La crisi libica e l’Italia: il fiasco della politica estera personale del cav. berlusconi.

Gim Cassano
www.criticaliberale.it

La crisi libica ha mostrato impietosamente limiti, superficialità, contraddizioni, della conduzione della nostra politica estera; il dibattito che ne è seguito nel Paese ed in Parlamento ha visto le nostre forze politiche valutare le questioni di politica estera in funzione della lotta e della ricerca di consenso interno, senza contribuire granchè alla serietà di una discussione sul ruolo internazionale del Paese.

La politica estera berlusconiana

Occorre premettere che il nostro Paese ha sovente avuto difficoltà ad identificare coerentemente il proprio ruolo internazionale, i propri interessi di fondo, le proprie aspirazioni. E che, in 150 anni, la politica estera italiana raramente è stata improntata ad un rigore concettuale fornito dall’equilibrio e dalla coerenza tra concezioni culturali, fini, interessi, comportamenti,.come fu nel periodo cavouriano o in quello che, dopo il Trattato di pace, ci ha portati ad assumere un ruolo decisivo nell’avvio del processo di integrazione europea.
Non credo sia casuale il fatto che l’una e l’altra volta si era dovuti partire da condizioni di estrema debolezza, nelle quali era necessario costruire o ricostruire tutto, che in entrambi i casi ci si concentrò su una vocazione europea e si adottarono comportamenti che, se potevano apparire orientati ad un understatement di fondo, seppero invece conquistarsi rispetto e credibilità grazie ad una chiara e coerente identificazione di priorità, obbiettivi, ruoli, indirizzi politico-ideologici, alla ricerca realistica dell’equilibrio tra fini e mezzi. Non è stato così in altri momenti della nostra storia: malcelate concezioni di prestigio, desiderio di rivalsa nei confronti di Paesi più forti del nostro, provincialismo culturale, incapacità di identificare il ruolo del Paese ed i suoi reali interessi, la furbesca attenzione a presunti vantaggi di breve periodo, hanno condotto alla Triplice, alle disastrose o vergognose, secondo i casi, imprese africane succedutesi nel corso di circa 50 anni, al Patto d’Acciaio.
Nella politica estera dell’Italia berlusconiana sono riconoscibili alcuni tratti costanti che la apparentano al secondo dei due modelli delineati sopra. Sin dal primo governo Berlusconi (ministro Antonio Martino), la freddezza nei confronti del processo di costruzione europea, visto anche come uno dei frutti di ispirazioni culturali -liberale, popolare, socialista- alle quali Lega e AN erano del tutto estranee, e delle quali Forza Italia rappresentava la degenerazione, è stato uno dei tratti costanti. E, sin dall’avvio del secondo governo Berlusconi, la rottura con il ministro Ruggiero rappresentò l’avvio di una politica estera improvvisata, mutevole, e caratterizzata da una gestione eminentemente personale.
Nell’età berlusconiana si sono così sviluppati indirizzi e comportamenti di politica estera fortemente influenzati dal protagonismo di facciata di un leader che, non pago di recitare la parte dell’uomo del destino sulla scena interna, pretendeva di apparire tale sul piano internazionale (ricordiamo Pratica di Mare). Dal servilismo nei confronti di Bush figlio si è passati ad un rapporto sempre più freddo nei confronti del suo “abbronzato” successore. Lo stesso è avvenuto nei confronti di un’Europa che più di una volta ha manifestato fastidio per i ritardi italiani nel recepimento delle direttive comunitarie, per la finanza creativa, per le nostre posizioni sui diritti umani di rom e migranti, per la presunzione di leadership, le battute ed i comportamenti privati e pubblici del nostro premier, e che si preoccupa, fondatamente e con pieno diritto, delle sorti della democrazia italiana. Occorre al riguardo ricordare le ricorrenti battute apologetiche sul fascismo, tema al quale la cultura politica europea, anche di parte conservatrice, è tuttora assai sensibile.
Quasi si cercasse una rivalsa nei confronti dello scarso credito e dell’irritazione suscitati dalle ripetute prese di distanza, aggravate da commenti spropositati e comportamenti ridicoli, si è finito col raffreddare i rapporti con quei Paesi coi quali dovremmo cooperare in Europa e nella Nato, non perdendo occasione per mettere in evidenza conflittualità di vedute, di interessi, di modelli culturali. E, per contro, ci siamo ritagliati in alternativa rapporti preferenziali ed amicali con regimi corrotti, violenti, antidemocratici, usi al terrorismo ed all’omicidio politico, rendendoci di conseguenza sospetti e privi di credibilità ed autorevolezza nei rapporti internazionali. La più impietosa conferma al riguardo non arriva da giornalisti della sinistra europea o dalla stampa liberal ma, tramite Wikileaks, dai rapporti della diplomazia USA, che sorniona ritiene che quante più saranno le incoerenze sviluppate dal governo italiano, tanto più sarà facile imporgli le proprie scelte.
Ora, è sin troppo facile dire che nessuno è senza peccato, e che siamo comunque in una compagnia piuttosto affollata, e che in tutto il mondo le democrazie occidentali continuano a tollerare, facendoci affari, regimi peggio che impresentabili.
Ma il mantenere rapporti con un regime dal quale dipendono forniture essenziali, è cosa ben diversa dallo stipulare con esso un trattato di amicizia e collaborazione (anche militare), in dichiarato spregio ai diritti umani dei neri subsahariani, ed in spregio ai nostri impegni proprio con quella Nato della quale oggi, per puro desiderio di rivalsa nei confronti di Sarkozy, ci siamo fatti sostenitori. E, analogamente, lo sviluppo di rapporti commerciali con la Russia non avrebbe dovuto implicare, come, con maggiori dignità e coerenza, non implica per altri, lo sposare politicamente la cleptocrazia omicida dell’amico Putin o l’appoggiarne le pulsioni imperialiste e panslaviste in Transcaucasia o nei Balcani, dirette discendenti della politica degli czar.
Il tutto è stato aggravato dalla conduzione a titolo personale della politica estera, legata alle amicizie ed alle affinità elettive del leader, condita da gesti irrituali ed idioti, quali i “misteeer Obaaaama”, le profferte d’amicizia ed i baci, i commenti inappropriati, che hanno finito con l’aggiungere il ridicolo all’irritazione.
E’ stata una politica estera speculare a quanto avveniva in politica interna, basata sull’apparire, sulla superficialità, sul cinismo nei confronti dei diritti dei popoli e dei doveri dei governi, sull’affarismo malcelato di amici e sodali (vedi Finmeccanica); ma soprattutto, come si vede in questi giorni, posta al di fuori di ogni seria valutazione degli interessi reali e di lungo periodo e dal sentire del Paese, che da ultimo ci ha condotti alla stipula, nella perplessità dell’intera Europa, di quel trattato con la Libia che ora ci si è ritorto contro.

