Riflessioni di “Noi Siamo Chiesa” sul fine vita e sul testamento biologico

Basta con la “campagne”, le “rivincite” e i “principi non negoziabili”. E’ necessaria una svolta per creare un nuovo clima nella società e nelle istituzioni che permetta di arrivare a una soluzione ampiamente condivisa.

E’ ripresa, dopo la sospensione estiva, la discussione sul testamento biologico o Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT). E’ una grande questione perché tocca le cosiddette “questioni al limite” che sono state riproposte negli ultimi anni perché la scienza medica ci permette di vedere meglio “processi per cui una cosa o persona finisce e comincia qualcosa d’altro” e di poter usufruire di “strumenti  capaci di spostarli, maneggiarli, utilizzarli per gli scopi che ci sono utili o necessari” (1). Il nostro paese è arrivato in ritardo a questa discussione. Essa si è poi svolta sulla base di ideologismi, di emozioni e contrapposizioni che, in gran parte,  hanno anche avuto origine in altre vicende o “campagne”, tutte con al centro problemi di bioetica nel loro rapporto con la legislazione. Si è così creata una contrapposizione, che sembra insanabile, tra l’etica della sacralità della vita biologica e l’etica della qualità della vita biografica. Sono questioni che invece dovrebbero essere trattate da tutti con cautela; esse sono infatti cariche di risonanze, anche di carattere simbolico, su come vorremmo orientare la nostra società e la nostra vita personale.

Ciò premesso, per l’importanza che il problema ha in sé, e anche per quella che ha assunto in questi mesi nel nostro paese, cerchiamo di fare alcune riflessioni con particolare attenzione alle posizioni assunte dalla Conferenza Episcopale Italiana. E’ a partire dalla nostra  convinta presenza nella Chiesa che ci permettiamo di esprimere posizioni critiche sulle scelte e sulle argomentazioni che, in questi mesi e su questo problema, sono state espresse dalle gerarchie. Ci sembra che una assenza di ascolto, all’interno e all’esterno della Chiesa, e un insufficiente approfondimento dei problemi sono  alla base di prese di posizioni che ci sembrano non sufficientemente meditate.

L’elaborazione precedente la “campagna” in corso

Per confutare la confusione concettuale e terminologica diffusasi in questi mesi nelle campagne mediatiche che ci sono state, ci sembra che il rifarsi al paragrafo “Eutanasia” del Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) sia la cosa più efficace, oltre che la più “ortodossa”. Il numero 2276 scrive del rispetto particolare dovuto alle persone in condizione di minorità; il numero 2277 condanna esplicitamente l’eutanasia diretta che “consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate e prossime alla morte”; il terzo comma del numero 2278 (2) dovrebbe, da sé solo, inquadrare bene il problema di cui ci stiamo occupando, offrendo orientamenti chiari. Ci pare che sia efficace  la definizione che vi si dà di accanimento terapeutico: esso esiste  qualora comporti “procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi”.

In presenza di una tale situazione si possono interrompere le cure sulla base della decisione del paziente e, qualora egli sia incapace, di coloro che ne hanno legalmente il diritto. Il gesuita Padre Mario Beltrami ha fatto una disamina rigorosa di questo numero (3), sostenendo in particolare che esso trova il “suo fondamento  non in motivazioni di fede religiosa, qualunque essa sia, ma in argomenti puramente razionali”. Nell’esame della sproporzione tra le procedure mediche e i risultati attesi, indicata dal comma citato, il Beltrami implicitamente risolve il caso Englaro in modo opposto alla posizione della CEI. Egli scrive anche che “se si è chiamati a vivere con dignità, si deve anche poter morire con dignità” e afferma con forza a chi spetta decidere. Il numero  2278 e l’approfondita analisi che di esso fa il Beltrami ci sembra siano la base per fondare una normativa sul testamento biologico largamente condivisibile da diversi orientamenti culturali ed etici. Nella stessa direzione vanno gli interventi del Card. Carlo Maria Martini (4). Il magistero successivo al Catechismo conferma una linea che, con scarsa avvedutezza, è stata abbandonata nelle polemiche recenti. Infatti l’autorevole Carta degli Operatori Sanitari del 1995 nei suoi paragrafi 119-121 (5) riprende i contenuti del Catechismo. In particolare idratazione e alimentazione, artificialmente amministrate, vengono considerate “cure” che si possono sospendere quando risultino “gravose” per l’ammalato (paragrafo 120 terzo comma). Davanti a tanta chiarezza non c’è che da meravigliarsi che  nel dibattito in corso (6) questi testi e questi autorevoli interventi siano pressoché ignorati. Ma soprattutto c’è da meravigliarsi per l’abbandono da parte della gerarchia italiana di una linea del magistero coerente e tracciata da tempo. Che cosa ha determinato un tale cambiamento di rotta? Perché si finge una continuità quando invece è stata introdotta una discontinuità senza offrire spiegazione alcuna? Nei confronti di queste nuove posizioni non è comunque mancata una parola  chiara e forte, anche se poco conosciuta. Ricordiamo il documento dell’8 ottobre ’08 (7) che ha raccolto, soprattutto online, quasi duemila firme e quello del 23 marzo di quest’anno (8) che è stato  sottoscritto da 41 preti e che ha provocato la nervosa  reazione della Congregazione per il Clero, che ha chiesto ai vescovi competenti di intervenire presso i firmatari per accertare la loro “ortodossia” (9).

