EPPURE IL CARCERE E’ SOCIETA’

di Vincenzo Andraous

Più volte è stato sostenuto che ogni intuizione educativa, responsabilizzante, un cambio di mentalità all’interno di una prigione, è sistematicamente resa monca, dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e di fondi.

Forse è possibile recuperare un atteggiamento più attivo e propositivo anche dentro un carcere, perché rifuggire il nuovo, senza scommettersi, non impegnarsi insieme con gli altri, Operatori Penitenziari e Società civile, non esponendosi in prima persona per la propria crescita personale e professionale, equivale a non vivere pienamente questa vita che ci precede e osserva, trasfigurando la quotidianità, trascendendo l’umanità stessa.

In questo tempo d’impegno nella comunità “Casa del Giovane”, ho capito che è proprio dall’esperienza che nasce la necessità di cercare ripetutamente dei chiarimenti, la spinta a mettersi in discussione, a rimettersi in gioco, per conoscere di più noi stessi e gli altri, dagli incontri e dal confronto che ne deriva.

“Se il carcere permarrà un sistema chiuso, esso gestirà i problemi del cambiamento e dell’aggiornamento tentando di mantenere lo status quo ripiegandosi su se stesso; se invece diverrà un sistema di detenzione aperto agli ideali nuovi e possibili, allora diverrà anche un luogo di reale testimonianza”.

E’ innanzitutto al detenuto che viene chiesto doverosamente di essere all’altezza del servizio offerto ( e sarebbe bene intenderlo come una conquista di coscienza e non solo come una mera possibilità statuale ), ma questa prigione costantemente costretta a vivere del suo, a rigenerarsi di una speranza pressochè spenta, ne rafforza la separazione: eppure il carcere è società.

Forse bisogna intendere il carcere per ciò che davvero è rispetto alla tendenza sociale, opponendo la sua credibilità e capacità di rinnovamento interloquendo con le giovani generazioni, e inducendo un ripensamento culturale, in modo che nessuno si senta esente dal fornire il proprio contributo.

Credo che occorra fare bene il proprio mestiere di uomo, sia di uomo libero che di uomo ristretto per gli errori commessi, infatti esercitare il mestiere di uomo, significa agire in modo da rispettare in noi e negli altri la dignità insita all’essere umano.

Mi viene in mente la pedagogia della speranza della Comunità Casa del Giovane, quanta importanza abbia una tecnica dialogica che consenta all’altro di accorciare le distanze, l’essere capaci di ascoltare l’altro in se stessi, con sensibilità diverse, interpretazioni diverse, ma giungendo alla stessa finalità.

Non serve a nulla tifare ideologicamente per una o altra ortopedia penitenziaria, piuttosto c’è necessità di fare camminare rettamente dentro quei percorsi sociali condivisi, per tentare di riparare la frattura, di lenire il dolore e la lacerazione di coloro che hanno ricevuto il male, imparando che espiazione e risarcimento non equivalgono a vendetta, né a indifferenza, colpa-pena-punizione non è un’astrazione filosofica o limitata al giudice che eroga una sentenza, ma memoria di ciò che è stato, e proprio da qui occorre ripartire per una assunzione di responsabilità commisurate alle reali capacità delle persone detenute, per non rendere l’attuale condizione una dimensione di nullità e di peso, dannoso per se stessi e per gli altri

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MESSAGGI AMBIVALENTI CHE GENERANO SOFFERENZA

di Vincenzo Andraous

Un genitore, un tutore dell’ordine, mi ha ringraziato per un intervento che ho svolto in una classe di una scuola superiore pavese, un incontro con gli studenti incentrato sull’uso e abuso di sostanze, con particolare attenzione sull’uso smodato di bevande alcoliche tra i più giovani.

Non c’è solamente la droga a fare da assassina di una generazione sempre più stanca, adesso è il momento dei beveroni, delle bombe colorate, dei vini e delle birre da non perdere, gli spinelli e la polvere degli angeli sono surclassate dall’alcol, la roba illegale è annacquata nella legalità di un bicchiere moltiplicato all’infinito.

C’è preoccupazione per quanto sta accadendo nel mondo giovanile, dove c’è timore di non farcela, un desiderio feroce di mollare gli ormeggi della normalità, quella linea mediana che non è intesa come salvavita, bensì come una costrizione sonnolenta e banale.

C’è un plotone di bicchieri, di desideri incontaminati ad aspettare, una voglia pazza di essere al nastro di partenza senza ulteriori inquietudini da tenere pancia a terra, dove ognuno gioca la propria partita e le proprie carte barando reciprocamente, con il risultato di soccombere con gli occhi spalancati dalla stupefazione.

Offerta e richiesta seppure influenzate dal mercato in crisi, continuano a non fare prigionieri, senza scossoni alla diminuzione e l’arretramento sul fronte del commercio sottobanco: allora ecco lo sfondamento delle sostanze alcoliche, altrettanto facili da reperire all’angolo della strada, ma con l’aggiunta di essere legalmente acquistate anche per chi non potrebbe, con buona accettazione sociale, in fin dei conti chi di noi in gioventù, non ha portato a casa una sonora sbornia?

