Lampedusa, l’Ellis Island italiana

Pierstefano Durantini (*)
Adista segni Nuovi, n.31/2011

Quando l’aereo sta per atterrare, osservando dal finestrino si comprende bene che l’isola di Lampedusa è proprio piccola. Una striscia di terra in mezzo al mare di un blu intenso e profondo. è poco più di uno scoglio, brullo, selvaggio, a tratti ostico ed estremo, con le sue coste per lo più alte e rocciose. Non so perché, ma così a prima vista, dall’alto, mi ricorda Manhattan, sarà per la forma lunga e stretta o forse per quella sensazione di roccia dura e solida che emana. Mancano solo i grattacieli. Di sicuro è piccola, molto piccola, ha una superficie di circa 21 kmq, meno della metà del lago di Bracciano.

È la parte più a sud d’Italia, è più vicina all’Africa che alla Sicilia, è il nostro avamposto meridionale. Del resto i romani ne avevano fatto una sorta di base durante le guerre puniche, quando «Cartago delenda est» e pare che siano stati loro la causa della pressoché totale assenza di alberi d’alto fusto, saccheggiati per il bisogno di legna. Infatti, volgendo lo sguardo oltre il piccolo centro abitato si notano solo siepi e rovi, la classica macchia mediterranea, e sassi tanti sassi, rocce di ogni dimensione e fattezza.

Ti accorgi di quanto è vicina l’Africa – la Tunisia è a soli 113 km quasi la metà rispetto alla costa siciliana che è invece a 205 km – appena esci dall’aeroporto e vedi una sessantina di migranti tunisini in attesa di essere imbarcati su un aereo per la penisola, controllati bonariamente da alcuni agenti in divisa sotto un sole caldo, che rende il clima mite e piacevole. Questa immagine fa comprendere immediatamente che Lampedusa non è solamente quel luogo di vacanze, dove tanti turisti trascorrono le proprie ferie su spiagge bianchissime bagnate da un mare trasparente e cristallino, tanto splendido quanto invitante.

Ora Lampedusa è divenuta la nostra Ellis Island, l’isola newyorkese di fronte a Manhattan, proprio accanto alla statua della libertà: quella lingua di terra che ha accolto, nel secolo scorso, milioni di migranti che cercavano fortuna negli Stati Uniti d’America. E tra quei “brutti, sporchi e cattivi”, che aspettavano lì in quarantena, c’erano tanti italiani, i nostri nonni e bisnonni. Ora dopo quasi un secolo, l’isola di Lampedusa è l’approdo per l’Italia, la porta d’ingresso di migliaia di africani verso il nostro Paese e l’Europa: siamo divenuti il loro sogno americano. Del resto, e nonostante tutto, siamo tra le otto potenze economiche mondiali, se non li accogliamo noi, chi altri?

Girare a piedi per il piccolo centro abitato è fonte di contraddizioni. Le strade strette e semplici, i colori pastello delle abitazioni, tutte alte un paio di piani o poco più, i panni umidi stesi ad asciugare accanto all’uscio di casa e i volti della gente, rimandano al classico paese del meridione italico, ma la quantità di mezzi e uomini delle forze dell’ordine presenti stona. Il paese appare militarizzato e se il neovisitatore non fosse al corrente della grande ondata dei migranti, non ne capirebbe il perché.

La contraddizione aumenta quando ci si rende conto che di fronte a tale spiegamento di forze, praticamente tutti, giovani e anziani, uomini e donne, vanno in motorino senza indossare il casco. Si tratta, però, di una sorta di anarchia che non disturba, anzi dà l’impressione di un posto tranquillo, molto tranquillo. Prova ne sono le porte aperte, le chiavi lasciate inserite nei cruscotti delle auto, il venditore di frutta e verdura che lascia sguarnito il suo negozio per andare al bar e farsi un caffé.

