Il Muro, i muri. Il 1989 vent’anni dopo

di Angelo d’Orsi
da www.micromega.net

Il mondo celebra il 1989, a vent’anni di distanza dalla caduta del Muro. Le celebrazioni, si sa, sono per loro natura acritica, tendenti all’enfasi, e soprattutto a dimenticare i contesti, a offuscare i problemi, a mettere la sordina alle voci dubbiose, quando non, addirittura, a schiacciare nell’angolo dei refrattari impenitenti quanti non condividano l’ottica appunto della mera celebrazione.

È accaduto, all’inizio dell’anno, con il Futurismo, rispetto a cui si è operata una incredibile rimozione della sua ideologia politica, nazionalista, bellicista e imperialista; sta accadendo ora, come del resto era facile prevedere, con il ventennale dei fatti di Berlino, quella sera del 9 novembre 1989, allorquando il portavoce del governo della DDR, che aveva annunciato l’apertura della frontiera verso Berlino Ovest, a seguito di una domanda di un giornalista (italiano, dell’Ansa), che chiedeva da quando, rispose “da subito”. Fu allora che una marea umana si diresse verso i check point, e il Muro fu virtualmente abolito quella sera stessa.

Che sia stato un momento eccezionale di gioia, anzi di autentica felicità, per i berlinesi, e subito dopo, per tutti coloro che vivevano come reclusi nel sistema sovietico – che intanto si stava sgretolando –, è fuor di dubbio. Ma fu vera gloria? O, se si vuole, fino a che punto quella gioia, dietro la quale c’era un’ansia di liberazione, una speranza di progresso, un bisogno di pace vera, fu seguita da concreti risultati?

Norberto Bobbio, ancora prima del 9 novembre, a seguito dei fatti cinesi di Piazza Tien an Men, constatando l’evidente crisi del “socialismo reale”, appellò “stolti” coloro che si fregavano le mani per il fallimento della Falce e Martello: un fallimento sostanziale, che tuttavia, non significava, notava il filosofo torinese, la vittoria del capitalismo. O meglio era una vittoria che lasciava inesauste le ansie dei ceti subalterni: chi, fallito il socialismo, avrebbe dato una risposta alle esigenze di liberazione dalla miseria, dall’ingiustizia, dall’oppressione che erano fino ad allora in qualche modo state assunte dal movimento socialista e comunista? Insomma: nel “biennio rivoluzionario” 1989-1991 (fu a fine di quell’anno che si sciolse l’URSS), il socialismo fu sconfitto, ma il capitalismo non aveva vinto.

E la prima, più drastica e immediata conseguenza fu lo squilibrio sul piano internazionale. Al sistema bipolare seguì l’instaurazione di un monopolio pauroso, e produttivo di una serie di guerre senza fine, che sono ancora il basso continuo del nostro presente. Guerre di tipo nuovo: guerre ineguali, asimmetriche, “post-eroiche”, guerre ai civili, prima che agli eserciti, alle infrastrutture prima che alle strutture militari, al territorio e all’ambiente. Guerre in cui uno dei due contendenti – quello che era contro l’iperpotenza americana, o meglio quello che gli Stati Uniti individuavano come nemico – non aveva possibilità di vincere.

Il venir meno di uno dei due attori che si bilanciavano, ora minacciose, ora solo guardinghe, provocò la crisi del “Terzo”, ossia l’ONU, che vide il suo ruolo ridotto a quello di un notaio di decisioni che erano assunte dal governo degli Stati Uniti o dalla NATO. E intanto, anche a seguito della scomparsa, sul piano ideologico, del socialismo e del comunismo come contraltari all’esaltazione entusiastica del Liberalismo iper-liberista, che faceva del Mercato il nuovo Dio in Terra, il capitalismo si sfrenò rivelando tutti i suoi tratti più predatori, insofferenti di regole e di limiti. Il divario tra il Nord e il Sud del mondo divenne stratosferico, ma si incrementarono le distanze tra i ricchi (sempre più ricchi e sempre meno numerosi) e i poveri (sempre più poveri e sempre più numerosi) anche all’interno delle nostre società “democratiche”.