Le rivolte arabe

L’esplodere delle tensioni nel mondo arabo, che ormai non riguarda più solo il NordAfrica, ha colto sostanzialmente impreparato tutto il mondo occidentale, che non riteneva possibili rivolte e proteste in Paesi dominati da regimi tra loro diversi per origini e storia, ma accomunati dall’autoritarismo, dalla presenza di forti apparati di sicurezza e polizia, dalla corruzione, dall’eternità e dal familismo dei leaders. L’Occidente ha sbrigativamente considerato queste società, nelle quali non sussiste una società civile secondo i propri canoni, come ancora immerse in una sorta di perenne Medioevo; quel che loro si chiedeva non era un progresso civile ed economico, ma essenzialmente di non accedere al terrorismo e di preservare gli equilibri regionali necessari a mantenere aperti i rifornimenti energetici ed un minimo di stabilità geopolitica. E l’Occidente non vedeva fondamentalismo, assolutismo, dittature, come ostacoli in sé al mantenimento di rapporti politici, commerciali e diplomatici, sino a che non venissero messi in discussione quegli equilibri.
Ed erano stati completamente sottovalutati il ruolo dissacratore e liberalizzatore e la capacità comunicativa e di mobilitazione del web che ha consentito, pur in presenza di stampa e televisioni di regime, la formazione di un’opinione pubblica e di un’opposizione politica in grado di muovere gran parte di quei Paesi.
Ma, all’esplodere delle rivolte tunisina ed egiziana, il mondo occidentale, con Obama in testa, ha capito abbastanza rapidamente che non ci si trovava difronte a semplici lotte tra fazioni, e che queste rivolte, nate dal caro-vita e dalle condizioni economiche, assumevano man mano un significato sempre più ampio e mettevano o avrebbero messo in discussione le radici del potere. E capivano che si trattava di un movimento che aveva la potenzialità di dilagare in tutto il mondo arabo. Pertanto, non si è mosso un dito per salvare quei regimi, che sono stati abbandonati prontamente al loro destino nella speranza che il fuoco si spegnesse prima di estendersi ulteriormente.
Già in questa fase è emersa una differenza di valutazioni e di atteggiamenti tra l’Occidente ed il governo italiano. Quest’ultimo è apparso orientato ad una sostanziale indifferenza nei confronti delle esigenze di apertura poste dalle rivolte tunisina ed egiziana ed al manifestare sfiducia in una loro possibile evoluzione verso forme politiche più prossime alla democrazia, facendo balenare lo spettro del fondamentalismo. Ma, prima di tutto, per ragioni ancora una volta di equilibri interni, ha visto questa situazione non come un mutamento epocale (il 1848 arabo, come è stato descritto) rispetto al quale dover prendere una posizione, ma unicamente come la causa di un probabile incremento dei flussi migratori, peraltro senza che venisse nulla predisposto al riguardo.