E poi ci sono loro, i migranti, tutti tunisini, uomini, in maggioranza tra i venti e trenta anni, che se ne vanno in giro per il paese facendo la spola tra il porto, il luogo che li ha accolti dopo un viaggio lungo e difficile nonché denso di insidie, che oscilla tra le 8 e le 40 ore a seconda del tipo di imbarcazione e delle condizioni del mare, e via Roma, la strada principale del paese, ove si mischiano con la popolazione locale, per poi rientrare, quando fa buio, nel centro d’accoglienza, situato un po’ fuori mano e presidiato da uomini della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, coadiuvati anche da qualche soldato dell’Esercito.

Il centro d’accoglienza è chiuso ai giornalisti, da fuori si riesce però a percepire che esso è assolutamente sottodimensionato rispetto al numero di stranieri presenti. Di notte, infatti, raccontano molti di loro, ci si arrangia. E non essendoci posti letto liberi, tanti sono quelli che dormono all’aperto su un cartone, con teli di plastica che fungono da coperta. Al solo immaginarlo vengono i brividi, vista l’elevata escursione termica tra il giorno e la notte. E poi c’è il vento, assiduo frequentatore dell’isola che, se la rende più vivibile d’estate, la fa divenire sicuramente più aspra d’inverno.

Col passare dei giorni ci si accorge a vista d’occhio che il numero degli sbarchi, facilitato pure dalle buone condizioni del mare, sta aumentando. Quando un barcone arriva fa impressione vedere le condizioni in cui questi giovani hanno viaggiato, stretti l’uno all’altro, coperti all’inverosimile a causa del freddo della notte e dell’umidità. Alcuni appena toccano terra fanno fatica a reggersi in piedi, sono esausti, barcollano, e il personale sanitario che presta i primi soccorsi, cerca in tutti i modi di alleviare le loro sofferenze. Seguendoli con lo sguardo, mentre remissivi obbediscono agli ordini degli agenti dell’immigrazione che subito li organizzano in gruppi, si resta colpiti: in tanti letteralmente tremano dal freddo, ma sono felici di essere giunti nella loro agognata destinazione.

Sono veramente tanti gli immigrati in giro per il paese. In teoria non potrebbero uscire dal centro d’accoglienza, ma lontano dagli occhi delle forze dell’ordine, superano facilmente le precarie recinzioni e se ne vanno in giro per il paese. E forse è meglio così, almeno la tensione non sale.

In pochi giorni il numero delle carrette del mare che hanno trasportato questo carico umano è cresciuto sempre più, alcune sono ancorate in porto, altre accatastate in una sorta di parcheggio lì accanto, quello che viene definito il cimitero delle barche. Sono tutte sottoposte a sequestro giudiziario e osservandole bene ti chiedi come abbiano fatto ad arrivare fin qui. Pare impossibile che possano galleggiare, se poi pensi che erano affollate all’inverosimile capisci che in questi anni in tanti certamente non ce l’avranno fatta e ora riposeranno in fondo al mare, dimenticati da tutti.

Gli sbarchi sono aumentati così tanto, che le forze dell’ordine non hanno più condotto gli stranieri nel centro d’accoglienza, ormai stracolmo, lasciandoli nell’area commerciale del porto e nei locali della stazione marittima, divenuti presto saturi. Ognuno si arrangia come può all’aperto, con quei quattro stracci che si è portato dietro, oppure con gli abiti e le coperte fornite dalla cooperativa che gestisce il centro d’accoglienza. Ma è chiaro che nonostante gli sforzi di tutti, Forze dell’Ordine, Croce Rossa, Vigili del Fuoco, Guardia Costiera e volontari, diviene ogni giorno più difficile gestire questa marea umana, che ha ormai ampiamente superato le cinquemila unità, più della popolazione stessa residente a Lampedusa.

I cittadini sono preoccupati, esasperati e si sentono abbandonati. Eppure sono abituati da anni ad accogliere i migranti: è una popolazione semplice quella di Lampedusa, ma molto generosa con questi ragazzi venuti dall’Africa. Non è raro infatti assistere a scene di questo tipo: un anziano sulla porta di casa sua che offre il caffé a un paio di ragazzi fermatisi davanti la sua abitazione. Stavolta però gli abitanti hanno ben chiaro che la situazione è sfuggita di mano e che non è solo una questione di ordine pubblico. Manca infatti la politica, quella con la P maiuscola, la stessa P di programmazione, di cui non c’è alcuna traccia.

