USA, LA RIFORMA SANITARIA E’ GIA’ MALATA

di Michele Paris
da www.altrenotizie.org

Dopo mesi di trattative e negoziazioni serrate, la tanto annunciata riforma del sistema sanitario americano sembra finalmente giunta alla stretta finale. In una serie di apparizioni pubbliche, il presidente Obama sta cercando di convincere il Congresso a votare una nuova legge prima della pausa estiva. I parlamentari repubblicani più moderati ed una buona parte di quelli democratici chiedono però più tempo per trovare una soluzione maggiormente condivisa dai due schieramenti e che possa influire il meno possibile su un deficit federale già di proporzioni enormi. Nel frattempo, le industrie farmaceutiche e delle assicurazioni sanitarie, anche se all’apparenza meno agguerrite nei confronti del nuovo piano di ristrutturazione del sistema rispetto a quello di Clinton fallito nel 1993, continuano a riversare milioni di dollari in attività di lobby per ostacolare l’iter legislativo della riforma o, quanto meno, per piegarla ai propri desideri.

Qualunque sarà la forma dell’ambiziosissimo progetto di Obama però, i punti chiave di una riforma veramente efficace e capace di garantire una copertura universale, accessibile ed equa per i lavoratori americani sono sparite da tempo dal dibattito politico. Anche se il livello di conflittualità nelle varie commissioni del Congresso che stanno limando gli ultimi dettagli, peraltro non di poco conto, ha raggiunto livelli di guardia nelle ultime settimane, quasi tutti gli osservatori concordano sul fatto che entro la fine dell’anno in corso Barack Obama si ritroverà sul tavolo una legge di riforma del sistema sanitario da firmare dopo l’approvazione di entrambe le camere.

Al momento, sono cinque i progetti di legge all’analisi di altrettante commissioni parlamentari alla Camera dei Rappresentanti e al Senato. Vista l’impossibilità allo stato attuale di trovare un compromesso definitivo per far giungere il testo in aula, i leader di maggioranza democratici hanno annunciato un rallentamento dei lavori che farà verosimilmente slittare il voto a dopo l’estate.

A sollevare perplessità su alcuni contenuti della riforma è stata la cosiddetta Blue Dog Coalition, gruppo democratico che raccoglie i parlamentari centristi del partito di maggioranza provenienti in gran parte da stati del sud o dell’ovest a prevalenza repubblicana. Conservatori sul piano fiscale, i moderati democratici sono preoccupati per l’eccessiva spesa che verrà prodotta dal nuovo piano sanitario. A loro parere, la versione già approvata qualche giorno fa dalla Commissione Salute, Impiego, Lavoro e Pensioni della Camera (“Health, Employment, Labor and Pensions”) non conterrebbe a sufficienza la spesa sanitaria sul lungo periodo, mentre, allo stesso tempo, determinerebbe un eccessivo innalzamento del carico fiscale, soprattutto nei confronti dei redditi più alti.

La ricerca di un possibile accordo con l’opposizione chiesta fin dall’inizio da Obama, oltre ad aver determinato l’accoglimento di molti emendamenti voluti dai repubblicani, ha contribuito a sua volta a rallentare le operazioni. Il Partito Repubblicano infatti, a parte i pochi esponenti più moderati, si è battuto per l’affossamento della riforma o, nella migliore delle ipotesi, per includere variazioni che avrebbero finito per ridurne fortemente gli effetti benefici. Così, se da un lato l’ala dura del partito per bocca del senatore della South Carolina Jim DeMint ha chiaramente espresso la volontà di trasformare la battaglia per la riforma sanitaria nella “Waterloo di Obama”, il più moderato Charles Grassley dell’Iowa ha comunque insistito per l’esclusione di qualsiasi aumento di tasse sui redditi più alti per finanziare il progetto.

Se nuove tasse dovranno esserci, dovranno provenire dallo stesso ambito della sanità. Stop quindi, ed è un’idea condivisa anche da molti democratici, alla tassa progressiva già prevista dalla versione della Camera dei Rappresentanti tra l’uno e il 5,4% sui redditi superiori ai 350.000 dollari, e via libera invece alla tassazione dei benefit previsti dagli attuali piani sanitari forniti dai datori di lavoro ai propri dipendenti.

Ipotesi quest’ultima già esclusa da Obama in campagna elettorale e fortemente osteggiata dai sindacati, preoccupati per le ripercussioni negative sulla classe media. Di fronte all’opposizione interna, la speaker democratica della Camera Nancy Pelosi ha allora proposto di tassare soltanto i redditi al di sopra del milione di dollari, un sacrificio insignificante per una ristretta fascia di popolazione che durante la precedente amministrazione ha beneficiato enormemente dei tagli fiscali garantiti dal presidente Bush.

Il tono minaccioso espresso dall’opposizione circa la propria intenzione di far naufragare la riforma del sistema sanitario ha forse involontariamente consegnato un’arma in più allo stesso Obama, il quale non ha caso nel suo ultimo intervento di fronte alla nazione in prime time ha più volte fatto riferimento alle minacce di parte repubblicana. Una sconfitta democratica sul fronte della sanità significherebbe infatti non solo un colpo pesantissimo inferto alla sua presidenza nel primo anno del suo mandato, ma anche e soprattutto alle speranze di rielezione di molti parlamentari del suo partito nelle votazioni di medio termine del prossimo anno. Dal momento allora che il Partito Democratico possiede teoricamente una maggioranza di ferro in entrambi i rami del Congresso, è probabile che la maggioranza finirà per compattarsi su una soluzione di compromesso, condivisa o meno da qualche repubblicano.