La crisi libica

L’esplodere della crisi in Libia ha introdotto elementi nuovi, che possono anche far pensare ad una frattura dell’unità del Paese [1]; e, per quanto ci riguarda, ha reso drammatici i limiti e le incongruenze della nostra politica estera.
La protesta contro il regime ha avuto inizio a Tripoli, secondo le forme già viste a Tunisi ed al Cairo; e, quasi contemporaneamente, in Cirenaica, dove ha rapidamente conquistato terreno ed è arrivata a darsi un inizio di forma politica. Ma, a differenza di Ben Alì e di Mubarak, dopo l’iniziale sorpresa, Gheddafi ha reagito con determinazione e violenza, mobilitando quella parte delle forze armate rimastagli fedele, chiamando ed attivando milizie mercenarie e, allo scopo di evitare il contatto diretto dei militari con le folle ed i conseguenti rischi di fraternizzazione (le rivoluzioni hanno già vinto quando l’esercito inizia a non sparare sulla folla), adottando una tattica che prevedeva vere e proprie azioni militari al posto di una sia pur dura repressione di piazza. In sostanza, trattando coloro che protestavano ed i loro quartieri e città, senza alcuna distinzione tra insorti e non, come nemici esterni da sterminare a distanza con cecchini, artiglieria, aviazione; e dichiarandolo apertamente nel definirli “ratti da sterminare”. E l’azione dei miliziani del dittatore verso Est ha assunto per intero l’aspetto di una conquista o riconquista, puramente militare, della Cirenaica.
Questo ha cambiato il quadro, ed i seguaci del “né con la guerra, né con Gheddafi” dovrebbero tenerne conto. La guerra è stata dichiarata da Gheddafi contro il “suo” popolo, ed è stata ed è guerra condotta apertamente e dichiaratamente.
Se l’Occidente (e l’ONU) hanno avuto un torto, è stato quello non attivarsi per tempo: è molto probabile che il dichiarare tempestivamente, quando il dittatore non aveva il controllo che di una parte della Tripolitania, l’imposizione della “no-fly zone”, lo schierarne il relativo dispositivo, insieme alla proposta di una uscita di scena concordata, sarebbero stati sufficienti a chiudere la partita; e soprattutto, ad evitare molti dei massacri e l’avanzata sino alla periferia di Bengasi.
E si deve anche riconoscere che, se pure tra le motivazioni francesi quella umanitaria non è stata né l’unica, né quella prevalente, e l’intervento odora più di petrolio che di Marianna, il ruolo e la determinazione che la Francia ha assunto nella vicenda hanno comunque impedito che le milizie del dittatore riuscissero a chiudere la partita con la vittoria del dittatore sul suo popolo e l’assoggettamento della Cirenaica.
In questa situazione, non potevano non venire al pettine le contraddizioni della nostra politica estera, ed il famigerato trattato non poteva non rivelarsi un boomerang.
Senza aver predisposto nulla, le preoccupazioni del nostro governo apparivano rivolte principalmente alla questione dei profughi, vista unicamente come necessità di ergere una barriera che peraltro si sapeva già debolissima e come terreno di rivendicazione nei confronti dell’Europa. E le nostre posizioni riguardo alla crisi libica si indirizzavano alla rinuncia ad ogni intervento, neanche di moral suasion, in quella che veniva considerata come una questione interna libica (l’idiota “non ho voluto disturbare” [il suo amico Gheddafi] del cavaliere); al negare l’evidenza dei massacri (Giovanardi); al minimizzare e derubricare la rivolta a scontro tribale (tesi questa che si è poi fatta strada presso i pacifisti di casa nostra). Altri, come il Presidente della Commissione Esteri del Senato, Lamberto Dini, parteggiavano apertamente per il dittatore.
Da parte nostra, non si andava oltre la scontata deprecazione degli eccessi di un dittatore del quale ci eravamo dichiarati amici, ma si temevano soprattutto le conseguenze di una possibile vittoria dei ribelli, che ci avrebbero rinfacciato il trattato e, probabilmente, cancellato contratti ed affari.
Dopo i primi massacri, l’unica iniziativa seria che si sarebbe dovuto intraprendere, come premessa razionalmente necessaria di una politica diversa, sarebbe stata la denuncia unilaterale del trattato. Ma, per non irritare il macellaio (non si sa mai chi alla fine possa spuntarla), si inventava la formula della sospensione “di fatto”, che il fine giurista La Russa veniva a spiegarci come realizzata automaticamente grazie al mancato controllo del Paese da parte del governo libico; poi si mutava versione, considerando la sospensione come effetto implicito della risoluzione ONU. Si sa, siamo la patria del diritto, e qualche garbuglio riusciamo ad azzeccarlo sempre: tutto, pur di non intraprendere un atto formale che, tra l’altro, avrebbe comportato la sconfessione ed il ribaltamento della linea sin lì seguita dal cavaliere, sia pur con la complicità del PD; ma che, intrapreso, ci avrebbe almeno consentito, nel prosieguo, una maggior credibilità.
Così, se l’indignazione dell’opinione pubblica interna ed internazionale suggeriva di prendere apertamente le distanze da Gheddafi, sollecitarne l’abbandono della scena politica, prender parte attiva alle consultazioni internazionali al riguardo, (tutte cose che poi ci siamo visti costretti, obtorto collo, a fare), si preferiva non far nulla, attendere, e ricorrere alla finzione della sospensione di fatto del Trattato. Risultati? Uno solo: quello di venir considerati inaffidabili da una parte e dall’altra.