E’ necessaria una riflessione serena sul fine vita

Quanto risulta poco comprensibile nella linea che sta prevalendo nella maggioranza parlamentare e negli interventi di parte ecclesiastica è l’accanita volontà di intervenire sul fine vita, da una parte con tecnologie sempre più sofisticate e invasive, dall’altra con interventi autoritativi di tipo legislativo. Questi interventi puntano a impedire, in casi estremi, la dignità del morire e soprattutto una vera libertà dell’ammalato nel poter veramente disporre di sé stesso  in particolare  in caso di perdita della conoscenza, attribuendo al personale medico un potere di decisione eccessivo (e non gradito). Ciò ci sembra tanto più inaccettabile quando questa difesa della sopravvivenza ad ogni costo e con ogni mezzo, e lo scarso rispetto di chi vi è coinvolto, viene da quanti dovrebbero avere sulla fine della vita la convinzione che si tratta di un passaggio a una condizione migliore, come conseguenza di un disegno provvidenziale. A questo proposito sono esplicite le parole di Paolo VI indirizzate nel 1970 ai medici cattolici (10). A volte sembra quasi di trovarsi di fronte a ragionamenti che riflettono una cultura materialista, quasi ostile al compimento del cammino storico della creatura umana, attaccati alla prosecuzione a tutti i costi  della vita terrena come se, oltre, non ci fosse nulla. Ancora Padre Beltrami sostiene che “il problema di fondo sta, in definitiva, nell’educazione sia della classe sanitaria sia dei singoli individui ad accogliere la morte come parte integrante della vita” (11).

Le autorità ecclesiastiche, in Italia oggi, sembrano invece lontane da una riflessione più generale, anche religiosamente ispirata, e sembrano invece ossessionate dalle cosiddette “derive di tipo eutanasico”; esse sarebbero la conseguenza dell’orientamento ormai prevalente  nelle sentenze della magistratura e dell’eventuale approvazione di una legge tipo quella proposta dal sen. Ignazio Marino (che noi troviamo invece equilibrata e completa). E’ la paura di una società europea secolarizzata che si estenderebbe al nostro paese e a cui bisognerebbe fare argine. Questa paura irrazionale cresce – noi riteniamo –  a prescindere dal merito dei problemi concreti, sulla base di una preconvinzione che ci sia un progetto della cultura “laicista” e radicale per isolare il mondo cattolico, rifiutando il suo messaggio di tipo “antropologico” che si sostiene avrebbe validità  generale, a prescindere da fedi o valori religiosi. E’ questa la sensibilità del “partito” che è orientato in particolare dal Card. Ruini e, almeno fino a oggi, da Avvenire e che ispira a tutt’oggi la linea della CEI, ovviamente all’ombra della Segreteria di Stato. Le “derive” sono soprattutto il frutto di queste paure. A noi sembra giusto non perdere il senso vero di ciò di cui si sta discutendo e siamo d’accordo con Pierluigi Battista (12)  secondo cui sarebbe del tutto fuori luogo “l’allarme globale e incontrollabile” che si vorrebbe trarre da disposizioni ben definite riguardanti una fattispecie ben individuata “quella della formulazione anticipata della propria volontà con procedure certe e sicure”.

Per un diverso rapporto con la cultura laica

I nostri dubbi su questa posizione rigida diventano una reale preoccupazione se estendiamo la riflessione al più generale  ruolo evangelizzatrice della Chiesa e al suo rapporto/dialogo col “mondo”. E’ proprio vero che, con le culture diverse dalle nostre (o ideologie, se così le si vuole chiamare) non si possa  stabilire un percorso di ricerca comune sui nuovi problemi etici e legislativi, anche complessi, che sono imposti dal progresso tecnicoscientifico? Troviamo solo nemici della vita oppure soggetti – anche se, forse, non tutti – disposti ad ascoltare, qualora non vedano la Chiesa cattolica come unica e pretenziosa maestra di antropologia, invece che annunciatrice e serva della Parola che manifesta la rivelazione di Dio destinata a tutti i popoli? Se si vogliono utilizzare argomenti razionali ci si pone su un piano diverso da quello connesso con l’annuncio di Cristo risorto, che rappresenta il proprium della sua missione e si entra in campi dove è inevitabile incrociare le competenze di altri, che pure ricorrono legittimamente ad argomenti fondati sulla ragione. Se poi si pretende di avere il monopolio nel dire a tutti cosa si debba intendere per “natura” (avente in sé valore ontologico), si può legittimamente obiettare che l’idea, che di essa si è proposta,  è cambiata molto nel tempo e nello spazio, anche nell’insegnamento della Chiesa.

Un’altra questione di lunga data che poniamo alla nostra Chiesa e che ha riflessi importanti nel rapporto con la società “laica”, è quella del rapporto tra norma etica e legge. Essa si ripropone continuamente per l’incapacità di ascoltare veramente  le riflessioni che in merito hanno percorso tutta la storia dei cattolici democratici. La differenza tra peccato e reato, la legge come strumento per affrontare situazioni e conflitti e non per vincere battaglie ideologiche, la necessità della mediazione, una volta definito il quadro generale dei principi e dei valori (Costituzione) ecc… sono le costanti consolidate di una posizione culturale e ideale che meriterebbe finalmente di essere  fatta propria da tutto il cattolicesimo italiano. Non è così. Neppure considerazioni   di tipo prettamente pastorale hanno impedito vere e proprie invasioni di campo (13) e un intreccio tra etica religiosa e legge che, in troppe occasioni (legge sullo scioglimento del matrimonio, legge n. 194, legge n. 40, progetti di legge sulle unioni di fatto ecc…) le nostre gerarchie hanno ricercato e che i cattolici di ispirazione conciliare hanno sempre contrastato, ottenendo quasi sempre molti consensi di base. Ci piace ricordare che Aldo Moro nel 1974, dopo il referendum sul divorzio, al Consiglio nazionale della DC metteva in guardia contro le forzature mediante  “lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e di disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani” e consigliava di “realizzare la difesa di principi e di valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi” (14).

