La Decrescita, ovvero il “vivere altrimenti”

Paolo Bartolini
www.megachipdue.info

La Decrescita è una visione, non ancora un programma. L’orizzonte che traccia è quello, indispensabile, di un “vivere altrimenti”, alternativo al dogma della crescita, motore simbolico di un capitalismo globale giunto in prossimità del limite ultimo della sua espansione. Immaginare alternative all’esistente è peculiarità della nostra specie, punto di incontro tra disposizioni biologiche scollegate dalla guida sicura degli istinti e libertà della cultura (qui intesa come seconda natura che fa dell’ambiente un mondo abitabile attraverso l’uso della tecnica e la creazione di istituzioni sociali).

Proporre la decrescita, vero cambio di paradigma che attacca alle fondamenta l’intera civiltà dell’accumulazione economica per come l’abbiamo conosciuta, vuol dire allora mobilitare energie e forze creative immani, che devono essere reperite nella concretezza del nostro momento storico.

Al di là degli equivoci che lo slogan della decrescita può suscitare – un po’ per la scarsa conoscenza dell’argomento, ma anche per la negatività del termine stesso – un problema notevole che si pone a chiunque voglia conquistare l’opinione pubblica mediante le ottime ragioni della décroissance, è quello di comprendere la portata del passaggio epocale in cui ci troviamo e la sua complessità.

La Transizione in corso verso una società altra rispetto a quella colonizzata dall’immaginario quantitativo della crescita e del profitto, e pervenuta secondo Marx ad una vera e propria configurazione religiosa (il grande filosofo parla di “religione della vita quotidiana” per esprimere il potere feticistico della merce e del denaro, entrambi “cose” che dominano l’uomo e lo alienano dal controllo cosciente sulla produzione e sulle relazioni di interdipendenza che si instaurano quotidianamente con gli altri) trascina con sé una radicale crisi dell’individuo, ancora poco percepita a livello di massa, se non nella forma confusa del sintomo e di un generico mal di vivere.

Per questo diciamo che la centralità assunta nei secoli dal Mercato (emanazione simil-plotiniana del Dio Unico Denaro) non è casuale, in quanto rafforza e sostiene la tendenza – tutta moderna – a liberare l’individuo dai vincoli oppressivi della socialità primaria (famiglia, vicinato, rapporti diretti di potere). Tutto questo per ribadire qualcosa che, spesso, i decrescisti “duri e puri” trascurano colpevolmente, ovvero l’elemento di effettiva emancipazione proveniente dal passaggio avvenuto dalle tradizioni premoderne alle società cosiddette “aperte”.

L’incredibile successo del modello capitalistico negli ultimi trent’anni (parlo di successo a livello di consenso di massa) non può dunque essere letto esclusivamente come risultato lineare delle tecniche di manipolazione della società dello spettacolo. L’egemonia anglosassone c’è stata eccome, ma sbaglieremmo se la vedessimo solo come un grande inganno ordito nei confronti di larghi strati di popolazione tenuti volutamente nell’ignoranza. Tutto ciò ha un suo fondo di verità, e non possiamo trascurarlo, tuttavia dobbiamo avere il coraggio di riconoscere il potere positivo che è stato capace di sedurre milioni di persone fino a convincerle che “There Is No Alternative”.

Questo potere riguarda il fatto stesso di aver liberato nell’uomo una possibilità psico-biologica già esistente: quella di diventare pienamente individuo, di disegnare in autonomia il proprio cammino di autorealizzazione. Questa possibilità meravigliosa, lo sappiamo bene, è in realtà impedita proprio dall’isolamento che il singolo subisce, a causa del rapporto di produzione capitalistico, rispetto alla sua comunità di appartenenza. In altri termini: l’individuo non può esistere fuori dalla matrice relazionale che lo accoglie fin dalla nascita. Lo sanno bene i buddhisti e tutti coloro che rifiutano l’idea di un soggetto separato dal mondo, sostanza psichica o spirituale essenzialmente irrelata.

Questi brevi cenni, che segnano solo i contorni di un tema enorme da dibattere, vogliono però aiutare chiunque si avvicini alla decrescita a pensare l’uomo per quello che oggi è.

Il fascino perverso del consumo, l’aspirazione al “di più”, devono essere letti come esiti comprensibili di una ricerca di felicità e benessere cui l’individuo non può e non deve rinunciare.

Il problema, allora, diviene quello di rendere chiaro alle persone che il loro obiettivo è in contrasto proprio con i mezzi che si sono scelti per raggiungerlo.

La decrescita, quindi, avrà successo e potrà contribuire alla creazione di un modello alternativo di esistenza (collettiva e individuale) solo se saprà coltivare il valore moderno dell’individuo come sua stella polare, reinserendo la libertà del singolo in una nuova configurazione sociale e culturale che valorizzi l’unicità e irripetibilità di ciascuno, riscoprendo al contempo la gioia dell’appartenenza a qualcosa che supera per definizione le pretese dell’io (Società, Gaia, Cosmo, Realtà, Dio, ecc.)

In gioco, insomma, c’è l’idea stessa di libertà e la possibilità di portarla a compimento. Chi non coglie le coordinate di questa sfida lascia il popolo in balia delle promesse seducenti del neo-liberalismo e si destina al convivio, frugale ma autoreferenziale, di chi parla solo a se stesso.