Ma perché le religioni «scendono in guerra»?

di Brunetto Salvarani
da www.confronti.net

Tempo fa, viaggiando in autostrada nel sud Italia, mi è capitato di incrociare un cartellone con una di quelle scritte che, anni addietro, avevano prodotto una lunga serie di leggende metropolitane sulle oscure motivazioni che le avrebbero ispirate: «Dio c’è!». Un’affermazione perentoria, di innegabile suggestione soprattutto se collocata sullo sfondo di una stagione – pochi decenni fa, in fondo – contrassegnata piuttosto dal sostanziale e generalizzato disinteresse sulle cose religiose. Soprattutto sul loro impatto pubblico, ritenuto di regola pressoché nullo, e scarsamente intrigante per la cultura dominante. I cui slogan andavano dai seri L’eclissi del sacro e La fine della religione (titoli di autentici bestseller alla metà degli anni Sessanta) a quello, scanzonato ma per nulla banale, di un monologo di Woody Allen che recitava: «Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io mi sento troppo bene…», che ci ha tra l’altro fornito lo spunto per il primo numero speciale monografico di Confronti di fine estate. Qualche chilometro più tardi, però, la certezza di una secolarizzazione ormai consolidata mi fu messa a dura prova da un successivo cartello, in cui una mano altrettanto ignota aveva aggiunto in basso, al canonico «Dio c’è!», un interrogativo quanto mai sintomatico, degno figlio di un tempo altro, di religioni tornate in prima pagina e di un sacro selvaggio coniugato rigorosamente al plurale: «Ma quale?». La domanda, ovvio, non è per nulla secondaria. Anzi, è verosimilmente la domanda delle domande: quale Dio c’è oggi?

Quello invocato dal «cristiano rinato» Bush junior per giustificare al mondo benestante la sua guerra «preventiva» e «infinita», quello caro al «musulmano risvegliato» Bin Laden per chiamare le plebi del pianeta a un jihad terroristico e blasfemo, o quello del meticcio Obama che nel discorso inaugurale da presidente ha scelto di sottolineare di essere a capo di «una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e indù, e non credenti»? Quello svenduto a basso prezzo dai mercanti del supermarket del sacro che sfruttano l’ansia postmoderna e il successo della Next Age come un’occasione insperata per produrre ricchezza e intercettare angosce, bisogni e sogni diffusi? Quello certosinamente fotografato dalla sociologia attuale, che parla di una risorta voglia di comunità e d’intimità di gruppo, di sorprendenti protagonisti del religioso quali pellegrini e convertiti, constatando in parallelo la crisi sempre meno reversibile di Chiese e comunità tradizionali? O quello, infine, in nome del quale Giovanni Paolo II e i leader religiosi mondiali hanno pregato a più riprese a partire dal 27 ottobre 1986, divisi ma assieme, ospiti del Poverello d’Assisi, invocando la pace su un pianeta dilaniato e sbigottito? Difficile, forse impossibile, rispondere. Il quadro accidentato che vi è sotteso rimanda, del resto, ad un ulteriore interrogativo, forse ancor più pressante: che spazio c’è per il dialogo, per un rapporto positivo con l’alterità, nel tempo del ritorno della religione sulla scena del villaggio globale e del pluralismo religioso come esperienza diffusa? Se il primo aspetto presenta la sfida a rendere le religioni un fattore di pace e di convivenza positiva nel contesto di una coscienza sempre più planetaria del nostro vivere sulla terra, il secondo rinvia all’esigenza del riconoscimento rispettoso e accogliente della diversità di fedi e culti. Infatti, se di solito le religioni vengono descritte come sentieri di pace, da troppo tempo, in realtà, siamo costretti a constatare il contrario. Gli esempi degli ultimi anni, a farli, si sprecherebbero: dal conflitto infinito nel Vicino Oriente ai cattolici in armi nel Rwanda, dalle guerre balcaniche degli anni Novanta all’islamismo fondamentalista e, talvolta, apertamente terrorista. In ogni via religiosa si danno molti testi e molte tradizioni. Alcuni rappresentano gli esseri umani nei loro momenti più ricchi di speranza, in cui guardano il mondo e sentono la possibilità della bontà. Altri testi, invece, rappresentano gli esseri umani quando hanno più paura, e leggono il mondo partendo dal presupposto di essere soli, sentendo che tutti quanti stanno loro intorno hanno intenzione di ferirli. Del resto, ogni essere umano porta in sé questo conflitto, tra l’elemento di speranza e quello di disperazione. Tutte le tradizioni religiose ce l’hanno…

La generazione che ha attraversato il Vaticano II e i fervori del Sessantotto aveva immaginato, con una certa ingenuità, di non dover più assistere ai conflitti di religione, e invece nessuna fede postmoderna sembra esente dal virus della violenza. Perché accade, e qual è la responsabilità della politica negli orrori compiuti in nome dell’identità di popolo e di credo? Secondo Enzo Pace, sociologo delle religioni che ha riflettuto a lungo su tali dilemmi, si può ipotizzare ci sia un’affinità elettiva fra le politiche d’identità e le religioni. Ed è solo grazie a tale affinità, a suo parere, che è possibile trovare una risposta alla domanda «perché le religioni scendono in guerra?». A questa domanda cruciale, a tentoni, cercheranno di rispondere le pagine che seguono. La questione del rapporto fra le religioni e la violenza appare oggi, in effetti, argomento quanto mai trasversale, che investe il presente e il futuro delle società che abitiamo. E che emerge sempre più come un tema interdisciplinare, che incrocia il piano politico e quello etico ma rivela a ben vedere, in effetti, anche componenti culturali e teologiche di vasto respiro.