In conclusione, siamo convinti che la “campagna” avviata sul caso Englaro e ora in corso sulla legge in discussione alla Camera, e le demonizzazioni conseguenti (tutto è bianco/bianco oppure nero/nero) non servano alla società italiana e alla vera missione della nostra Chiesa.

I medici e il buon senso sono contro il disegno di legge Calabrò

Entrando in modo più specifico nella questione più controversa del ddl Calabrò, ci sembra che “contra factum non valet argumentum”. Ci meraviglia come si possa sostenere che l’idratazione e l’alimentazione di pazienti in stato vegetativo permanente  non debba essere considerato un trattamento sanitario e quindi debba sfuggire alle indicazioni contenute nelle DAT. La descrizione fatta da un clinico tra i tanti (15) non dovrebbe lasciare dubbi, così come le posizioni ufficiali delle società scientifiche (16) e il documento della FNOMeO  (Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e Odontoiatri) (17).

Ci chiediamo perché mai debba essere necessario continuamente ricorrere a queste autorità per spiegare e convincere su questo punto come se non fosse sufficiente il semplice buonsenso dell’uomo della strada, debitamente informato, per capire che ci si trova di fronte a trattamenti solo sanitari e quindi alla fattispecie ipotizzata dal comma 2278 terzo punto del CCC in materia di procedure mediche  straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi. Non a caso i sondaggi d’opinione sul testamento biologico e sul caso Englaro indicano  che l’opinione pubblica ha una posizione del tutto  diversa da quella che è prevalsa nella discussione al Senato in marzo (18).  In particolare ci chiediamo il perché di  questa ossessionante insistenza dei vescovi e delle associazioni da essi promosse (tipo “Scienza e Vita”) sul fatto che idratazione e alimentazione di persona in stato vegetativo permanente e definitivo sarebbero “sostegno vitale”  e quindi che non si devono sospendere e tali quindi da non ricadere nella chiara nozione di accanimento terapeutico.

Una terminologia che solitamente viene utilizzata nei documenti del magistero è quella di “morte naturale”: si dice sempre che la vita umana deve essere tutelata “dal concepimento alla morte naturale”. Ora negli ultimi decenni i progressi nel campo della medicina e della farmacologia hanno consentito di interferire pesantemente proprio nel processo della “morte naturale”. L’exitus che fino a poco tempo fa avveniva in termini temporali relativamente brevi, oggi può essere allontanato in maniera indefinita, pur senza alcun miglioramento sostanziale della vita e della sua qualità per il paziente. Ora è possibile ancora utilizzare il termine “morte naturale” a fronte di sistematici e diuturni interventi artificiali, non solo attraverso l’idratazione ed alimentazione forzate (entrale o parenterale), ma attraverso consistenti dosaggi di farmaci, altrettanto necessari, che vengono somministrati per le medesime vie? Insomma vi è un limite o no? Nei salmi si dice “fino a quando Signore?”. In termini cristiani è pensabile che sia volontà del Signore, padrone della vita come si dice, sostenere in maniera indefinita artificialmente una vita che rimane, senza alternative, inchiodata alla prossimità dell’exitus?

Una legge sul fine vita è necessaria

Per anni la linea dei vescovi è stata quella di ritenere inutile una legge sul fine vita, preferendo una situazione indeterminata in cui non ci fossero diritti e doveri ben definiti e senza procedure certe a cui fossero tenuti i soggetti coinvolti (personale sanitario e pazienti). La svolta si è avuta nel luglio del 2008 in conseguenza della sentenza della Cassazione, dopo un interminabile iter giudiziario, sul caso Englaro. Essa è stata decisa nel Consiglio Episcopale Permanente della CEI  nel successivo settembre (19). Da allora questa posizione è diventata la linea della maggioranza di governo ed è stata conosciuta, da una larga parte  dell’opinione pubblica, in relazione al caso Englaro. I contenuti del ddl. Calabrò infatti sono del tutto omogenei alle sollecitazioni della CEI. Che una legge fosse necessaria da troppo tempo lo si diceva. (20).

Al di fuori delle ideologie, con le nuove possibilità terapeutiche in materia di respirazione, idratazione e alimentazione artificiali si è enormemente estesa l’area di discrezionalità (e di responsabilità non gradita), attribuita nei fatti, soprattutto nei reparti di rianimazione, al personale sanitario, spesso in condizione di solitudine (21). Si è così creata “una zona grigia” nel fine vita in cui decisioni fondamentali di vita e di morte non si capisce perché debbano essere affidate, soprattutto in caso di incidenti, a medici e/o a famigliari  in modo spesso casuale e con prassi del tutto diverse da presidio a presidio sanitario. E’ necessario quindi che ognuno possa dare indicazioni preventive nel caso che venga a trovarsi  in condizioni di incoscienza e che la sua volontà venga fatta rispettare mediante l’autorità di una disposizione normativa cogente (22).

