalla parabola del buon Samaritano. Gesù ricorda infatti che farsi prossimo significa accettare il primato della solidarietà su qualunque altra esigenza. E nel ricordarci questo ci invita ad abbandonare qualunque ipocrisia quando siamo di fronte a un altro uomo che ha bisogno del nostro aiuto. Ecco perché quest’anno abbiamo deciso di accompagnare l’iniziativa delle veglie con un appello in cui si invitano le nostre chiese a superare qualunque diffidenza e a vincere qualunque paura per andare incontro ai tanti omosessuali che debbono nascondere il loro orientamento sessuale, ai tanti gay che vengono derisi per quello che sono, a quelli che vengono emarginati, alle tante lesbiche che vengono disprezzate, ai tanti transessuali che non vengono capiti e che vengono spinti verso la prostituzione, a tanti uomini che vengono aggrediti a causa del loro orientamento sessuale, alle tante persone che, in alcuni paesi del mondo, vengono condannati e talvolta vengono uccisi, per la loro omosessualità.