OBAMA E NETANYAHU: E’ SCONTRO

di Luca Mazzucato
da www.altrenotizie.org

Lo scoop sul discorso di Barack Obama al Cairo è lanciato dalla CNN: nessuno gli ha tirato una scarpa! Si potrebbe riassumere così la reazione araba e iraniana, ed è un notevole risultato, pensando alla scia interminabile di guerra, morte e distruzione che il suo predecessore ha lasciato in Medioriente. Obama ridisegna la politica americana nella zona più calda del pianeta.

Una scarpa questa volta gliel’avrebbe tirata volentieri il premier israeliano Netanyahu, se fosse stato presente, a nome del suo governo di coloni: mai come ora le posizioni di Israele e Stati Uniti sono state così divergenti su tutti i fronti interni ed esterni. Presto i nodi degli insediamenti e dell’embargo su Gaza verranno al pettine e metteranno alla prova dei fatti i buoni propositi della nuova amministrazione american.

Nel suo lungo e denso discorso all’Università Al-Azhar al Cairo, Obama ha per la prima volta enunciato chiaramente la nuova posizione americana su tutte le questioni calde della politica mediorientale. Si tratta di un’inversione di rotta a centottanta gradi su quasi tutto, eccetto l’occupazione in Afghanistan. Cerchiamo di capire di cosa si tratta, con particolare attenzione alle questioni riguardanti il rapporto tra Stati Uniti e Israele.

“Sono orgoglioso di portare con me la buona volontà del popolo americano e un saluto di pace dalle comunità islamiche nel mio paese: assalaamu alaykum.” A queste parole, gli spettatori increduli nella platea al Cairo si sono alzati in piedi in segno di rispetto, molti di loro con le lacrime agli occhi: ecco dispiegata la potenza oratoria di Barack Obama, che nei minuti successivi ha spesso citato il Corano e dimostrato di conoscere la cultura islamica, in omaggio all’Università più importante di tutto l’Islam.

Sull’Iran, Obama è stato inequivoco e le sue parole piovono come pietre sul governo israeliano. Riconoscendo che “nel mezzo della guerra fredda, gli Stati Uniti contribuirono a rovesciare il governo iraniano democraticamente eletto” e dichiarando che “qualsiasi nazione, incluso l’Iran, dovrebbe avere il diritto di accesso all’energia nucleare civile, se rispetta le responsabilità del Trattato di Non-Proliferazione.”

Dunque luce verde per gli impianti nucleari iraniani, se si sottoporranno alle ispezioni internazionali. La questione è particolarmente controversa, dal momento che tutta la recente campagna elettorale di Netanyahu è stata basata sulla minaccia nucleare iraniana e sullo slogan che Israele fermerà l’Iran a tutti i costi. Dopo aver più volte proibito all’alleato ebraico di preparare un attacco contro i siti nucleari iraniani, gli Stati Uniti ora stanno semplicemente ammettendo che le centrifughe non sono un problema. Dunque Israele deve semplicemente lasciar perdere.

Anche sulla questione palestinese Obama ha messo dei chiari paletti. Il presidente americano ha riaffermato il legame speciale ed indissolubile degli USA con Israele e ha ricordato l’Olocausto, con parole di fuoco rivolte a chi nega lo sterminio degli ebrei (ovvero Ahmadinejad e i suoi frequenti “dubbi” sul numero di ebrei realmente uccisi nei lager).

Ma si è poi dilungato assai sulla situazione del popolo palestinese: “Per più di sessant’anni hanno sofferto il dolore dell’esilio” prosegue Obama, “nei campi profughi in West Bank, a Gaza e nei paesi confinanti molti aspettano una vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto avere. Soffrono le umiliazioni giornaliere, grandi e piccole, che vengono con l’occupazione. Voglio che non ci siano dubbi su questo: la situazione per il popolo palestinese è intollerabile.”

Mettendo sullo stesso piano la lotta nazionale palestinese a quella degli schiavi neri americani e del Sudafrica, ha messo in chiaro che “l’America non girerà le spalle alla legittima aspirazione palestinese al loro stato.”

In un colpo solo, Obama ha ricordato la “nakba” (in arabo, la catastrofe, ovvero la guerra e la pulizia etnica che nel ’48 portarono alla creazione dello stato ebraico) e l’esistenza del problema dei profughi del ’48, oltre a quelli del ’67. La posizione americana non potrebbe essere più distante da quella israeliana su questo argomento.