E la democrazia accelerò in modo drastico un processo già avviato di erosione interna, che nel corso dei due decenni alle nostre spalle ha trasformato radicalmente il sistema liberale, creando forme di leaderismo all’insegna di un neopopulismo mediatico, in cui la televisione conta assai più delle istituzioni, il pubblico si confonde con il privato, e si riducono via via gli spazi di agibilità per le opposizioni, si instaura un controllo sempre più ferreo sull’informazione, si tenta la subordinazione della magistratura all’esecutivo.

E tutto questo, in una deprimente rinuncia del ceto intellettuale a svolgere il suo ruolo critico: tacciono, gli intellettuali, del nostro mondo post-’89, quando dovrebbero parlare, oppure parlano, ossequienti al potere, o ridotti a intrattenitori di un’opinione pubblica sempre più conformata da un senso comune che ha accettato la sostituzione del “consumatore” al “cittadino”. Paradossalmente, mentre le democrazie diventavano senza democrazia, o con un tasso di democrazia sempre più scarso, pretendevano di esportare il loro modello altrove; magari sulla punta dei missili.

Insomma, le speranze di quella notte del 9 novembre del 1989 sono andate largamente deluse, e il mondo è più insicuro, meno libero e seduto sull’orlo di un abisso che rischia di inghiottirci tutti. Ecco, sia pure in sintesi, quello che diffusamente ho tentato di argomentare in un libro (1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio) subito stroncato dal “Sole 24 ore” e dal “Giornale”: due piccole medaglie al merito, per me.

Ecco, se si condivide all’ingrosso, questa analisi, cosa si può obiettare davanti alle eccitate celebrazioni del ventennale, senza rimpianti né nostalgie per il Muro e un sistema illiberale, ma senza fingere che quel che si è costruito da allora sia il mondo delle “magnifiche sorti e progressive”.

Non senza aggiungere che mentre si festeggia un Muro caduto, si assiste impotenti o si accettano ossequienti gli altri muri che si sono eretti e si erigono ogni giorno: dal muro costruito dagli israeliani in Palestina ai muri che circondano gli immigrati in quei lager che chiamiamo Centri di prima accoglienza (ed espulsione…), ai muri metaforici che dividono, separano, contrappongono “noi” agli “altri”, grazie a politiche sciagurate, imposte o accolte dalla “pubblica opinione”, non resa vigile dal lavoro che gli intellettuali dovrebbero svolgere di risvegliatori di coscienze e seminatori di dubbio.

Insomma, ricordare e meditare è buona cosa, anzi ottima; celebrare in modo retorico e acritico, lo è assai meno, e può essere persino negativo, se si vogliono apprendere le lezioni della Storia.

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Vent’anni dopo

di Piero Stefani
in “Koinonia-Forum” n. 171

Per ricordare il crollo del comunismo ci sia lecito percorrere, sia pure ingenuamente, un largo tratto del pensiero occidentale, confrontando tra loro Kant, Hegel e Marx. Verso la fine della sua vita, Kant scrive un piccolo trattato dal titolo ambizioso: Per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità di tregue prolungate che possano garantire una tranquilla convivenza tra gli stati: esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione permanente per tutta l’umanità. Il libretto non ha l’andamento del sogno, al contrario assume piuttosto la veste di progetto, fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza.

Esse sono presentate come idee razionali e non già come fantasie, per questo possono diventare un modello. Nelle ultime righe dell’opera Kant scrive: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico [vale a dire a
ttuare le condizioni che consentono di stabilire un effettivo diritto internazionale], anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota». Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. Proprio l’aver rinunciato a un definitivo congiungimento evidenzia il carattere laico e progettuale del pensare di Kant.

A molti pensatori del XIX sec., a cominciare da Hegel, questo modo di procedere non sembrò né razionale, né realistico e l’idea apparve davvero vuota. Il punto di incontro tra l’agire umano e quanto accade perché deve accadere non è la speranza: è la storia. Il grande bacino di raccolta di tutte le acque lo si trova lì. I rivoli delle azioni di individui, collettività e stati scorrono inevitabilmente verso il mare della storia che li rimescola facendone un tutt’uno. Ogni fiume perde la propria specificità per realizzare la sua destinazione più autentica: fornire il proprio contributo perché si realizzi l’immensa e unitaria distesa delle acque. Nella sua accezione più autentica il termine «storia» va sempre coniugato al singolare.