La volontà del paziente

Oltre a quella di ritenere “sostegno vitale”  l’idratazione e l’alimentazione di paziente in coma vegetativo permanente, l’altra condizione sine qua  non per accettare una legge sul fine vita posta dal Consiglio Episcopale  della CEI riguarda la volontà del paziente. Essa dovrebbe essere in qualche modo “controllata” o “condizionata” per il  timore che si possa andare nella direzione della cd  “deriva eutanasica” (si veda l’art. 8 del ddl Calabrò  che consente al medico di disattendere le indicazioni contenute nelle DAT). Ci sembra invece che bisognerebbe affrontare il problema in modo rovesciato e riflettere qui, come in altre situazioni eticamente rilevanti, a partire dal ruolo della coscienza del soggetto interessato che fonda il suo diritto all’autodeterminazione. E’ necessario ricordare quanto il  primato  della coscienza sia valore cristiano (Gaudium et Spes, numero 16 e Dignitatis Humanae, numero 3) ?   Esso deve essere uno dei pilastri del nuovo modo di vivere il Vangelo dopo la riforma conciliare e non può essere contraddetto nei fatti. Ci sono tante riflessioni preziose che lo hanno chiarito ed approfondito e proprio in occasione del dibattito in corso (23).

Sulla autodeterminazione del paziente e sull’obbligo di rispetto della sua volontà si fonda la posizione che si è affermata nella gran parte dei paesi europei negli ultimi dieci anni (in Spagna nel 2003 e in Francia nel 2005) e negli USA, che hanno leggi in merito ed una ben definita giurisprudenza (USA e Regno Unito) (24). In contraddizione con la linea dei vescovi è anche il Codice di deontologia medica della FNOMeO  (del 16 dicembre 2006) che, all’art. 35 ultimo comma, dice: “Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”.

Interessante è la situazione nella Repubblica Federale Tedesca, paese dove, per anni, il problema è stato ampiamente dibattuto in organizzazioni di base, dal personale sanitario, in sentenze,  nelle Chiese e, infine, nel Parlamento. Pare che siano circa nove milioni le Dichiarazioni di fine vita (Patientenverfugung) già formalizzate. Alla fine il Bundestag ha approvato il 18 giugno scorso modifiche al codice civile tedesco che sono entrate in vigore il primo settembre. Esse sono il frutto di un’opinione pubblica  molto informata che, per il 73% secondo i sondaggi, si è convinta che la decisione del paziente deve avere valore vincolante e che idratazione e alimentazione per pazienti in stato vegetativo permanente sono da considerarsi trattamenti sanitari. La Chiesa cattolica e la Federazione delle Chiese evangeliche sono state protagoniste di questo percorso. Nel 1999 (con alcune correzioni nel 2003) esse proposero congiuntamente a tutti i loro fedeli il Christliche Patientenverfugung (25). Questo testo, tradotto e diffuso nel nostro paese nei giorni del caso Englaro, è stato fondamentale per prendere coscienza che le due condizioni della CEI  per una legge sul fine vita non potevano essere considerate qualcosa di simile a una verità di fede o di inerente alla “natura stessa dell’uomo” o alle supreme questioni della vita e della morte e quindi “materia non negoziabile”. Questo testamento biologico “cristiano” è già stato sottoscritto, a quanto si sa, da quasi tre milioni di cittadini tedeschi  e le principali disposizioni che contiene sono  molto diverse, quasi opposte, a quelle sostenute dai nostri vescovi (e dal ddl Calabrò) (26). In molti si sono chiesti come sia possibile, in una Chiesa che si pretende monolitica in materia dottrinale e morale, un tale consenso corale a queste posizioni della Chiesa tedesca su linee del tutto diverse da quelle considerate dai nostri vescovi irrinunciabili (27). Perlomeno ci dovrebbe essere più cautela e una posizione più riflessiva.

Un antico adagio, venuto alla luce nell’ambito della Chiesa e forse utilizzato anche al di fuori di essa, così recita : “in necessariis unitas, in dubiis libertas ,in omnibus caritas ”.  Occorre: “nelle cose necessarie l’unità, nelle cose dubbie la libertà, in ogni cosa la carità”. Nella materia che stiamo trattando quante sono le domande senza risposta che onestamente dobbiamo ammettere? E come è possibile per una Chiesa “appellarsi a Cesare” perché con la sua legge produca questa operazione: far diventare necessario “erga omnes” ciò che è ancora avvolto nel dubbio, anche al proprio interno? Come è possibile chiedere che venga dichiarato non vincolante  “il consenso informato”, quello che è ormai diventato da molto tempo, anche per il magistero della Chiesa, oltre che nella deontologia medica, un assunto indiscutibile? E come è possibile attribuire allo stato un tale potere di interferenza nella vita, nella sofferenza e nel processo del morire di tutti i cittadini, prescindendo dal loro consenso?