Allora è facile ascoltare in un bar due donne che discutono tra loro dicendo: «…ma la nostra è un’isola per gli extracomunitari o per la pesca e il turismo? Perché non li mandano a Pantelleria? Oppure perché non mettono qualche nave al largo per ospitarli tutti?». E l’altra che ribatte: «Gli stranieri ci sono sempre stati qui, così come nel resto d’Italia e d’Europa, dobbiamo abituarci, ormai è così.» Forse questa riflessione è giusta, denota che il problema è molto più ampio. Del resto fin quando il 20% della popolazione mondiale si approprierà dell’80% delle risorse mondiali e oltre un miliardo di persone sopravviverà con meno di un dollaro al giorno, questo flusso dal Sud del mondo non si fermerà, anzi crescerà sempre più.

Ma prova a spiegarlo ai lampedusani. Infatti un altro mi dice: «Ormai pare che a Roma il governo voglia trasformare l’isola in un grande campo profughi, anzi una prigione a cielo aperto. Qui si può fare il primo soccorso, ma non siamo attrezzati per la lunga permanenza. Il governo è ostaggio della Lega Nord, che ha già strumentalizzato abbastanza Lampedusa facendola divenire un falso simbolo della lotta dura all’immigrazione. Qui è una polveriera, possibile che il mega incendio del 2009, che distrusse parte del centro d’accoglienza, non abbia insegnato nulla? Servono urgenti e ampi trasferimenti dei migranti con mezzi aerei e navali». Come dargli torto? Eppure i trasferimenti avvengono, ma sono troppo pochi rispetto agli arrivi sempre più incessanti, è come svuotare il mare col cucchiaino.

Il lavoro di Polizia e Carabinieri è tanto e non agevole, i turni a cui sono sottoposti coloro che rappresentano lo Stato in questo lontano angolo d’Italia sono massacranti, ma tutti cercano di non perdere mai la pazienza, anche quando la tensione sale, per esempio quando è l’ora dei pasti o quando nessuno dice ai migranti quale sarà il loro destino e quando finalmente partiranno.

Parlare con un rappresentante di Frontex, l’agenzia europea per il controllo sulle frontiere, ci rende un po’ più orgogliosi di essere italiani. Egli, infatti, loda il comportamento degli operatori di polizia – «ho notato un modo umano, ma professionale e rispettoso nei confronti degli stranieri», dice – per esempio quando avviene il fotosegnalamento e l’identificazione tramite le impronte digitali, un modo di rapportarsi con l’immigrato diverso e certamente migliore rispetto agli spagnoli o ai greci, dai modi sicuramente più spicci e bruschi.

Infatti, nessun migrante si lamenta del comportamento delle forze dell’ordine, molti cercano il confronto con loro. E fa sorridere, ma rende bene l’idea di quanto questi ragazzi siano spaesati e inconsci del loro destino, ascoltare più di uno chiedere all’agente di Polizia di turno dov’è la stazione ferroviaria o addirittura la metropolitana per andare a Marsiglia o a Parigi. Si, perché non tutti vogliono rimanere in Italia e parlandoci diviene chiaro che tanti vorrebbero andare all’estero, soprattutto in Francia, per raggiungere parenti o amici, per lavoro o per completare gli studi e ottenere il baccalaureato. Altri spiegano, invece, che per loro non c’è futuro in Tunisia, la disoccupazione è tanta e la situazione è un caos, il governo non esiste e comanda solo la polizia e l’esercito, preferiscono quindi cercare fortuna all’estero e l’Italia è così vicina.

Però, la scena che più tocca il cuore – che andrebbe riferita al ministro Bossi, il quale con un infimo livello di umanità ha liquidato la situazione dei migranti a Lampedusa con il vergognoso «fora dai ball!» – è quella di un giovane di circa sedici anni, che a tarda notte mentre sale, insieme a una cinquantina di connazionali, sul pullman che lo accompagnerà al centro di accoglienza per le procedure di identificazione, chiede in un buon francese a un sorpreso carabiniere: «…ma domani c’è scuola?».

* Giornalista e fotografo, del gruppo romano di Noi Siamo Chiesa