L’Italia e la fame nel mondo. Aiuti ridotti a un decimo

di Gian Antonio Stella
da Corriere della Sera, 3 agosto 2009

Aveva la voce rotta, Silvio Berlusconi, raccontando al G8 del bimbo africano morto di fame tra le
braccia della madre: «Le disse di non preoccuparsi perché sarebbero arrivate le Nazioni Unite. Ma
non sono arrivate mai». Bene: avanti così arriveranno ancora di meno. Il dimezzamento dei fondi
dei Paesi ricchi al programma contro la fame, infatti, fa già mancare la benzina agli aerei che
portano gli aiuti nei luoghi più remoti, più impervi, più disperati. E l’Italia, purtroppo, è tra i paesi
più tirchi.

L’allarme viene lanciato dal sito del Pam, il Programma alimentare mondiale, la più grande
organizzazione umanitaria internazionale, che dipende dalle Nazioni Unite e ha sede a Roma: il
Servizio aereo umanitario ha «crescenti difficoltà a mantenere operativi i voli in molte parti
dell’Africa a causa della drammatica scarsità di fondi». Cosa vuol dire? Vuol dire che nel giro di
due settimane, se non saranno recuperati in tutta fretta 6,7 milioni di dollari, potrebbero essere so-
spesi i voli che nel Ciad consentono di raggiungere i campi profughi in cui sono ammassati 250.000
rifugiati del Darfur e altri 180.000 sfollati nell’est del Paese che hanno bisogno di assistenza. Per
non dire di altri punti di crisi del pianeta, dalla Costa d’Avorio (dove già i voli sono stati soppressi a
febbraio) all’Afghanistan. Il servizio costa 160 milioni di dollari l’anno: per il 2009 ne sono arrivati
40. Un quarto. E siamo già in agosto.

Quello dei voli umanitari, però, è solo uno dei problemi. Come ha denunciato l’altro giorno a
Washington la direttrice, Josette Sheeran, il Programma alimentare mondiale «sarà costretto a quasi
dimezzare gli aiuti per il 2009 portandoli da 6,7 a 3,7 miliardi di dollari». A dispetto delle promesse,
ribadite per l’ennesima volta il mese scorso al vertice dei Grandi all’Aquila e a Roma, dove la
Sheeran offrì alle «first lady» una tazza di plastica rossa simbolo della campagna per
l’alimentazione scolastica (che nutre ogni giorno 22 milioni di bambini in una settantina di Paesi
con una zuppa di cereali e vitamine), i contributi al Pam da parte dell’Occidente sono sempre più
risicati.

Certo, non si può generalizzare. Il Giappone, stando alla banca dati dell’Onu per le emergenze
alimentari e alle proiezioni sui contributi al 31 luglio rielaborate da Iacopo Viciani de lavoce.info ,
aumenta il suo apporto da 94 a 109 milioni di dollari e il Belgio da 17,9 a 20. Ma in genere i tagli
per queste emergenze sono pesanti: gli Stati Uniti passano da 1.154 milioni a 854, la Germania da
50 a 33, l’Olanda da 58 a 12, il Canada da 184 a 49, il Regno Unito da 159 a 33… Insomma: sono
un po’ tutti a serrare i cordoni della borsa. Come già li avevano serrati al G8 destinando ai paesi
poveri quei 20 miliardi di dollari complessivi, pari a 13 millesimi dei fondi investiti per aiutare le
banche e arginare la crisi finanziaria.

Spicca tuttavia il caso dell’Italia: da 40,4 a 3,3 milioni di dollari. Più che un colpo di forbice, un
colpo di accetta. C’è chi dirà che il dato, in sé, non significa molto. Perché oltre alle «emergenze
alimentari» ci sono altre forme di intervento e ogni Paese può autonomamente decidere di puntare
di più, anno per anno, su questa forma o quest’altra. Tanto è vero che anche Paesi tradizionalmente
generosi come la Svezia, in questa tabella, sembrano essere diventati improvvisamente sparagnini.

Il fatto è che l’Italia (non solo col governo attuale: la tendenza è netta e, sia pure con qualche isolato
ritocco, prosegue da molti anni) è agli ultimi posti in tutte le tabelle di questo genere. Tutte. Basti
ricordare che, nonostante gli impegni del Cavaliere al G8 di Genova («Non basta lo 0,70 del Pil: gli
stati ricchi dovrebbero dare ai poveri l’uno per cento!») siamo via via scesi coi nostri contributi al
punto che quest’anno potremmo assestarci tra lo 0,12 e lo 0,14% solo grazie alla cancellazione di
una parte dei debiti, altrimenti potremmo finire intorno allo 0,09: sette volte meno di quanto
avevamo garantito. Dieci volte di meno di quanto Berlusconi, non a caso costretto ad ammettere
«siamo nel torto assoluto» dopo essere stato bacchettato dal premio Nobel per la pace Desmond
Tutu e da Bob Geldof, aveva incitato a fare.

Non c’è praticamente nulla, nel nuovo Dpef dove pure si riconosce che «alcuni Paesi in via di
sviluppo hanno subito uno choc molto severo », sui nostri impegni per il Terzo Mondo. E i dati
forniti dal Pam, che nel 2008 ha aiutato a sopravvivere 102 milioni di persone in 78 Paesi, non
lasciano spazio a imbarazzate precisazioni: pur facendoci continuamente vanto di essere tra i
Grandi, siamo retrocessi nel 2009 al 14 ̊ posto tra i Paesi che finanziano la guerra alla fame nel
mondo. Avevamo dato al Pam, l’anno scorso, 101 milioni di dollari: siamo precipitati a 25. Un
quarto.

Mancano solo cinque anni, ormai, alla data fatidica che aveva segnato il vertice Fao del 1996.
Ricordate quel solenne giuramento? «Dimezzeremo entro il 2015 il numero degli affamati ». Erano
allora, gli affamati, 800 milioni. Oggi sono 220 milioni in più: 1,020 miliardi. Un essere umano su
sei. E la crisi che ha messo in grave difficoltà l’Occidente, stando alla denuncia del direttore
generale della Fao, Jacques Diouf, ha determinato in «combinazione letale» con l’impennata dei
prezzi dei prodotti alimentari, un «aumento delle bocche affamate dell’11%».

Solo pochi giorni fa Umberto Bossi ha ripetuto per l’ennesima volta quanto va dicendo da anni: «I
popoli poveri vanno aiutati a casa loro». Giusto.

Ma sono questi numeri la risposta all’invettiva del Papa contro certe «ingiustizie strutturali
non più tollerabili»? Milioni e milioni di persone disperate, ha spiegato l’altro giorno Josette
Sheeran, «hanno soltanto tre scelte: la rivolta, l’emigrazione o la morte».