Fine vita e Costituzione

Infine nel dibattito di questi mesi, con approfondimenti difficilmente contestabili, è stato molte volte detto che la normativa ora in discussione contraddice articoli ben definiti della nostra Costituzione, tanto da fare ritenere probabile una futura censura da parte della Corte Costituzionale nei confronti del testo in discussione, se non verrà modificato dalla Camera. Sono gli stessi articoli (2, 13 e 22) ai quali si è appellata la citata sentenza della Cassazione sul caso Englaro. Sulla base di questi articoli, progressivamente negli anni “si è attribuito un valore prioritario al consenso informato della persona, si è operata una redistribuzione di poteri, si è individuata un’area intangibile dall’esterno, si è sottratta la vita alla prepotenza del potere politico e alla dipendenza dal potere medico….Ora invece stiamo assistendo alla restaurazione del potere medico nelle forme di una asimmetrica “alleanza terapeutica” dove il morente e i suoi famigliari non sono lasciati soli nel fiducioso dialogo col medico ma consegnati all’esecutore di una impietosa volontà legislativa che cancella la rilevanza della volontà degli interessati” (28)

Oltre all’art. 2 sui diritti inviolabili dell’uomo e all’art. 13 sulla proibizione di ogni violenza su persone sottoposte a restrizione di libertà (come quelle in condizione di stato vegetativo permanente) il testo più esplicito è quello dell’art. 32  che vieta ogni trattamento sanitario obbligatorio “se non per disposizione di legge”. L’ipotesi di questo possibile intervento legislativo di deroga  fu previsto all’Assemblea Costituente, per interpretazione unanime, per i casi posti da problemi di sanità pubblica (epidemie) o dalla necessità di prevedere  vaccinazioni generalizzate dei bambini, rispetto alle quali ci si trovava, a suo tempo, di fronte a resistenze psicologiche fondate sull’ignoranza. E comunque (secondo comma)  qualsiasi trattamento “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questo rispetto esige che una persona in coma irreversibile, priva di qualsiasi coscienza e sensibilità, non debba essere trattata come una cosa. (29) Anche le convenzioni internazionali sono esplicite in materia. Oltre alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art.3), in particolare la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, promossa dal Consiglio d’Europa e firmata ad  Oviedo nel 1997 (ratificata nel 2001 dal nostro paese e quindi avente validità di legge) afferma esplicitamente all’art.9: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”. Altri documenti internazionali vanno nella stessa direzione. La “Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani” del 2005 promossa dall’Unesco conferma il diritto all’autoderminazione del malato e la protezione di quello incapace ( artt. 5,6,7).

In definitiva ci chiediamo perché i vescovi non sappiano accettare, con serenità, valutandone i contenuti “umanistici” (e quindi anche cristiani) questi articoli della nostra Costituzione distorcendone il significato, avendo paura -si direbbe- della libertà e della dignità  che essi attribuiscono alla persona, ipotizzando, nel caso venga approvata  una legge diversa da quella da essi auspicata,  scenari di decadimento del senso della vita e della morte nella nostra società. Ma questi fantasmi percorrono davvero il mondo cattolico italiano? O sono soprattutto la conseguenza di una fede cristiana, soprattutto dei vertici ecclesiastici, che è debole nella speranza e nella visione generale del percorso dell’uomo dalla vita verso la morte?

Conclusioni

Molte altre sono le questioni che riguardano il testamento biologico (o DAT); per esempio quelle relative alle modalità della manifestazione della volontà, al ruolo del fiduciario fino a quelle del ruolo del medico o dei medici coinvolti (30), dei famigliari, dei Comitati etici previsti presso le strutture sanitarie. Ci siamo concentrati sui due punti sui quali lo scontro si è sviluppato fino ad ora in Parlamento e sui quali è stato ed è pesante l’intervento dei vertici della CEI. (la natura dell’alimentazione e della idratazione forzata in caso di stato vegetativo permanente e l’efficacia delle DAT). Su entrambe le questioni abbiamo cercato di motivare perché una riflessione, all’interno della nostra Chiesa e da cristiani “adulti”, giunga a conclusioni ben diverse da quelle proposte dalle posizioni ufficiali della gerarchia.

Vogliamo chiedere ai nostri Pastori un ripensamento su tutta la questione, vorremmo che essi facessero un passo indietro e che assumessero la linea del dialogo con la cultura “laica” e della ricerca di un terreno comune di fronte all’incalzare delle questioni poste dal progresso tecnicoscientifico per arrivare infine a una legge di largo consenso. Siamo convinti che sarebbero ascoltati e che le loro preoccupazioni diventerebbero parte di un sentire comune, pur nel permanere di opinioni ancora diverse.  Siamo convinti che, su una questione di così grande importanza, non ci possa essere, e neppure apparire, il sospetto che l’obiettivo di ottenere questa legge sia perseguito mediante compiacenze o silenzi nei confronti di politiche odiose sotto altri profili (legge sulla sicurezza, moralità pubblica e privata, rottura delle regole della vita democratica, bocciatura della legge contro l’omofobia ecc…). Siamo anche convinti che esista una sproporzione, facilmente percepibile in tutto il mondo cattolico, almeno in quello italiano, tra questo accanito e assorbente impegno per la difesa della vita biologica e un inferiore impegno a favore della vita dei tanti nel loro percorso quotidiano sono in condizioni di grave sofferenza fisica o morale o in situazioni sociali difficili.

Alla fine della nostra riflessione critica ci sentiamo in diritto di chiedere – e quasi di pretenderlo come atto dovuto- che nella nostra Chiesa di queste questioni si apra una discussione da subito, a tutto campo, sui media e nelle strutture di base e senza che nessuno sia etichettato a priori  o come ortodosso o come dissidente. Non esiste infatti un pensiero unico. In assenza di una svolta, l’assenza di dibattito e questa linea autoritariamente decisa potranno forse, nel breve periodo,  soddisfare bisogni di identità o fragili convinzioni di principio o forse ottenere risultati concreti, cioè una legge gradita.  Ma, nel lungo periodo, siamo convinti si crei una situazione perdente, sia dal punto di vista dell’annuncio dell’Evangelo che  dal punto di vista pastorale e che lo scisma interno, già esistente nella nostra Chiesa, possa estendersi.

