Communitas e mutazione antropologica, dal ‘68 all’era berlusconiana

di Maria Teresa Gavazza
da www.adistaonline.it

Dopo una permanenza a Vicenza, ho voluto condurre una riflessione sull’esperienza del movimento No dal Molin contro la base americana, spinta dalla curiosità di storica militante e convinta del senso profondo di Historia magistra vitae. Vi sono caratteri spontanei ed esistenziali, forse prepolitici, come ad esempio la resistenza morale contro l’ingiu-stizia e il sopruso del potere: i vicentini fanno una scelta di libertà, rifiutano di ubbidire; il loro comportamento è prepolitico nel senso che non è partitico e non è ideologico. È pluralista, è meticcio: dal catto‑comunista al no global, dal militante del centro sociale all’ex leghista, ecc.

Tutti gustano la felicità pubblica. Rovesciano vite borghesi, tranquilli menages di casalinghe. Perché?

Seguono un istinto di sopravvivenza. È amore per Vicenza, per la loro terra. Ma non basta. Il loro impulso li spinge ad andare oltre, a vedere la globalità, la madre terra. “Senza padri né maestri”, percorrono un cammino che li porta a ricostruire un nuovo sapere, coniugato alle radici dell’Italia migliore. I germi della democrazia antifascista, il vivere civile rispettoso e laborioso del Nord Est diventano il loro specchio.

Sono insegnanti, ceto medio impiegatizio, commercianti, artigiani, pensionati, precari, gente comune che non sopporta l’autoritarismo e rifiuta l’imposizione di una legge ingiusta: difendono un’etica nemica della sopraffazione autoritaria.

Ci sono anche militanti di di associazioni, di organizzazioni di volontariato, di reti antagoniste, ma al No dal Molin si lasciano da parte le polemiche ideologiche, le vecchie divisioni, per lavorare nel concreto, giorno dopo giorno.

È un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale? Potrà forse diventare quell’embrione post novecentesco che sostituirà la vecchia politica, ma è presto per dirlo. Non devono farsi vampirizzare, devono mantenere autonomia e indipendenza: mi sembra che siano determinati a difendere la loro libertà.

Li rende forti la communitas, l’enclave ben salda in cui si sono radicati; l’uso del dialetto veneto con notazioni tradizionali ed autoironiche è il segno di radici profonde.

I resistenti, come si proclamano, ribadiscono il concetto di disubbidienza alla legge e all’autorità.

Leggo sui manifesti: “Ho occupato la Prefettura e lo rifarei”. È uno dei tanti episodi nonviolenti di conflitto in un popolo tradizionalmente moderato, educato al rispetto dell’autorità civile, religiosa e politica. Altra forma di resistenza è il digiuno dei pacifisti, tra cui don Albino Bizzotto (Beati i costruttori di pace).

Viene spontaneo confrontare questo movimento con l’interpretazione storiografica della soggettività e dello spontaneismo esistenziale nella Resistenza e con il ribellismo generazionale del ’68. L’esperienza dei movimenti, allora come oggi, pone al centro l’immagine del soggettivo, della storia delle donne e di genere, delle vicende che intrecciano pubblico e privato, passioni e sentimenti: come nel ’68, vi sono nuclei di donne resistenti e di giovani combattive che danno una prospettiva nuova alla lotta. Ne offrono un esempio le cinque militanti che il 19 settembre 2009 sono entrate nel Dal Molin e hanno piantato una bandiera nel parco della pace, decise, come ha sottolineato il movimento in un comunicato, “a fare ‘piazza pulita’ di bugie e menzogne e a prendersi cura del Parco della Pace, firmandosi con rigogliosa bandiera”. Il loro motto, urlato anche nei cortei, è: “Divieto alla guerra, non alla democrazia”.

Se la banda partigiana e l’assemblea studentesca vennero intese come “microcosmo di democrazia”, così la comunità No dal Molin, il No Tav ed altre esperienze di movimento rappresentano il contaminarsi di pubblico e privato, esprimono una partecipazione totalizzante che lascia tracce fisiche concrete. La stanchezza di un impegno senza limiti si unisce alla gioia dello stare insieme, degli affetti e delle relazioni. Come nel ’68, e nel 1943‑45, nasce una figura di militante inedita, impegnata a tempo pieno nella polis.

Ho ascoltato nelle parole dei più anziani il ricordo delle lotte operaie, la nascita dello Statuto dei lavoratori e i diritti conquistati ora in procinto di essere perduti.

