Kerala, la terra di Dio

Stefano Toppi
Comunità cristiana di base di S.Paolo – Roma

Così era chiamato il viaggio con cui la rivista Confronti ci ha portato nel sud dell’India durante le appena trascorse vacanze natalizie. Un appellativo pretenzioso (“God’s own land”) perché tutta la Terra appartiene a Dio, ma giustificato per almeno due motivi.

Il primo, lo splendore lussureggiante di vegetazione dei luoghi dai boschi di palme da cocco vicino al mare, alle foreste di mille alberi diversi nell’interno, alle ricche coltivazioni di gomma, di frutti e di spezie: una terra benedetta dai monsoni che la bagnano copiosamente, dando vita a sedici fiumi in una estensione pari alle nostre Calabria e Sicilia unite; e questo fa del Kerala lo stato a più alto livello di sviluppo dell’India.

Il secondo motivo potrebbe essere che è una terra dove Dio si sente a casa sua: infatti vi convivono pacificamente e con reciproco rispetto induisti, la maggioranza, musulmani, un quarto della popolazione, e cristiani, un 20% ben frazionato in cattolici, malabaresi di rito caldeo i più ma anche latini, in siro-giacobiti o malankaresi, legati alle antiche chiese orientali, ed evangelici, per lo più unificati nella Chiesa dell’India del Sud, ma anche con invadenti nuove presenze di neo pentecostali (questi sì non ben visti da nessuna delle altre chiese).

Ma di questo potrete leggere di più sul numero di febbraio di Confronti. Mi limito ad esprimere alcune sensazioni relative agli incontri con gli esponenti delle varie religioni incontrati.

Intanto ho apprezzato la semplicità e la disponibilità dei vescovi incontrati, tutti indiani, cominciando dall’arcivescovo George Alencherry, primate della chiesa mala barese (che al ritorno abbiamo appreso essere stato scelto tra i nuovi cardinali); ho avuto l’impressione che la distanza da Roma giovi anche alle più alte sfere della gerarchia. A lui ho chiesto quale fosse il comportamento dei cattolici rispetto al Comunist Party of India (CPI) che più volte è andato al governo del Kerala, se cioè lo votassero anche i cristiani. Mi ha risposto tranquillamente di sì, perché il partito ha fatto molte cose buone per i poveri, ha aggiunto che i partiti comunisti non sono uguali in tutti i paesi. Anche se passando per le strade del paese, tra file di bandiere rosse con falce e martello, era frequente vedere manifesti con le effigi di Marx, Engels, Lenin, Che Guevara, ma anche Stalin! Quindi in Kerala essere catto-comunisti non è mai stato uno scandalo.

Al vescovo cattolico romano Maria Callist Soosa Pakiam, avrei voluto chiedere cosa ci stava a fare una chiesa latina in una terra dove i cristiani, secondo la leggenda evangelizzati dall’apostolo Tommaso, erano presenti secoli prima che arrivassero da occidente i missionari. Ma quando ci ha detto che la sua chiesa raccoglie soprattutto fedeli provenienti dalle “caste” inferiori, sono soprattutto pescatori, quelli che, se ho ben capito, nessuna religione ha voluto accogliere, mi sono mangiato la domanda.

Sempre ospitali e disponibili alle nostre domande indiscrete anche il vescovo della Chiesa dell’India del Sud, George Daniel, quello della chiesa siro-giacobita, Geervaghese Mor Coorilos; e l’imam della moschea maggiore di Trivandrum. Particolarmente coinvolgente l’incontro in un Ashram con un monaco induista seguace del guru Sri Narayana, morto nel 1928 e ispiratore anche di Ghandi, che ha tra i suoi motti «Una sola casta, una sola religione, un solo Dio», a sottolineare l’unità fondamentale del genere umano rispetto alle divisioni ed alle caste (il guru proveniva da una casta inferiore), e il fatto che, pur attraverso sentieri diversi, tutte le persone possano arrivare all’unico Dio. I monaci, nelle loro preghiere, leggono ogni giorno una pagina del Corano ed una della Bibbia.

Ma anche indimenticabile la partecipazione, passiva per ovvi motivi, alla eucarestia del primo dell’anno nella chiesa di rito malabarese del piccolo villaggio di Anakulam (significa “la piscina degli elefanti”, e gli elefanti la sera prima ci avevano fatto una inaspettata, incredibile accoglienza mentre si bagnavano e abbeveravano al fiume che scorre ai margini del villaggio). Si entra in chiesa, così come nelle case e anche nei musei, scalzi; ci si siede a terra su tappeti, gli uomini a destra le donne, coloratissime nei loro splendidi saaree, a sinistra; l’altare compare e scompare dietro una tenda che lo separa dal resto, una specie di iconostasi in stoffa; i canti, tutti in stile indiano naturalmente, bellissimi, accompagnano l’intera celebrazione e tutte e tutti partecipano; il celebrante passa due volte tra le file della gente: una prima a raccogliere le offerte in denaro, la seconda a portare la comunione nelle due specie.

Mi colpisce soprattutto vedere una chiesa gremita di gente proveniente da un villaggio che la sera precedente mi era sembrato inconsistente, vedendo solo qualche sparuta luce nella foresta (ma un ragazzo ci aveva detto “non è foresta, sono i nostri orti”; orti di alberi di caucciù, di banani e di alberi da frutta o delle spezie). Qui, in questo angolo di terra di Dio, si direbbe che la secolarizzazione non sia ancora arrivata e di fronte alla fede semplice di questo popolo credo che anche il mio “cristianesimo critico” abbia fatto un rispettoso passo indietro.