Ma non si tratta di una sporadica insubordinazione adolescenziale, di una botta di adrenalina ai giochi di Gardaland, è piuttosto un nuovo stile di vita, un modo roboante per non restare impigliati nelle seconde linee, dove non esiste possibilità di esser visti.

E’ più corretto considerare l’alcol alla stregua di una vera e propria droga, e se è vero che di sostanze stupefacenti ci sono decine di decessi ogni anno, è ancora più vero che sono centinaia e migliaia i morti ammazzati direttamente o indirettamente per l’eccesso di confidenza con l’alcol, non soltanto implosioni riconducibili a cirrosi o tumori, ma vere e proprie esplosioni in incidenti stradali e famiglie disintegrate.

Quel padre è preoccupato nonostante la fiducia ben riposta nella figlia, perché non lo mette al riparo da ciò che corrode la nostra società, da quanto manomette le generazioni più giovani, da quello che è irresponsabilmente declinato come lo sballo del sabato sera, quasi a esser contenti che sia devastazione solo per una sera.

Che l’alcol sia dannoso e imponga omertà è innegabile, eppure a parte qualche intervento preventivo, qualche slogan ben confezionato, qualche spot ben pagato (ma farraginoso ), per fare paura a chi paura non c’è l’ha, di alcol se ne vende a fiumi per rendere marionette i più giovani.

Il mondo adulto dovrebbe possedere più ardimento nell’affrontare la nuova sfida educativa, perché è proprio questa paura ad avere influenzato negativamente gli stili comportamentali dei giovani, questi messaggi ambivalenti stanno alimentando l’inganno dell’abitudine generando la sofferenza di quel mal di vivere in tanti nostri figli.

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QUANDO GIUNGERA’ IL TEMPO DI RIPARARE

di Vincenzo Andraous

Per superare la non-raccontabilità del carcere italiano occorre avere più coraggio per ciò in cui si crede, per non lasciare inalterata questa condanna aggiunta ingiustamente alla condanna da scontare, affinché l’uomo che convive con la propria pena, colga il senso di ciò che si porta dentro.

Chi sbaglia e paga il proprio debito con decenni di carcere ( quando giungerà il tempo di sostituire quel verbo “pagare” con “riparare” sarà sempre troppo tardi ), attraversa davvero tempi e contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico.

Non c’è più l’uomo sconosciuto a se stesso, ma uomini nuovi che tentano di riparare al male fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato offeso, e quella società che è tale perché offre, a chi è protagonista della propria rinascita, opportunità di riscatto e di riparazione.

Continuare a parlare del carcere che ancora non c’è, del carcere che occorre quanto meno migliorare, è obbligante non solo per l’uomo detenuto, ma anche e soprattutto per la ricerca di una Giustizia giusta ed equa, una Giustizia che è anche perdono, e che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è mai un atto di debolezza.

Questo mondo penitenziario deprivato di ruolo, di scopo, di utilità, è ridotto così perché è il risultato creato e prodotto dal sistema? Quale sistema? Il sistema per cui qualcuno pensa che per risolvere il problema della devianza, basta mettere in prigione il delinquente e gettare via la chiave, tutto è risolto? Il sistema che esclude, e conclude in noi stessi, la non volontà a recuperare la persona con un impegno reale e coerente?

Penso ai tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie dimenticate, sono convinto che non esistono slanci in avanti utopisti, esistono esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso.
Mi chiedo se è possibile perdonare, nella necessità di salvaguardare la collettività, ormai improntata alla sola risposta penale, al solo deterrente carcerario.

Forse sarebbe il caso di trasformare un contesto disumanizzato e disumanizzante, in un tempo che non estrania dalla propria identità, dal proprio valore di persona.

Se è vero che ognuno vive il suo presente in funzione delle scelte del passato, è anche più vero che rielaborando e rivisitandone gli anfratti, può accadere che il detenuto abbandoni la mera convinzione di avere pagato quanto dovuto.

Occorre riconoscere il bisogno di un percorso umano ( non solo cristiano ) nella condivisione e nella reciprocità, quindi nella accettazione di una possibile trasformazione e cambiamento di mentalità, non certamente quella di lasciarsi andare e volgere le spalle al proprio rinnovamento, imparando che anche dalle critiche più feroci, c’è insita la possibilità di dialogare e confrontarsi, soprattutto di crescere insieme, affinché anche il carcere, senza sterili contrapposizioni ideologiche, possa diventare un luogo, sì, di pena, ma anche a davvero un luogo di speranza, con il coraggio di scegliere fra tanti dubbi, un percorso significativo su cui giocarsi un pezzo di vita, per il bene di tutti, società libera e detenuta.