L’intervento

Con questi presupposti, era evidente che il governo italiano (a differenza di quello tedesco, che pure aveva scelto di non intervenire, ma non aveva i nostri precedenti) non potesse seriamente esser considerato da alcuno né un partner né un interlocutore credibile; e meno che mai da USA, Francia e Gran Bretagna, che stavano decidendo, sia pur tardivamente, di intervenire.
Così è stato: l’adozione della risoluzione 1973 dell’ONU ha di fatto obbligato il governo italiano, già abbondantemente screditato sul piano politico e su quello della figura del suo leader, ad intervenire. Di malavoglia, ridicolizzati e soprattutto ininfluenti su un intervento armato che doveva svolgersi a 300 miglia dalle nostre coste e richiedendo l’uso delle nostre basi. Le decisioni sono state prese da altri, senza neanche ascoltare, giustamente, chi aveva baciato la mano a Gheddafi e non aveva avuto il sussulto di dignità di revocare unilateralmente, per indegnità, il trattato.
Ha dovuto ammetterlo persino il capo del governo, che è tornato da un vertice (quello di Parigi) nel quale ha dovuto recitare la parte per lui inusuale della comparsa, affermando che non c’era altra soluzione. L’Italia aveva l’unica alternativa tra l’accettare supinamente quanto veniva richiesto, o rompere ed isolarsi ancor di più dal novero dei Paesi civili. Si paga così il conto di una politica estera condotta in termini personali da un leader ignorante, furbesca, priva di dignità e coerenza, ed incapace di guardare avanti. E, soprattutto, fondata in questo caso su un oscuro minestrone, fortemente voluto dalla Lega, finalizzato a far fare ai libici il lavoro sporco nei confronti dei migranti, conformemente alla tradizione berbera di trattar da merce i neri dell’Africa sub sahariana, nel quale affari ed interessi privati si sono affiancati alla legittimazione internazionale di un regime corrotto e violento (peraltro ricambiata con insulti e provocazioni), nonché alla violazione dei nostri impegni con la Nato.