Roma, 15 ottobre 2009                                             NOI SIAMO CHIESA

Note

1)      cfr Franca D’Agostini su “Il Manifesto” del 14.3.’09

2)      Il comma recita “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.

3)       Cfr P. Mario Beltrami S.J. “Il diritto di morire: un documento disatteso” in “Dolentium    Hominum” n.68/2008, rivista del Pontificio Consiglio degli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute). Così argomenta il Beltrami “Il testo del documento è lucido, stringato, non si perita di scendere in particolari. Ne conseguono alcune chiarificazioni : 1 Si parla di legittimazione, non di semplice liceità, facendo pertanto un preciso riferimento a leggi giuridiche, esistenti o augurabili. 2 Si dichiara la legittimazione, e quindi liceità, non si impone qualsiasi obbligo. Nessuno è in dovere di decidere una simile interruzione. La libertà di coscienza del singolo individuo è totalmente rispettata. 3 L’interruzione eventuale delle cure non è condizionata da sofferenze più o meno gravi del paziente o di terzi. Anche nel caso di mancanza di sofferenze, se si danno le condizioni previste, rimane valida la legittimità dell’interruzione delle cure. Non vengono prese in considerazione sofferenze di nessun genere. 4 Sono pertanto esclusi moventi emozionali. Solo moventi razionali devono fondare la decisione. 5 Non si esige la coscienza o sufficiente lucidità mentale del paziente. Una decisone presa al tempo della lucidità mentale, che abbia validità qualora si verificassero le condizioni per l’interruzione delle cure, anche in assenza in quel momento di coscienza, non può essere disattesa. La decisione del paziente gode della preminenza su qualsiasi contrarietà di terzi, anche se in possesso di legittimi diritti. 6 Le condizioni elencate devono essere prese singolarmente, non cumulativamente. Nell’avverarsi di una qualsiasi delle quattro condizioni previste la legittimità dell’interruzione persiste nella sua efficacia”. Il testo integrale dell’articolo del Beltrami, per il suo rigore e per la sua chiarezza,  meriterebbe un’ampia diffusione. Esso è invece di difficile accessibilità.

4)      Vedi il suo articolo “Io, Welby e la morte” su “Il Sole 24Ore” del 21.1.’07.  In un articolo più recente  (su “Il Corriere della sera” del 6 settembre ’09) su “La medicina e le mani di Dio. Il giudizio della persona è centrale” egli, all’interno di una pensosa riflessione sul morire e sul rapporto tra medico e paziente, recensisce il recente testo di Ignazio Marino “Nelle tue mani: medicina, fede, etica e diritti”, confermando sostanzialmente il suo punto di vista.

5)      Questo testo del Pontificio Consiglio della pastorale per gli Operatori sanitari si legge  in http://www.academiavita.org/template.jsp?sez=DocumentiMagistero&pag=pontifici_consigli/cos/cos. Il paragrafo 121, a proposito della volontà del malato e del rapporto col medico, dice “Per il medico e i suoi collaboratori non si tratta di decidere della vita o della morte di un individuo. Si tratta semplicemente di essere medico, ossia d’interrogarsi e decidere in scienza e coscienza, la cura rispettosa del vivere e morire dell’ammalato a lui affidato. Questa responsabilità non esige il ricorso sempre e comunque ad ogni mezzo. Può anche richiedere di rinunciare a dei mezzi, per una serena e cristiana accettazione della morte inerente alla vita. Può anche voler dire il rispetto della volontà dell’ammalato che rifiutasse l’impiego di taluni mezzi.”

6)      Ci riferiamo soprattutto al dibattito sul disegno di legge Calabrò approvato dal Senato in marzo ed ora in discussione alla Camera.

7)      Il testo e i firmatari sono  leggibili sul sito htpp://appelli.arcoiris.tv/Eluana_Englaro

8)      Il testo e i firmatari sono  leggibili sul sito    http://www.cdbitalia.it /ATTUALITA/ATT%20appello.html

9)      La riflessione su queste tematiche era già diventata generale nel mondo cattolico nell’autunno del 2006 a proposito del caso di Piergiorgio Welby. La sua morte e il diniego dei funerali religiosi da parte del Vicariato di Roma creò scandalo e fu però l’occasione di conoscere situazioni di sofferenza  prima abbastanza nascoste e di fare riflessioni  sul fine vita come non ce ne erano mai state nel recente passato di questo tipo.

(10)«Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita» (citazione dall’articolo “Vita e morte secondo il Vangelo”di Enzo Bianchi sulla “Stampa” del 15.10.2009)

(11) Cfr articolo citato pag. 61

(12) vedi  l’articolo “Il ricatto della deriva” nel “Corriere della sera” del 28-2-‘09

(13) Tra gli interventi più pesanti non possiamo non segnalare quello, del tutto intemperante nel linguaggio e nei contenuti, dall’Arcivescovo Mons. Giuseppe Betori nei confronti del Consiglio comunale di Firenze, il quale ha approvato il 5 ottobre una delibera che facilita a livello municipale la redazione del testamento biologico da parte dei suoi cittadini (vedi l’Avvenire del 6 ottobre).

