Sul merito e sul metodo dell’atto della corte di Strasburgo

di Mario Campli
da www.cdbitalia.it

Leggo dai quotidiani che nella conferenza stampa tenuta ad Assisi, giovedì 12 novembre, il cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato che quello della Corte europea è stato un “pronunciamento surreale” ed ha poi invitato l’Europa a “fare una riflessione sul merito e sul metodo di un provvedimento che va contro la cultura e l’identità europea”.

Di questo ‘Atto’ della Corte di Strasburgo, è stato detto molto, da molti. Per lo più con toni e con una sostanza (mi si passi l’abuso del temine: spesso di “sostanza” ce n’era ben poca) di stizzosa sufficienza.

In generale – mettendosi ad una ‘giusta distanza’ dalla nuvola di dichiarazioni, sberleffi (qualche cardinale ha usato anche questo approccio), critiche e “minacce” (quella di inviare milioni di crocifissi alla Corte e a tutte le scuole europee) – mi è parso che sia mancata una pur minima ma doverosa spiegazione dei “termini della questione”. In parole semplici: perché i membri della Corte si sono pronunciati?… per diletto?… per far mostra di bravura giurisprudenziale?… perché “in-europa-non-hanno-niente-da-fare-tutto-il-giorno?… Non sono domande soltanto ironiche, sono anche serie: legittimate dall’uso dell’aggettivo “surreale”(vedi nota 1). Chiedo, sommessamente: i cardinali hanno avuto il tempo di leggersi la Sentenza? E dare uno sguardo anche ai Trattati dell’Unione Europea (una bagattella da niente)?

1. Il pronunciamento: “A l’origine de l’affaire se trouve”. Comincia così, signor cardinale la lettura del testo! All’origine ci sono delle persone: una madre (signora Soile Lauti) e due figli (Dataico e Sami). Hanno esercitato un loro “diritto” (le virgolette sono d’obbligo): hanno adito la Corte il 27 luglio 2006, dirigendosi contestualmente “contro” La Repubblica italiana, membro della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Corte, prima ha esaminato (in contraddittorio ovviamente con le “memorie” depositate dagli avvocati che rappresentavano la Repubblica italiana!), in lungo e largo tutti i vari pronunciamenti precedentemente emanati (persino le circolari) anche da organismi istituzionali della Repubblica, su ricorsi direttamente o indirettamente collegati alla istanza di cui all’origine e poi si è pronunciata sulla sua ricevibilità. Una volta esaurita questa parte preliminare, la Corte è entrata nel merito della istanza. Lo ha fatto utilizzando gli strumenti “normali” e “ordinari”, che si usano in questi casi.

2. Il metodo: chiedere all’Europa (chi?) una riflessione sul metodo, che significa?… Una richiesta di “lasciare cadere” le istanze dei cittadini? Un incitamento a venir meno agli obblighi istituzionali? Riempire i cassetti di richieste inopportune? Cestinare quelle dei non-potenti? Non capisco.

3. Il merito: la richiesta di una riflessione sul merito, poi, è ancora più problematica. Non essendomi chiaro a quale istanza istituzionale si rivolgesse il cardinale (“Europa”, chi?), continuo a ritenere che sia la Corte. E, allora, cosa si vuole da una Corte, un pronunciamento teologico?… Una volta gli Imperatori si pronunciavano sulla “natura” delle persone della Trinità! A leggere la molto più umile Sentenza di Strasburgo, si vede con chiarezza che i giudici fanno di tutto per restare sul proprio terreno. E quale è questo terreno? O, meglio, cosa è diventato(un campo quasi quotidiano di scontro politico)?

La madre dice: il crocifisso è simbolo religioso; su tale questione lo Stato deve essere incompetente e neutrale; la responsabilità su questo terreno è mia; e, quando cresceranno, sarà totalmente e individualmente di Dataico e Sami.

Il Governo nella sua memoria sostiene che “il crocifisso è un simbolo religioso, ma può rappresentare ugualmente altri valori”. La Corte europea, dopo aver ascoltato tutte le argomentazioni ritiene che “ il crocifisso ha una pluralità di significati tra i quali quello religioso è predominante”. Allora cosa dobbiamo concludere? Stando ai fatti, questa è la situazione: una madre atea dice che il crocifisso è un simbolo religioso; un governo (che non ha religione) dice che è religioso, ma anche con altri significati; la Corte dice che ha molti significati, tra i quali quello religioso è preponderante.