Tenendo conto di ciò il pensoso sguardo di Hegel si rivolse dunque al presente e al passato (dal mare ai fiumi), non al futuro. I confini del mare non si possono tracciare, né conoscere in modo preventivo. La filosofia non può prevedere, il suo compito è di comprendere il presente e il passato. Assieme allo slancio utopico, in tal modo è riposto nel cassetto anche ogni senso forte legato al dover essere. Possiamo avere grandi ideali, ma essi da soli non ci garantiscono che diverranno realtà. A darci ragione deve essere in primis la storia.

Tuttavia è regola aurea affermare che la storia ci dà ragione solo se noi diamo ragione ad essa. Nel corso dell’Ottocento a qualcuno parve che la meta ultima della storia, più che come pace perpetua fondata su un diritto internazionale, dovesse essere pensata come l’avvento di una società giusta. È vano parlare di pace là dove vi sono ricchi che sono tali in virtù del loro sistematico sfruttamento del lavoro dei poveri. È ingannevole prospettare un’uguaglianza formale di diritti politici là dove la disuguaglianza sociale celebra i propri trionfi. L’affermarsi di una società giusta e ugualitaria va spogliata dall’aspetto, insoddisfacente, di tangenza all’infinito.

Quell’esito doveva essere fondato solidamente sulla storia, la quale era dalla nostra parte appunto perché noi siamo dalla sua. Marx e il socialismo furono le punte di diamante di questa maniera di pensare e di agire. Molte e non lievi furono le differenze di intendere i modi in cui la storia avrebbe confermato quella prospettiva. Per alcuni l’esito era a tal punto iscritto nell’ordine delle cose che bastava attendere che il sistema capitalista crollasse a motivo delle sue insanabili contraddizioni interne; per altri occorreva passare attraverso le doglie di una rivoluzione violenta. Per tutti la storia avrebbe comunque dato ragione a loro e torto agli altri. Milioni di persone hanno ritenuto che davanti a loro splendesse realmente il bel sol dell’avvenire. Per questo hanno vissuto e combattuto.

Nel XX sec. alcuni stati hanno sperimentato quello che si è definito il socialismo reale. Il potere è passato in quelle mani, ma la società giusta non si è realizzata. Per un certo periodo si è detto che si trattava di un’epoca di transizione e che a poco a poco le società socialiste avrebbero dimostrato la loro solidità e la loro superiorità storica. L’avvenire era ancora da quella parte. Verso lo scadere del secolo contraddizioni insanabili e collassi interni hanno travolto i sistemi socialisti e non quello capitalista. Il socialismo reale è crollato: la storia gli ha dato torto. Con esso sembra definitivamente tramontata anche la prospettiva di poter conseguire una società giusta.

Tuttavia poiché il nesso tra giustizia e pace appare ancora inscritto nell’ordine delle cose, la mancanza del primo termine comporta anche quella del secondo: a essere perpetua è la guerra, non la pace. Qualcuno però ancora si interroga se davvero la nascita, lo sviluppo e la scomparsa del socialismo reale abbiano costituito la fine senza rimedio di ogni speranza di conseguire una società giusta. A questa domanda si può rispondere in modo affermativo, aggiungendo però che ciò vale per quel tanto in cui il socialismo si è appoggiato sulla storia ed ha affidato a essa il compito dell’ultima conferma. Chi crede di avere ragione dalla storia non ha scampo quando essa gli dà invece torto. L’ideale è crollato per quel tanto che si è voluto presentare come reale.

Il nesso tra pace e giustizia e la volontà di non rassegnarsi a società profondamente e strutturalmente ingiuste è tuttora il fronte su cui si misura una politica alta, degna di questo nome. Si tratta, ai nostri giorni, di merce rarissima. È tale anche perché a essa è precluso di operare secondo i termini otto-novecenteschi di storia, progresso, sviluppo, crescita. La politica internazionale deve assumersi a pieno titolo un compito inedito per le passate generazioni umane e alieno alla mentalità sia capitalistica sia socialista: salvaguardare, per quel che è ancora possibile, le condizioni nelle quali la terra possa essere un habitat confacente alla specie umana. Su questo fronte Hegel e Marx non hanno nulla da dirci; altro è il discorso per il significato del limite perno su cui ruota il pensiero kantiano.