(14) Citazione contenuta nell’articolo “Giornata nera per la Repubblica” di Stefano Rodotà su “La Repubblica” del 7-2-‘09

(15) Vedi l’articolo “Nutrire? E’ una terapia” di Claudio Zanon dell’Ospedale Molinette di Torino su “La Stampa” del 4-3-‘09. Egli scrive che nell’alimentazione ed idratazione “l’utilizzo di sacche nutrizionali implica una conoscenza medica del tipo di sacca da prescrivere, la capacità di introdurre invasivamente un sondino nell’intestino o nello stomaco, oppure una cannula infusionale in una vena centrale. Sono procedure non prive di complicanze, descritte in numerosi articoli scientifici, e che necessitano di controlli periodici ed apposite manutenzioni e sostituzioni per prevenire gravi squilibri, come idroelettroliti ematici, infezioni, polmoniti, emoraggie gastrointestinali, perforazioni intestinali”.

(16) Esse vengono ricordate da Ignazio Marino in una lettera a “Repubblica” del 7-2-’09.Vi si afferma “la posizione ufficiale delle società scientifiche espressa da Olle  Ljungqvist (Presidente della Società europea di Nutrizione Clinica e Metabolismo) e da Maurizio  Muscaritoli (Presidente della corrispondente società italiana) è la seguente :  “La nutrizione   artificiale è terapia medica a tutti gli effetti : utilizza nutrienti (e non alimenti) che sono preparati con procedure farmaceutiche e vengono somministrati per via artificiale – entrale o parenterale- cioè senza ricorrere al normale processo di deglutizione. La nutrizione artificiale richiede, per essere praticata, il consenso informato del paziente (o suo delegato, se incosciente), la collaborazione del farmacista, il regolare controllo e monitoraggio del medico specialista. La decisione di accettare o rifiutare una terapia resta un diritto dell’individuo da esercitare direttamente o attraverso un suo delegato, se incosciente”.

(17) Questo testo del 27-3-’09 così recita “Nutrizione e idratazione artificiali, sono, come da parere quasi unanime della comunità scientifica, trattamenti assicurati da competenze mediche e sanitarie”. Particolarmente astiosa è stata la polemica contro questo documento da parte di Avvenire.

(18) Oltre al sondaggio dell’Eurispes del 2006 e a quello dell’ISPO dell’inizio 2009 ricordiamo quello dell’Osservatorio Scienza e Società  secondo cui il 73% degli italiani è a favore della possibilità di indicare in anticipo la propria volontà circa il proseguimento o meno delle cure qualora non si fosse più coscienti in una situazione di grave malattia e senza speranza di guarigione. A sostegno del proprio orientamento gli intervistati adducono il riconoscimento del diritto di scelta individuale, motivazione che sta alla base anche del rispetto della volontà del paziente da parte della medicina. Non emergono forti differenze tra credenti di fede cattolica (71% di favorevoli) e non credenti (83%). I dati sono stati diffusi il 30-11-’08 e sono leggibili su http://www.observa.it/view_page.aspx?menu=osservatorio&ID=552&LAN=ITA

(19) Per l’esattezza il comunicato finale del Consiglio Episcopale  Permanente del 22.9.’08   auspica una  legge “a fronte del rischio di pronunciamenti giurisprudenziali che aprano la strada nel nostro paese all’interruzione legalizzata della vita mediante la sospensione dell’idratazione e del nutrimento”. Il comunicato continua sostenendo che “una eventuale legge sul fine vita sarebbe una cosa ben diversa da una normativa che legittimi la nozione di testamento biologico, espressione di una cultura dell’autodeterminazione” ed ancora “ in questo delicato passaggio non vengano legittimate e favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che, a partire dalla Costituzione, contraddistingue l’ordinamento italiano”. La CEI demonizza il termine “testamento biologico” e usa una terminologia (dal suo punto di vista) non equivocabile: “legge sul fine vita” e “Dichiarazioni anticipate di trattamento”.

(20) Il problema di una soluzione legislativa era stato posto da tempo. Addirittura  la XII Commissione del Senato il 13-7-’05 all’unanimità  (relatore Antonio Tomassini) aveva approvato  un ddl sul testamento biologico che non fu però discusso dalla Camera per la fine della legislatura.

(21) Ignazio Marino sul “Corriere della sera” del 26.2.’09 ricorda la ricerca dell’Istituto Mario  Negri. Così egli descrive la situazione ”Dobbiamo fare i conti con il mondo reale e con quello che accade dentro gli ospedali. Possiamo fare anche dell’ipocrisia una virtù, ma dobbiamo comunque dire che nelle rianimazioni italiane le decisioni sulla fine della vita dei pazienti vengono prese in continuazione, ogni giorno, da medici che operano in scienza e coscienza  ma che, nella maggior parte dei casi, non possono conoscere gli orientamenti dei pazienti rispetto alle terapie da accettare o meno nelle fasi finali della vita. Bastano i risultati di una ricerca condotta dall’Istituto Mario Negri di Milano che dimostra come su circa 3800 decessi, avvenuti in cento rianimazioni  sparse in tutto il paese, nel 62% dei casi i medici abbiano attuato la cosiddetta “desistenza terapeutica” nelle ultime 72 ore di vita del paziente [….]. Ciò significa che il medico di guardia (non medico di una vita, il padre, la madre, un figlio o un parente) decide in scienza e coscienza, ma anche in solitudine, di non avviare la dialisi, di non somministrare la nutrizione artificiale, di non intubare il paziente per collegarlo al respiratore automatico”.