Quanto ne è seguito ha del comico

La maggioranza ha seguito più linee contemporaneamente, che ci fanno capire come da parte nostra non esista alcun indirizzo coerente, e di fatto non esista una politica estera intesa come cosciente convincimento ed assunzione di responsabilità da parte di un Governo e della maggioranza che lo sostiene.
Così, abbiamo visto di tutto: avviarsi un’azione militare che, secondo alcuni era un intervento militare a tutti gli effetti, e secondo altri era costituito da poco più che da azioni di sorveglianza; si è sentito il capo del governo di un Paese Nato che, mentre invocava il controllo delle operazioni da parte di questa per ridimensionare il ruolo dei francesi, affermava di provar “rincrescimento” per l’amico Gheddafi, e disertava poi il dibattito in Parlamento, non sapendo che dire e temendo le troppe contraddizioni della propria posizione e della propria maggioranza; La Russa indossare l’elmetto ed offrire aeroplani e basi a destra e sinistra, e rivendicare un ruolo “alla pari”; la Lega pretendere l’ammorbidimento del documento da votare in Parlamento, e già accettato da maggioranza ed opposizione, reclamando la conferma delle clausole commerciali ed anti-immigrati del famigerato trattato; Frattini avviare un tentativo di toglierci dall’isolamento che contraddice completamente la linea seguita dal capo del suo governo, nel momento in cui comunque postula, necessariamente, quel “futuro senza Gheddafi” inviso alla Lega ed a Berlusconi che, adottato tempestivamente, ci avrebbe conferito ben altra dignità e ben altro ruolo. E via via di questo passo, sino al velleitario e provocatorio annuncio di un “piano italo-tedesco”, inesistente e mai concordato coi tedeschi, morto prima di essere nato, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del nostro governo, esser la base di un fronte anti anglofrancese. Tutto, pur di apparire.
In un qualsiasi altro Paese, divergenze di tale portata su una questione cruciale, avrebbero portato ad un dibattito serio sulla politica estera, ad un voto di fiducia, ed alla crisi di un governo che non c’è. Da noi, questo non avviene: non si riesce a considerare le questioni di politica estera come una cosa seria, dalla quale dipende non poco del futuro del Paese.
Ma, se si passa all’opposizione, la qualità delle posizioni non varia di molto. A parte lo sgrammaticato, confuso, del tutto inconsistente, intervento di Di Pietro, il cui populismo rende i migliori servigi ad un governo senza idee, il PD è soprattutto preoccupato di far dimenticare il proprio voto favorevole al trattato. E, in quanto al resto della Sinistra, non si è andati oltre il “Né con Gheddafi, né con la guerra” di SEL, che si rifiuta di capire che la guerra c’era già: quella di Gheddafi contro il suo popolo. A questo, si è unito il solito ritornello dei senza se e senza ma, conditi dalla evidenziazione del tribalismo degli insorti e delle non commendevoli intenzioni dei francesi.
Il logico sviluppo di questa vicenda è la teleconferenza di oggi lunedì 28 marzo, tra Obama, Cameron, Sarkozy, e la Merkel, della quale all’Italia non è stata data neanche comunicazione, per stabilire il futuro di una Libia senza Gheddafi. Il che seppellisce il velleitario, provocatorio e sbandierato annuncio di un “piano italo-tedesco”, inesistente e mai concordato coi tedeschi, morto prima di essere nato, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del nostro governo, esser la base di un fronte anti anglofrancese.
E’ significativo che sia stata invitata la Germania, che pure non aveva preso parte all’intervento, e che impedisce di considerarla una conferenza di falchi. A tanto porta una conduzione personale ed incoerente delle relazioni internazionali ed un clown a capo del governo.

[1] La dizione di “Libia” è un’espressione del colonialismo italiano, ereditata poi dall’ONU. Tripolitania e Cirenaica erano due Vilayat autonome dell’Impero Ottomano; come tali comparvero nel trattato di Losanna col quale gli ottomani rinunziarono alla sovranità su di esse (senza peraltro cederla all’Italia); e rimasero amministrativamente separate sino all’inizio degli anni ’30, dopo che fu sottomessa la Cirenaica che costituì la base della resistenza contro gli italiani. E’ interessante anche ricordare che il Re Idris si proclamò dapprima re della Cirenaica, e solo successivamente, re di Libia.