«La visione di Obama di una pace globale in Medio Oriente si sgretola»

di Agnes Rotivel
da «La Croix» (Traduzione di Paola Robino Rizet per Osservatorio Iraq)

Rashid Khalidi è uno storico, titolare della cattedra Edward-Said alla Columbia University e direttore del centro di studi sul Medio Oriente. L’accademico americano di origine palestinese ritiene che la nuova amministrazione ha compiuto un errore strategico focalizzandosi sulla colonizzazione israeliana nei Territori palestinesi.

Il negoziatore americano George Mitchell è da domenica in Medio Oriente. Da mesi, l’amministrazione Obama tenta di ottenere il congelamento delle colonie. Riuscirà nel suo intento?
Rashid Khalidi: non credo che il governo israeliano interromperà il processo di colonizzazione. Ha annunciato che continuerà ad erigere nuove costruzioni a Gerusalemme Est e nelle colonie della Cisgiordania. Prima ancora dell’arrivo in Israele di George Mitchell il governo di Benyamin Netanyahou era deciso a continuare su questa strada. La maggioranza dei partiti della coalizione di governo è persuasa della necessità della colonizzazione.

Il governo americano ha adottato una buona strategia?
E’ stato un errore concentrare tutti gli sforzi sulla colonizzazione, senza mettere l’accento su altri punti, quali la fine dell’occupazione, la rimozione dei blocchi e dei check point. In questa maniera, gli israeliani non metteranno tutte le loro energie per impegnarsi contro la richiesta di Obama. Bisogna riconoscere che l’ascesa al potere di una nuova coalizione orientata molto più a destra che in passato ha complicato il compito di Obama. Solo la caduta del governo di Netanyahou consentirebbe di ottenere il congelamento delle colonie.

Il presidente Obama ha compreso il suo errore ?
Se il presidente e George Mitchell cedono proprio adesso sulla colonizzazione, Benyamin Netanyahou e la destra israeliana avranno vinto, fatto non positivo per l’immagine degli Stati Uniti. Al contempo, se Obama intende rilanciare i negoziati è necessario che intensifichi la pressione sugli israeliani. Può farlo.

Come ?
Esistono diverse opzioni. Gli Usa potrebbero riconoscere, per esempio, uno Stato palestinese dotato per due anni di frontiere provvisorie, in attesa di una soluzione definitiva. Oppure potrebbero dichiarare apertamente che se le due parti non giungeranno ad un accordo entro una data precisa, la questione sarà presentata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Bisogna assolutamente intensificare gli sforzi su questa questione.

L’equipe di Barack Obama è più obiettiva sulla questione di quella di George W. Bush ?
Il processo di nomina in seno all’amministrazione è complesso e interminabile. Molti posti sono ancora vacanti. Al dipartimento di Stato, per esempio, la squadra non è ancora al completo. L’amministrazione conta al suo interno membri pro-Israele. Quali Dennis Ross, membro del Consiglio nazionale di sicurezza, incaricato delle questioni di sicurezza presso la Casa Bianca, e il segretario di Stato Hillary Clinton. Tuttavia, non bisogna dimenticare che ciò che conta nel sistema americano è la volontà del presidente.

Lei è amico di Barack Obama. Il presidente è sempre convinto della necessità di giungere ad una soluzione del conflitto israelo-palestinese?
Non sono più in contatto con Obama da diverso tempo ormai. Ma so che è consapevole che l’ottusa politica americana condotta da Bush in questi ultimi anni nei confronti di Israele e della Palestina ha fallito. Ha avuto conseguenze negative per l’immagine degli Stati Uniti e ha nuociuto ai suoi interessi. Che il nuovo presidente abbia assunto questo impegno fin dal primo anno del suo mandato è la prova che, per lui, è importante. Ha, dunque, le chiavi di una soluzione? Non lo so.

I palestinesi sono divisi tra Hamas e Fatah. Lo sono anche sulla visione di un futuro Stato per il loro popolo?
Non hanno una visione comune. Favorevole ad una soluzione a due Stati è Fatah di Mahmoud Abbas, che non ha una strategia chiara per i negoziati. Stessa cosa vale per Hamas. Mentre nel 1987 era contraria all’idea della creazione di due Stati, oggi è favorevole. Se Washington riuscirà a portare gli israeliani al tavolo dei negoziati, i palestinesi dovranno anch’essi presentarsi con un piano. Le divisioni fra palestinesi sono state sfruttate e aggravate dalla politica americana, da quella dell’Iran e dalle grandi potenze. Questo deve cessare. Ecco perché un negoziato Usa-Iran è importante, non solo per quel che concerne la questione nucleare. Una distensione avrebbe un effetto positivo sull’arena palestinese.

Barack Obama ha sempre detto che la risoluzione del conflitto israelo-palestinese passa per una soluzione di pace globale, vale a dire la pace con l’Iran, la Siria e gli attori regionali. Questa visione è sempre attuale?
La visione di Obama di una pace globale in Medio Oriente si sgretola, si disgrega a causa della incredibile pressione di Israele e dei suoi sostenitori in seno alla destra americana e, infine, a causa regime iraniano. Su questo punto, l’amministrazione Obama ha arretrato, fatto che ha contribuito a peggiorare le relazioni con la Siria. Se ne vedono gli effetti collaterali in Libano dove il primo ministro non riesce a formare il suo governo, ma anche a Bagdad dove le tensioni con Damasco sono molto forti. Questo panorama non è molto incoraggiante. Ma la visione che Obama aveva presentato nel suo discorso all’università del Cairo lo scorso 4 giugno è assolutamente necessaria per cambiare le relazioni degli Stati Uniti nella regione.