Se l’articolo 18 diventa un lusso

Stefano Rodotà
La Repubblica, 20 dicembre 2011

Gli effetti del decreto “Salva Italia” dureranno a lungo, perché redistribuiscono poteri e risorse. Per questo non è possibile far tacere lo spirito critico, né pretendere una sorta di acquiescenza sociale, alla quale giustamente i sindacati hanno detto di no. Il decreto, infatti, tocca profondamente vita e diritti delle persone.

I diritti sono diventati un lusso? L'”età dei diritti” è al tramonto? Di questo discutiamo in questi tempi difficili, e non solo in Italia.

E’ tornata l’insincera tesi dei due tempi: prima risolviamo i problemi dell’economia, poi torneranno i bei tempi dei diritti. “Prima la pancia, poi vien la morale” – fa dire Bertolt Brecht a Mackie Messer nel finale del primo atto dell’Opera da tre soldi. Ma l’esperienza di questi anni ci dice che di quel film viene sempre proiettato solo il primo tempo.

Vi è una ricerca francese sui diritti sociali intitolata Droits des pauvres, pauvres droits. Dunque, “diritti dei poveri, poveri diritti”: diritti sempre più deboli per i più deboli, e che non si sa che fine faranno. Oggi siamo di fronte ad interventi caratterizzati da una forte asimmetria sociale, che fanno crescere ancora di più la diseguaglianza. Ma qual è la soglia di diseguaglianza superata la quale è a rischio la stessa democrazia? Siamo consapevoli che stiamo passando per un numero crescente di persone dall'”esistenza libera e dignitosa”, di cui parla l’articolo 36 della Costituzione, ad una situazione che spinge verso la pura sopravvivenza biologica?

Proprio nei tempi difficili bisogna parlare dei diritti. Senza conservatorismi, si dice. E allora, poiché il Governo annuncia interventi nella materia del lavoro, usciamo da schemi inutili e aggressivi come quelli che mettono al centro la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Uno sguardo sull’immediato futuro, realistico e lungimirante, esige che si affronti una revisione dei regimi di sicurezza sociale nella prospettiva del riconoscimento di un diritto ad un reddito universale di base.

Di questo si discute da tempo, come mostra un libro appena pubblicato da Giuseppe Bronzini.

Si potrebbe così cominciare ad invertire la rotta: dalla sopravvivenza di nuovo verso l’esistenza, ricongiungendosi anche ad una precisa indicazione dell’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: “al fine di lottare contro l’esclusione e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”.

Si è detto che l’Italia deve riguadagnare la dimensione europea, rifiutata nei tempi del berlusconismo. Ma, se si vuole che i cittadini non guardino all’Europa solo come fonte di imposizioni e di sacrifici, bisogna ricordare quel che disse il Consiglio europeo nel 1999: «”La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità». L’Europa dei mercati non può essere disgiunta dall’Europa dei diritti, pena una delegittimazione che può contribuire alla sua dissoluzione. I governanti devono rendersi conto che la Carta dei diritti fondamentali non è un documento al quale dedicare qualche distratta citazione, ma uno strumento che, adoperato con continuità e sincerità, può mostrare il «valore aggiunto» dell’Europa, nel quale diventa conveniente riconoscersi per tutti.

Ma l’Europa è anche quella dei trattati, di cui ora si propongono modifiche per rendere possibile un più diretto governo dell’economia. Di nuovo una questione di legittimità democratica. Si può rafforzare il potere europeo in questa materia sottraendolo a controlli che non siano solo quelli esercitati dalla forza degli interessi di governi nazionali? Se si vuol mettere mano al Trattato di Lisbona, allora, è necessario che una riforma includa un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo. Qui l’antica vocazione europeistica dell’Italia potrebbe essere rinverdita. Vorrà farlo l’attuale Governo, guadagnando così meriti presso tutti quelli che credono ancora in una ripresa della costruzione democratica dell’Unione?

Questa linea di riforma istituzionale, attenta a democrazia e diritti, dovrebbe essere seguita anche per le riforme costituzionali di cui si torna a parlare in casa nostra. Queste non possono essere considerate solo dal punto di vista di un nuovo assetto per Parlamento e Governo. E l’insistenza sulla giusta necessità di restituire ai cittadini poteri confiscati dall’indegna attuale legge elettorale non può limitarsi a questa soltanto.

Le nuove forme di partecipazione politica, dei cui effetti abbiamo avuto prove concrete in occasione dei referendum e delle elezioni amministrative, esigono forme istituzionali che diano corpo e legittimazione a quella “democrazia continua” che ormai caratterizza la sfera pubblica e che non può essere affidata soltanto alla dimensione mediatica o alla logica dei sondaggi. Ricordate la critica di Rousseau alla democrazia rappresentativa inglese? «Il popolo inglese crede d’essere libero; s’inganna, non lo è che durante l’elezione dei membri del Parlamento; non appena questi sono stati eletti, esso diventa schiavo, non è più nulla».

A questa schiavitù politica, al silenzio tra una elezione e l’altra, i cittadini si ribellano sempre di più, grazie soprattutto alle opportunità loro offerte da Internet. Sono lontanissimo dalle semplificazioni di chi continua a pensare ad una democrazia salvata dalla tecnologia, e ritengo che si debba sempre riflettere sui rischi di una “democrazia elettronica” come forma del populismo dei nostri tempi. Ma è suicida continuare a guardare alle istituzioni e alle loro possibili riforme senza prendere seriamente in considerazione la necessità di integrazioni nuove tra democrazia rappresentativa e presenza più diretta dei cittadini.

Nella prospettiva di riforme, volte però alla buona “manutenzione” e non allo stravolgimento della Costituzione, mi limito ad indicare una sola ipotesi, di cui già ho parlato in passato, ma che il successo dei referendum rende attuale. Mi riferisco all’iniziativa legislativa popolare, prevista dall’articolo 71 della Costituzione e che, finora, ha avuto come effetto solo la frustrazione dei proponenti, visto che il Parlamento ignora del tutto le proposte firmate dai cittadini. Credo che sia venuto il momento di rinvigorire questo istituto, prevedendo procedure che riguardino le modalità in base alle quali il Parlamento deve prendere in considerazione quelle proposte e dando al comitato promotore il diritto di seguirne l’iter parlamentare in commissione, secondo il modello che ha già portato a considerare i promotori di un referendum addirittura come «potere dello Stato».

Un passo così impegnativo dovrebbe essere accompagnato da un aumento delle firme necessarie, ben oltre le attuali cinquantamila. Ma avrebbe l’effetto positivo di avviare una integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta (che può e deve trovare ulteriori forme), di aprire un canale tra eletti ed elettori, di insidiare l’autoreferenzialità della politica e di avviare così un suo riscatto nel tempo del massimo suo discredito.

Anche così potremo ricongiungerci all’Europa. L’articolo 11 del Trattato di Lisbona affianca alla democrazia rappresentativa uno strumento di democrazia diretta: il nuovo diritto di iniziativa dei cittadini europei che, in numero di almeno un milione, possono chiedere alla Commissione europea di prendere iniziative in determinate materie. Non è un caso che di questo strumento si prepari a servirsi la rete europea dei movimenti per l’acqua bene comune, dunque proprio i soggetti ai quali si deve la più forte iniziativa referendaria.

L’uscita dalla regressione culturale e politica, nella quale siamo piombati, sta proprio nella capacità di ricominciare a frequentare il futuro senza condizionamenti, primo tra tutti quello che vuole ricondurre tutto alla logica del mercato.