(22) Di fronte alle perplessità nei confronti del ddl Calabrò di larghi settori dell’opinione pubblica, venti deputati del Popolo delle Libertà (vedi il “Foglio”  del 23-9-’09) hanno proposto che questa “zona grigia” non sia regolamentata e che una legge (una soft law) potrebbe “prudentemente fissare solo i confini “esterni” delle situazioni che riguardano la vita e la morte ma non i contenuti “interni” che dovrebbero essere interamente affidati alle relazioni morali e professionali che legano il malato al suo medico e ai suoi congiunti”. La proposta è stata appoggiata da Angelo Panebianco (vedi “Corriere della sera” del 30 settembre) ma immediatamente bocciata da un editoriale, più che ufficioso, del primo ottobre di Francesco D’Agostino su “Avvenire”.

(23) In particolare si legga il penetrante contributo di Robera De Ponticelli su “La Repubblica” del 25.1.’09.

(24) Negli USA (a partire dal Patient Self-Determination Act del 1991) va rispettato il rifiuto di qualsiasi trattamento espresso attraverso il  living will (testamento biologico) nel caso di paziente incosciente; nel caso di assenza di scritti che documentino la volontà del paziente, divenuto incapace, la decisione clinica viene presa con il substituded judgement (“fiduciario”) che è di solito un famigliare. Leggi analoghe sono state approvate negli ultimi dieci anni nei principali paesi europei, in Canada, in Messico e in Australia.

(25) Il testo di questo documento  può essere letto in http://www.ekd.de/patientenverfuegung/cpv_1.html
La dichiarazione da firmare è la seguente : “Disposizioni assistenziali-sanitarie del paziente cristiano con procura preventiva e istruzioni vincolanti per assistenza e cure mediche”
Formulario: Disposizioni assistenziali-sanitarie del paziente cristiano
”Per il caso in cui io non possa dare forma o esternare la mia volontà, dispongo quanto segue: Non mi possono essere messe in atto misure intese a prolungare la vita se viene constatato, secondo scienza e coscienza medica, che ogni provvedimento per il prolungamento della mia vita è privo di prospettiva di miglioramento clinico e solamente ritarderebbe la mia morte.In questo caso assistenza e trattamenti medici, come anche cure premurose, devono essere diretti al lenimento delle conseguenze del male, come p. es. dolori, agitazione, ansia, insufficienza respiratoria o nausea, anche se la necessaria terapia del dolore non escluda un accorciamento della vita.
Io voglio morire con dignità e in pace, per quanto possibile vicino e a contatto dei miei congiunti e delle persone che mi sono prossime e nel mio ambiente familiare.
Desidero assistenza spirituale. La mia confessione religiosa è…”.

(26) Dopo la convinta diffusione della loro proposta di testamento biologico le Chiese nella RFT, durante il dibattito parlamentare, hanno tenuto un atteggiamento più prudente e, a volte, critico nei confronti del dettato di un testo esplicitamente teso a sostenere una completa autodeterminazione del paziente. Non hanno però trovato molti consensi al Bundestag, non hanno organizzato alcuna campagna, non hanno lanciato anatemi né minacciato di boicottare la legge. Su questo aggiustamento della linea dei vescovi tedeschi  ha probabilmente influito il pronunciamento, fortemente contestato, della Congregazione per la Dottrina della Fede che, il primo agosto del 2007, in risposta a un quesito posto dai vescovi USA, in conseguenza del caso Terri Schiavo, sosteneva, senza motivare in alcun modo,  che un  “paziente in stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali”. Che questa posizione sia in contraddizione col CCC appare evidente da quanto sopra chiarito.

(27) In una nota ufficiale del portavoce della Conferenza dei vescovi tedeschi del 17-3-’09 si sostiene che le posizioni di quell’episcopato non sono in contraddizione con quelle del Magistero universale sull’eutanasia,  in  riferimento ai commi 2278 e 2279 del CCC. Infatti la contraddizione esiste ma con la posizione della CEI non con quella del Catechismo !

(28) vedi Stefano Rodotà in “Il bio-testamento e la politica” su “La Repubblica” del 27-2-‘09

(29) vedi Luigi Ferraioli in  “I sovrani del corpo” sul “Il Manifesto” del 26-3-’09 che  fa anche l’ipotesi di chi, in condizioni estreme, mantenga, come sostengono molti difensori della vita “qualche barlume di consapevolezza e comprendesse senza possibilità di comunicare in alcun modo di essere condannato per un tempo indefinito a rimanere prigioniero delle macchine che lo nutrono, senza potersi muovere né cambiare posizione, né parlare o sentire o vedere”. In questo caso massima sarebbe la violazione del rispetto della sua persona.

(30) E’ interessante il parere della FNOMeO  nel documento già citato. Dopo avere affermato che “nutrizione e idratazione artificiali sono, come da parere pressoché unanime della comunità scientifica, trattamenti assicurati da competenze mediche e sanitarie”  affrontano il ruolo del medico nel rapporto col paziente: “L’autonomia decisionale del paziente che si esprime nel consenso/dissenso informato, rappresenta l’elemento fondante della moderna alleanza terapeutica al pari dell’autonomia e responsabilità del medico; in questo equilibrio, alla tutela della libertà di scelta del paziente deve corrispondere la tutela della libertà del medico, in ragione di scienza e coscienza (obiezione)”