Mi sono ritrovata a Torino, a Palazzo Campana, giovane donna spinta da ideali rivoluzionari e desiderosa di libertà appena assaporate. La rottura del movimento studentesco si innestava allora in una realtà comunitaria, non diversa dalla banda partigiana, ed ora ripetuta in un fazzoletto di terra, divenuto luogo di comunione fraterna e di educazione antagonista.

La definizione di Resistenza qui citata ben corrisponde allo stato d’animo sessantottino, ricreatosi poi nel movimento pacifista veneto: “[la Resistenza] fu una stagione di totale dissipazione di se stessi. Fu come se, nella loro vicenda biografica, quell’appuntamento con la storia segnasse l’attimo in cui sono attivate anche le proprie energie più riposte, con una felice e immediata coincidenza tra emozioni, sentimenti, volontà, decisioni e azioni (…). A questo slancio vitale si accompagnava il senso dell’occasione storica, di vivere una fase assolutamente irripetibile, in cui tutto era possibile, anche una scommessa sul mondo, una resa dei conti con tutto quanto di sbagliato, corrotto, ingiusto il fascismo aveva fatto affiorare nel costume nazionale (…). Nasceva qui la concezione della politica come azione, un’azio-ne improntata più che a una dottrina o a una concezione del mondo, proprio a questa scelta etica ed esistenziale” (G. De Luna, M. Revelli, Fascismo antifascismo. Le idee, le identità, Fi, La Nuova Italia, 1995, p. 111).

La democrazia diretta e l’assemblea diventano strumenti di partecipazione nella Resistenza, nel pieno della contestazione sessantottina e negli incontri quotidiani nella base di Vicenza, dove la prassi del coinvolgimento e della consultazione di tutti è il pane quotidiano. Viene usato anche il metodo del referendum cittadino, come avvenne nel corso delle prime occupazioni dell’università.

La solidarietà di gruppo nella comunità si estende ai centri limitrofi, come Padova, Verona e Venezia, cementando legami affettivi e di lotta duraturi nel tempo (la lotta contro la base dura ormai da tre anni).

Il senso di appartenenza, il coraggio di mettersi in gioco e la disponibilità a pagare di persona si esprimono in tutti e tre i momenti storici. Come allora, la lotta è l’occasione per discutere del rapporto tra la democrazia partecipata e la politica tradizionale dei partiti, anche di sinistra.

È l’esperienza dell’autogoverno in sé che diventa l’humus per scelte soggettive di tipo civile ed etico: l’autonomia è il risultato di una scelta individuale, dettata dalla coscienza del militante, spesso motivata soltanto da una ribellione morale da cui partire per creare organizzazione politica e nuova lotta.

Nel ’68 si crea a poco a poco il concetto antropologico di uomo inedito che troverà nel testo di Ernesto Balducci, L’uomo planetario (1989), la sistematizzazione teorica e profetica del messaggio sessantottino.

Molto ci sarebbe da scrivere sui limiti della democrazia, a partire dalle forme di autogoverno resistenziali fino alle assemblee del movimento studentesco e poi ai movimenti antagonisti del terzo millennio. Il sistema rappresentativo nato nell’Italia repubblicana si è man mano mostrato insufficiente a dare la parola ai cittadini.

Le critiche rivolte alla gestione politica ed amministrativa della società erano già ben definite nel corso di un seminario svoltosi a Torino nel lontano 1969. Riporto un passo del manifesto di convocazione: “la democrazia quale di fatto si è attuata nel mondo contemporaneo non riesce dunque a debellare attraverso efficaci procedure di controllo dal basso il proprio principale nemico, l’autoritarismo, e per questa s
tessa ragione non è in grado di salvaguardare la pace dalla spinta aggressiva della politica di potenza che è l’altra faccia del potere oligarchico” (G. Quazza, Prefazione a Società e potere in Italia e nel mondo, To, Giappichelli, 1970, p. IX)

Una vera democrazia partecipata, non passiva, potrebbe ridare voce ai cittadini. Tale processo non può avvenire senza informare, mobilitare, suscitare iniziative dal basso e dare vita a forme di lotta nonviolenta. Non fuori dalle istituzioni, ma dall’interno e con la pressione dei movimenti.

L’elezione di Cinzia Bottene, una dei leader del No Dal Molin, nel consiglio comunale di Vicenza rappresenta il concreto tentativo di incidere sugli strumenti rappresentativi, senza cedere al compromesso e alla fatica di una resistenza di lunga durata.

Emblematico è il motto dei resistenti: “Cinque minuti in più di loro!”, ovvero rimarremo vigili e antagonisti più a lungo del potere, qualunque esso sia.