L’IMPERO A RISCHIO LIQUIDAZIONE

di Ilvio Pannullo
da www.altrenotizie.org

Nonostante l’inconcludente passeggiata al G8 dell’Aquila, fermo restando lo straordinario gusto glamour della moglie, il gelato al mirtillo delle figlie, le simulazioni delle scosse sismiche e qualche buon tiro a canestro, Mr. Obama si prepara ad affrontare una situazione che non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti, dove dovrà dar prova di ben altre capacità che non sia quella di uccidere mosche. L’impero monetarista americano è giunto finalmente al capolinea e qualcuno, vedendolo come il liquidatore dell’impero, già immagina paragoni col Gorbaciov sovietico. A dare il felice annuncio sono una serie di segnali inequivocabili e facilmente considerabili come collegati. A tremare infatti non è più un solo settore, ma tutti gli indici di riferimento che vanno considerati se si ha intenzione di valutare lo stato di salute di un’economia.

Del debito pubblico oramai fuori controllo, dopo i recenti interventi di spesa per rilanciare l’economia, appare quasi inutile fare menzione e lo stesso dicasi per il mostruoso disavanzo commerciale. A ciò si aggiunga che, secondo i dati diffusi appena qualche giorno fa, a giugno gli occupati calano di 467 mila unità, molto oltre l’attesa discesa di 363 mila a cui, peraltro, va aggiunta una perdita di 322 mila unità a maggio. Il tasso di disoccupazione sale al 9,5% dal 9,4% di maggio. Si tratta del dato peggiore dal 1983.

I numeri sono tuttavia troppo aridi per comprendere la brutalità della situazione. Si potrebbe immaginare, per rendere l’immagine più nitida e comprensibile, una famiglia letteralmente divorata dai debiti che, nonostante la perdita del posto di lavoro da parte di uno dei genitori, continui a sostenere quello stesso stile di vita causa della sua rovina finanziaria. A sostenerla i soliti usurai amici di famiglia.

Con le dovute proporzioni il quadro descritto è la dura realtà alla quale il tanto decantato sogno americano a già incominciato a lasciare il posto. Per completezza si aggiunga che, il 10 giugno scorso, Washington faceva sapere che l’aumento del prezzo del greggio delle ultime settimane ha fatto salire in aprile la bolletta delle importazioni di petrolio a 13,63 miliardi da 11,98 in marzo con un prezzo medio del barile che é salito a 46,60 dollari da 41,36.

In termini di volumi, sono stati importati 292,60 milioni di barili contro i 289,69 milioni del mese precedente. Il totale della bolletta energetica, incluse dunque anche le importazioni di altri tipi di energia, si é invece assestato in aprile a 17,40 miliardi, in netto rialzo rispetto ai 16,05 miliardi del mese precedente. In sintesi si spende di più, s’incassa di meno, il debito sale alle stelle e la disoccupazione inizia a dilagare in una nazione in cui il Welfare State è considerato alla stregua di una bestemmia in chiesa.

In questo quadro generale non sorprende che nessuno sia disposto più a fare credito, acquistando i titoli del suo debito pubblico, ad una nazione orami prossima al collasso economico. È qui, infatti, che si gioca la vera partita: un’economia sana può, a buon rendere, contrarre debiti per massimizzare la propria capacità produttiva piuttosto che aumentare i beni e i servizi d’importazione; quello che non può fare è continuare a spendere quando non ha più soldi e nessuno le concede più prestiti. Per debito pubblico s’intende, infatti, il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o soggetti stranieri, che hanno sottoscritto obbligazioni (negli USA i T-Bonds) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale.

A dare scacco, infatti, all’economia americana, sarà il crollo dei suoi titoli del tesoro. Ma andiamo con ordine. Dalla fine del 2008, il governo cinese, il principale finanziatore del debito americano, ha iniziato a disfarsi di 50-100 miliardi di beni denominati in dollari ogni mese. Approfittando della crisi finanziaria e del conseguente crollo dei valori di un ampio insieme di beni utili all’economia cinese (minerali, energia, azioni europee o asiatiche ed altre materie prime come il rame), Pechino ha fatto shopping coerentemente con il suo primo bisogno: fare il meglio possibile con i suoi beni denominati in dollari, cioè scambiarli con beni non americani. Ultimamente i segnali in questo senso stanno aumentando in modo costante. Nel mese di aprile le riserve auree cinesi sono aumentate del 75%, passando da 600 tonnellate della fine di marzo, a 1.054 tonnellate.

Al di là del dato del forte aumento delle riserve auree va segnalato un altro elemento: negli ultimi dieci anni le riserve cinesi erano cresciute soprattutto in dollari, mentre l’accumulo di oro era rimasto praticamente fermo; alla fine del 1999 la Repubblica Popolare aveva riserve auree per sole 394 tonnellate; nel dicembre del 2001 le riserve passano a 500 ed arrivano a 600 nel dicembre del 2002. Da allora, smise di accrescere le riserve auree, dedicandosi ad accumulare dollari.

Oggi, l’inversione di tendenza, con questa forte crescita del 75%. E’ evidente che la scelta di accumulare oro significa considerarlo un bene rifugio, di fronte alla possibile caduta della quotazione del dollaro. In tutto il 2009 i cinesi hanno infatti investito – e stanno continuando ad investire – fortemente all’estero, se è vero che nel solo mese di febbraio hanno investito 65 miliardi di dollari al di là dei confini nazionali, più di quanto avevano investito in tutto il 2008.

Se alle cifre sopra descritte aggiungiamo la dichiarazione del Governatore del Banco Popolare Cinese (la banca centrale), Zhou Xiaochuan, che parla della necessità di sostituire il dollaro e di utilizzare una nuova valuta di riferimento per gli scambi internazionali, si comprende che la Cina non è più intenzionata a finanziare la disastrata economia statunitense; ha quindi ha progressivamente smesso di accumulare riserve al ritmo precedente. E’ possibile che nei prossimi mesi la Cina non solo azzeri totalmente la crescita delle riserve in dollari, ma cominci a liberarsi di quelle di cui è in possesso, massimizzando gli investimenti all’estero. Può diventare l’atto primo della caduta dell’impero.