È recente infatti la proposta di legge del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, per mettere fuori legge in Israele ogni riferimento alla “nakba.” Sempre Lieberman ha proposto che ai cittadini arabi venga imposto, per la cittadinanza, un giuramento di fedeltà al carattere ebraico dello Stato. Entrambe le proposte sono state per il momento bocciate, ma la deriva razzista dell’attuale establishment israeliano è sotto gli occhi di tutti.

Resterà nella storia l’apertura nei confronti di Hamas, che per la prima volta non viene definito un gruppo terroristico. Al contrario, Obama riconosce che “Hamas gode di popolarità tra alcuni palestinesi,” ma deve rinunciare alla violenza e riconoscere Israele e i precedenti accordi. Un vero e proprio schiaffo al governo israeliano.

La strada della diplomazia è dunque aperta per Hamas, anche se ci vorrà ancora tempo prima che il gruppo islamico si sieda al tavolo delle trattative. Il portavoce del gruppo, Abu Marzouk, ha accolto con entusiasmo l’apertura degli Stati Uniti, ma ha ribadito che Hamas per il momento non rinuncerà alla lotta armata.

Obama passa poi all’attacco e snocciola le sue richieste al premier Netanyahu: “Gli israeliani devono riconoscere che, così come il diritto di Israele all’esistenza non può essere negato, nemmeno può esserlo quello della Palestina. Gli Stati Uniti non accettano la legittimità degli insediamenti israeliani. La loro costruzione viola i precedenti accordi e mina gli sforzi per la pace.

È tempo che le colonie si fermino.” Sulla questione difficile e cruciale delle colonie in West Bank, Obama non usa mezze misure e dunque mette in gioco tutta la sua credibilità, come d’altronde già annunciato più volte dal Segretario di Stato Clinton. Gli Stati Uniti non tollereranno alcun ampliamento delle colonie. La dottrina Bush-Sharon-Olmert della “espasione naturale” degli insediamenti è dunque archiviata.

Questo è il vero nodo al centro del conflitto tra israeliani e palestinesi. L’attuale governo Netanyahu è un aperto sponsor dei coloni, che possono annoverare tra le loro fila anche il Ministro degli Esteri Lieberman. È di questa settimana la notizia che il Ministro degli Interni Eli Yishai, del partito ultraortodosso Shas, ha dichiarato che sfrutterà “tutte le risorse del suo ministero e la sua influenza sulle istituzioni locali” per espandere gli insediamenti ebraici nei Territori.

Le risorse sono in parte finanziarie, ovvero un grosso fondo per lo sviluppo a disposizione del ministero che verrà investito nelle colonie, e in parte amministrative, ovvero deroghe ai piani regolatori per l’espansione delle colonie esistenti. Secondo Yishai infatti “c’erano accordi con le precedenti amministrazioni americane per continuare a costruire negli insediamenti già esistenti.”

Il discorso di Obama rappresenta un primo segnale incoraggiante nel più vasto panorama mediorientale. Per la prima volta da quasi dieci anni, Hamas ha fermato il lancio di razzi Qassam da Gaza su Sderot, forse la mossa più azzeccata da parte del gruppo islamico, dall’abbandono degli attentati suicidi nel 2005.

Ora che non ci sono più i razzi per giustificare la continua escalation israeliana, l’attenzione sta tornando al cuore del problema: l’occupazione e gli insediamenti nei Territori. La leadership israeliana, che ha sempre giocato internamente e all’estero la carta della paura e della rappresaglia (vera o immaginaria) contro un’aggressione esterna, si trova con il cerino in mano. Hamas non dà più pretesti per bombardare Gaza.

Hizbullah ha perso le elezioni in Libano, che sembra avviato su una nuova strada filo-occidentale. L’Iran ha ora il diritto di costruire centrali nucleari. Sta svanendo
la minaccia psicologica della guerra sull’opinione pubblica israeliana. Molti commentatori paventano una resa dei conti imminente tra le due anime pacifista e oltranzista di entrambi i popoli in conflitto, israeliani e palestinesi. Netayahu non potrà più deflettere l’attenzione e sbrogliare il nodo delle colonie sarà cruciale nei futuri rapporti con gli Stati Uniti.