La quasi certezza di riuscire a raggiungere una ristrutturazione del sistema non assicura tuttavia il conseguimento di una buona riforma. L’intera discussione infatti, soprattutto in seguito alle indicazioni dello stesso Obama, è ruotata fin da subito quasi esclusivamente attorno alla questione del contenimento dei costi di un sistema sanitario che richiede una spesa maggiore rispetto alla gran parte dei paesi avanzati ma che rispetto ai quali non garantisce una copertura altrettanto estesa. L’obiettivo di un’assicurazione pubblica giusta e alla portata di tutti è così passato necessariamente in secondo piano.

Come è sparita precocemente dall’agenda presidenziale e del Congresso l’unica proposta in grado davvero di raggiungere quest’ultimo obiettivo: la gestione e il finanziamento della sanità da parte del governo federale (“single-payer system”). Secondo Obama e i suoi parlamentari, per non parlare dei repubblicani, tale sistema risulterebbe distruttivo di quello attuale, basato cioè sul profitto delle compagnie private, che verrà così mantenuto intatto anche in futuro.

Essendo allora la questione del contenimento dei costi assolutamente predominante, ogni modifica all’attuale sistema sanitario dovrà per forza di cose essere sottoposta ad un’attenta analisi finanziaria per valutarne la sostenibilità. In sostanza, la riforma che porterà il nome di Obama finirà per fondarsi su tagli alla spesa e sul razionamento delle cure e dei medicinali. Il piano, inoltre, non dovrà pesare ulteriormente sul bilancio federale e sarà finanziato in maniera prevalente tramite l’abbattimento dei costi dei programmi pubblici già esistenti e destinati agli anziani e ai poveri: Medicare e Medicaid.

Per rendersi conto della prospettiva distorta con cui il dibattito sulla riforma sanitaria si sta svolgendo nel mondo politico e sui media “mainstream” americani basta elencare le critiche che principalmente vengono rivolte al presidente Obama. Da più parti si paventa una crescita incontrollata dei costi, la creazione di un piano pubblico, l’aumento delle tasse per i più ricchi e le sanzioni previste per le aziende che non offriranno una copertura sanitaria ai propri dipendenti.

Rare e sporadiche sono al contrario le voci di quanti denunciano il profilarsi di un sistema che se, da un lato, manterrà intatta una copertura di primissimo livello per le famig
lie benestanti, dall’altro istituirà verosimilmente una sanità di bassa qualità per i lavoratori con i redditi più bassi. Ciononostante, gli oppositori di qualsiasi riforma continuano a denunciare l’indebita intrusione del governo nel settore privato e a cercare di ostacolare la creazione di un piano pubblico che produrrebbe una concorrenza insostenibile per i privati.

A mettere ulteriormente sull’attenti una parte dei parlamentari democratici, i quali rappresentano oggi ben 14 dei 25 distretti più ricchi degli Stati Uniti, è stata anche una recente relazione dell’Ufficio del Congresso per il Bilancio (CBO) che ha rivelato come il piano di riforma attualmente in esame alla Camera dei Rappresentanti – dal costo complessivo stimato in mille miliardi di dollari nell’arco del prossimo decennio – provocherebbe un aumento del deficit federale di 239 miliardi per il periodo 2009-2010.

Nonostante il rapporto non prendesse in considerazione alcune spese del programma Medicare che saranno con ogni probabilità affrontate nel prossimo futuro, tanto è bastato per far suonare l’allarme e dare vita ad una fitta serie di pellegrinaggi dei membri della Blue Dog Coalition alla Casa Bianca per esprimere le loro preoccupazioni al presidente e al suo capo di gabinetto, Rahm Emanuel.

L’autofinanziamento della riforma sarebbe assicurato in parte, a detta di Obama, da una “razionalizzazione”della spesa dei programmi Medicare e Medicaid per oltre 600 miliardi di dollari. Una commissione indipendente composta da medici ed esperti verrebbe inoltre creata con il compito di supervisionare la spesa pubblica per la sanità, eliminare sprechi ed inefficienze, ma anche con il compito di ridurre progressivamente i rimborsi ai fornitori privati di prestazioni sanitarie. La presenza di un’opzione pubblica, sia pure blanda, non è oltretutto ancora garantita.

Sempre sull’onda delle proteste dei centristi del Partito Democratico e dei repubblicani, la Commissione Finanze del Senato ha avanzato l’ipotesi di sostituire un piano gestito dal governo federale con uno controllato da una serie di cooperative no-profit private. Il tutto ufficialmente per esorcizzare gli incubi di un presunto socialismo strisciante ma, in realtà, per stroncare sul nascere l’efficacia di un’alternativa alle assicurazioni private.

In questo quadro tuttora molto confuso, non è una sorpresa che il livello di gradimento del presidente Obama e della sua gestione della questione sanitaria sia sceso di qualche punto nelle ultime settimane. La maggior parte degli americani che si recano alle urne inoltre, la stragrande maggioranza dei quali è bene ricordare è coperta da una qualche assicurazione sanitaria, appare spaventata circa il futuro del piano di assistenza di cui attualmente dispone e quanto meno scettica sui sacrifici che dovrà sostenere per garantirne l’estensione ai 47 milioni di loro concittadini che ne sono esclusi.

D’altro canto, il fronte che dovrebbe opporsi alla riforma non è così compatto come può apparire dai proclami della propaganda ufficiale. Preoccupati dei crescenti premi assicurativi, molti piccoli e medi imprenditori, come ha rivelato una ricerca del Washington Post, sembrano auspicare una reale concorrenza pubblica di fronte a poche compagnie private che, soprattutto negli stati più piccoli, dominano il mercato spingendo verso l’alto i costi della copertura sanitaria.