Il cardinale (che mi pare riassuma qui tutta una concezione molto diffusa proprio negli ambienti della chiesa cattolica e gerarchica ufficiale) dice: cari giudici, riflettete sulla cultura e sulla identità europea! Ci sarebbe da chiedersi chi tra questi sia “più vicino” al Gesù crocifisso. Cosa dobbiamo capire dal richiamo di un vescovo: che all’inizio della Costituzione europea doveva esserci il richiamo esplicito alle radici cristiane, ma quando si guardano i suoi simboli essi non appartengono più a quelle radici?

Ma (ed è una accorata domanda che si pone un cristiano-cattolico!) in che groviglio di contraddizioni si sono messi questi “maestri”: pur di imporre a trecentosessantagradi, (anche a chi non è credente –cristiano-cattolico) simboli e radici di una religione, la propria (volta a volta fatta coincidere: con il diritto naturale, con la ragione, con la ragionevolezza, con l’identità occidentale, e via via elencando) copre di un velo pietoso/politico proprio lui: Cristo? Perché? Quale spirito “missionario” c’è in tutto questo? Uno spirito di dominio!? E dove sta la buona-notizia, cioè l’evangelo: parola che libera? La promozione culturale è la nuova forma di evangelizzazione?

Mi torma in mente una lettera di un prete ad un giovane comunista: “ il giorno che avremo sfondata la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidare di me, quel giorno ti tradirò. Quel giorno io non resterò con te. Io tornerò nella tua casuccia puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso” (don Milani). Ecco: i giudici non potevano dire quale sia il luogo naturale del crocifisso e quale la relazione di fede con lui; perché i giudici non annunciano il vangelo. Ma i vescovi ( e persino i cardinali) dovrebbero saperlo.

4. La Convenzione e la Corte. Qualche giorno dopo la pubblicazione della Sentenza, la Commissione Europea ha reso pubblico un comunicato in cui chiariva che il pronunciamento era di una Istituzione non appartenete all’Unione Europea. Cosa di per sé ovvia. Necessaria per via di diversi errori compiuti anche da autorevoli media?… “Errore” del tutto inconsapevole e solo segno di carenza di professionalità o la volontà di approfittare di un tema sensibile e popolare per attaccare questa costruzione europea?

5. L’Unione Europea: l’articolo 13 del TUE (Trattato dell’Unione Europea) enumera le Istituzioni dell’Unione: il Parlamento, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione europea, la Corte di giustizia dell’Unione europea, la Banca centrale europea, la Corte dei Conti. Dunque non ci possono essere dubbi: la Corte europea non è “istituzione” dell’Unione Europea.

Salvo ricordare (chiedo scusa preventivamente ai lettori) che l’articolo 6 del Trattato dell’Unione Europea (dopo aver sancito al paragrafo 1, che la Carta dei diritti fondamentali del dicembre 2000 – Nizza – votata anche dal Parlamento Europeo il 12 dicembre 2007, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati) sancisce anche che: “ l’Unione aderisce alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. (Quella al cui “servizio” sta la Corte europea di Strasburgo).

Precisa, poi, che questa adesione non modifica le competenze dell’Unione che fanno riferimento esclusivamente ai Trattati (che sono tre: Trattato dell’Unione Europea-TUE; Trattato di Funzionamento dell’Union
e Europea-TFUE; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Ma, poi, al paragrafo 3, ri-precisa che “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione (…) e quelli che risultano dalle tradizioni costituzionali degli stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione come principi generali”.

Questa “complicata” e “faticosa” architettura istituzionale relativa ai “Diritti e alle Libertà” rinvia certamente alla delicata relazione tra Unione e suoi Membri; e qui non è il luogo per tornarci. Ma una cosa salta con evidenza agli occhi: sui e nei pronunciamenti della Corte di Strasburgo (ricordo che nel caso in questione è stata all’unanimità) la Unione Europea non può dirsi “estranea”; i comunicati, in questo caso, si sono attardati su una ovvietà formale. La sentenza della Corte che vigila sulla Convenzione, di cui è membro anche l’Unione in quanto tale, (oltre che i suoi stati membri, in modo diretto) appartiene anche all’Unione Europea. E da europeo e italiano sono felice di questo.