“Quella del Trattato di Lisbona non è l’Europa che vogliamo!”, dicono le femministe

di Beatrice Ippolito
da www.womenews.net⋅

Al referendum del 12 giugno 2008, chiamati a dare o meno il proprio assenso alla ratifica governativa del Trattato di Lisbona, il 53.6% degli irlandesi rispose con un clamoroso “NO!”. Di essi la maggioranza erano donne. “Ingrati!”, gridarono indignati e stupiti vari media europei. L’immagine che venne fatta circolare fu quella di un paese animato da fieri sentimenti antieuropei, frutto di egoismo e di ignoranza.

Tra meno di due settimane, il 2 ottobre 2009, la Repubblica d’Irlanda sarà nuovamente chiamata a referendare sul medesimo quesito senza che, nel frattempo, il Trattato sia stato fatto oggetto di una qualche revisione o rettifica che giustifichi il disattendimento di una volontà popolare sgradita ma pur sempre democraticamente espressa.

Perché un nuovo referendum? Ma davvero gli irlandesi sono maggioritariamente euro-scettici? Ed è vero che le irlandesi sono contro l’Europa e ne vogliono star fuori?

Uno dei timori dell’Irlanda Cattolica è che la ratifica del Trattato di Lisbona dia la stura alla liberalizzazione dei servizi abortivi, mettendo fine alla singolarità che fa dell’Irlanda forse l’unico paese nell’EU dove l’aborto è bandito come crimine e come peccato. Considerata la maggioranza cattolica, le donne irlandesi, sono dunque, per lo più, antiabortiste?

Le femministe dublinesi dell’Open Feminist Forum, riunitesi al Buswell Hotel la settimana scorsa per discutere sulla questione referendaria, hanno concluso i lavori con un appello a dire nuovamente “No!”.
Anti-Europa anche loro?

Non proprio, visto che tutte le intervenute hanno tenuto a sottolineare, in apertura di discorso, la propria appartenenza all’Europa.
E Pro-Europa si dichiarano anche diverse personalità del mondo politico e accademico irlandese, come ad esempio Mary Lou McDonald, la deputata irlandese dello Sinn Fein, Patricia McKenna, la parlamentare europea dei verdi ora People’s Movement – Movimento dei Popoli, Ailbhe Smith, scrittrice, femminista, direttora del WERRC (Centro ricerche e risorse educative per/delle donne di UCD, ora Dipartimento di Women’ s Studies della Scuola di Social Justice di UCD ) e altre.

“Non si tratta di dire “No” all’Europa.”, – dicono. “Si tratta di dire “No” a un trattato che pone al centro degli interessi europei, non le persone, ma il mercato.”.

Tra gli articoli del Trattato, quello più contestato è l’Art. 14 che legalizza la “crescente liberalizzazione dei servizi di interesse economico generale.”. I servizi di interesse economico generale sono, per intendersi, gli ospedali, le scuole, i trasporti, le telecomunicazioni, l’acqua, la luce, il gas e tutto quanto non ancora privatizzato nel servizio pubblico generale.

Ciò che sta a cuore all’Europa del Trattato, sostengono i comitati per il “No” in particolare il capitolo intitolato Public Services &Economic Issues è il libero mercato e la libera concorrenza che ne è il principio ispiratore. Il principio è ribadito nell’Art 105 TFEU che si pone come fine la realizzazione di “…an open market economy with free competition ..” – una economia di mercato aperto alla libera concorrenza –.

L’interesse è così prioritario che il Protocollo n.6 del Trattato si preoccupa di garantire che “… the intended market as set out in Articles [1 -3] … includes a system ensuring that competition is not distorted.” – detto mercato come stabilito negli articoli da 1 a 3 … preveda un sistema che garantisca che la concorrenza non abbia a subire distorsioni. -.

In ottemperanza a tale principio, “… essential public services such as water and sanitation, public transport, energy, post and telecoms…” – servizi pubblici essenziali come acqua, sanità, trasporti pubblici, energia, servizi postali e di telecomunicazioni – potrebbero, pertanto, venire rinegoziati come “economic activities” – attività economiche – “suitable for trade” – passibili di commercializzazione.

“Attività economica”, la Corte di Giustizia Europea stabilisce che sia qualsiasi servizio che abbia “…the essential characteristic ..” – la caratteristica essenziale – “…that it must be provided for remuneration…” – di essere fornito a fronte di prezzo pagato…”.
E a pagarlo non è necessario che siano gli utilizzatori finali, chiarisce la Commissione Europea in una Dichiarazione fatta in novembre 2007. In altr parole, gli stati nazionali avrebbero la facoltà di subappaltare i servizi a società private. (I dati sono tratti dal capitolo Creeping Privatization sempre dal sito www.sayno.ie, cui si rimanda per approfondimenti.) In Italia già accade. Si pensi ai servizi postali, alle ditte di rimozione dei rifiuti, ecc.

Ora, dicono le femministe dublinesi del Forum nel loro foglietto informativo,, “… the majority of those working in public services are women …” – quelli che operano nel settore del pubblico impiego sono in maggioranza donne. -. Son le donne, più che gli uomini, che si rivolgono ai servizi pubblici per cure mediche, esami, gravidanza; sono donne, più che uomini, quelle che si occupano dei servizi di cura ai minori, ai malati, agli anziani; sono donne, più che uomini, quelle che operano nei settori educativi, donne quelle che maggiormente affollano i mezzi di trasporto pubblico.

Le donne irlandesi sanno già cosa significano i tagli ai contributi familiari per i minori in età prescolare o disabili; le donne irlandesi che lottano nei comitati per la casa sanno cosa han voluto dire gli ulteriori tagli ai fondi per la riqualificazione dei quartieri popolari attesi ormai da decenni. E “..Lisbon, which deepens the very policies that have caused the economic crisis, would make the bad situation worse.” – (il (trattato di ) Lisbona che accentua le politiche che hanno portato alla crisi economica, è probabile che renda la già cattiva situazione ancor peggiore. – perché per stare ai dettami del Patto di Stabilità come ribadito nell’Art 136, i governi non faranno che effetture tagli alla spesa pubblica privatizzandone i servizi e facendone ricadere i costi sui lavoratori e in particolare sulle donne.

Quanto alla Carta dei Diritti Fondamentali, è vero, il Trattato li fa suoi ma senza ampliare la gamma dei diritti da difendere e anzi erodendoli di fatto con l’introduzione di numerose eccezioni. E quel che è peggio è che il Trattato tace sui diritti riproduttivi e sessuali; tace sul diritto alla libertà femminile; tace sulla violenza contro le donne; tace sui servizi a sostegno della maternità e dell’infanzia.

Le femministe irlandesi temono anzi che la Corte di Giustizia Europea deponga a favore del mercato e contro i diritti delle donne come ha già fatto con i diritti dei lavoratori sacrificati al diritto delle aziende di non essere danneggiate dalla concorrenza. (caso Vaxholm, caso delle navi traghetto finlandesi, caso dell’azienda italiana Irem che aveva preferito contrattare tecnici italiani specializzati i cui salari più convenienti per l’azienda, innescando una competizione dai risvolti xenofobi)

Altri punti dolenti sono la militarizzazione dell’Europa, la creazione dei “Battle groups” – contingenti militari di combattimento – ,il rafforzamento dei rapporti con la NATO, l’aumento delle spese militari. Di contro, sostengono, gli impegni reali per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici risultano assai fiacchi.

Ce n’è abbastanza, insomma, per dire “No” a Lisbona un’altra volta.