India. Alla ricerca delle religioni nell’«oasi» del Kerala

David Gabrielli e Nicoletta Cocretoli
Confronti n° 2/2012

Confronti ha organizzato un viaggio per incontrare rappresentanti delle comunità cristiane, induiste e musulmane nello stato del Kerala. Mondi per noi nuovi, affascinanti, problematici. Un dialogo fecondo tra credenti di varie fedi, mentre in altri stati indiani i cristiani vengono emarginati e, talora, perseguitati.

La più grande – per estensione geografica – democrazia del mondo; con i suoi 1,2 miliardi di abitanti, il secondo Paese del pianeta per popolazione ma in corsa, assicurano i demografi, per sorpassare, tra una quindicina d’anni, la Cina, e divenire il primo; un Paese con una crescita economica e tecnologica vertiginosa (in alcune sue università vengono a specializzarsi perfino dagli Stati Uniti) e, insieme, con perduranti sacche di tremenda povertà e miseria; un Paese che si vanta di Gandhi, l’apostolo della nonviolenza, ma dove gruppi indù estremisti in alcuni stati minacciano, e anche uccidono, i cristiani; un sub-continente che, per la sua vastità (dieci Italie) e per la varietà dei suoi popoli e delle loro lingue, è come un continente a sé stante; una nazione dove la grande maggioranza della gente è di religione induista, nelle sue varie ramificazioni, ma che accoglie anche cento milioni di musulmani e circa trenta milioni di cristiani delle varie Chiese, oltre ad altre più piccole minoranze… È ben ovvio che, con un viaggio come quello organizzato dalla nostra rivista dal 27 dicembre al 7 gennaio, di un tale complesso Paese possiamo scattare solo qualche flash, senza pretendere di darne un’idea esaustiva. Consapevoli di tali limiti, in questo nostro primo viaggio in India abbiamo scelto di visitare solo il Kerala e, in esso, di incontrare rappresentanti delle varie religioni – cristiani, induisti, musulmani. Uno stato tra i più floridi dell’India, e quasi un’oasi di pace per quanto riguarda la convivenza di diverse comunità di fede, e dunque, in sé, non del tutto rappresentativo delle contraddizioni del Paese e delle sperequazioni sociali abissali che dominano altri stati.

Tuttavia anche in Kerala, come ovunque nel mondo globalizzato, si verificano fenomeni di marginalizzazione che vedono allargarsi sempre più il divario fra le diverse classi sociali, in particolare la ricchezza si va concentrando nelle mani di pochi a scapito di un crescente numero di impoveriti. Eppure il Paese si era caratterizzato fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso per i forti investimenti nel sociale: istruzione e sanità pubblica ne costituivano il fiore all’occhiello. Grazie agli investimenti nell’istruzione pubblica si formò una manodopera specializzata che emigrò prima verso la penisola arabica, dove il benessere derivato dai proventi del petrolio necessitava di una forza lavoro adeguata allo sviluppo del terziario; poi, e si trattò soprattutto di una emigrazione al femminile, come infermiere e badanti, verso l’Europa, il Sudafrica e fino all’Australia. Fra gli anni Ottanta e Novanta, grazie alle ingenti rimesse dall’estero, la società keralese ha compiuto un enorme balzo verso la modernizzazione, incentrata su un modello di successo sancito da un consumo sfrenato, che però vede l’esclusione di molti. Sono soprattutto agricoltori e pescatori che, non riuscendo a tener dietro ai ritmi imposti dal consumo, sempre più spesso si rifugiano nell’uso di alcol e droghe. Fenomeno segnalatoci con preoccupazione da molti dei nostri interlocutori.

Dunque, pur essendo il Kerala solo uno spicchio del complesso mondo indiano, fa intravedere problematiche che, in parte, riguardano l’intera India.

La rivendicata eredità di san Tommaso apostolo

Tutti i nostri interlocutori cristiani hanno fatto riferimento all’apostolo Tommaso: è infatti radicata la convinzione, in India, che proprio quell’apostolo l’abbia raggiunta, per evangelizzarla, e là sia morto martire nel 52 d.C.: a Chennay (Madras) vi è tuttora quella che è considerata la sua tomba. Che alcuni storici mettano in dubbio questa vicenda, non turba i cristiani indiani, e ovunque si vedono chiese e cappelle dedicate all’apostolo.

Tommaso a parte, è certo che dai paesi del Golfo, profittando delle rotte delle navi commerciali, già nel V e VI secolo vari missionari raggiunsero il Malabar, cioè le coste sud-occidentali dell’India, e là portarono il loro cristianesimo: un cristianesimo frazionato. Il concilio di Efeso (431) aveva condannato Nestorio, patriarca di Costantinopoli, il quale riteneva Maria «Christotokos», madre di Cristo, e non invece «Theotokos», madre di Dio, come l’Assemblea proclamò. Con il tempo, i discepoli di Nestorio – i nestoriani, appunto, detti poi anche siro-orientali, o caldei – si diffusero al di fuori dell’impero bizantino, e si radicarono in Mesopotamia e in Persia da dove, seguendo la via della seta, e costellandola di comunità cristiane, raggiunsero perfino la Cina. E, volgendosi a Sud, si stabilirono nel Malabar, ove fondarono comunità. Analoga fu l’attività dei siri. Bizantini e latini nel Concilio di Calcedonia (451) definirono che in Cristo vi sono due nature, divina e umana, e una persona; armeni, siri e copti respinsero tale definizione, e perciò furono detti «monofisiti» (accusa che oggi non viene più riproposta). Anche i siri del patriarcato di Antiochia, detti «giacobiti» dal loro riorganizzatore Giacomo Baradai, si spinsero fino al Malabar, ove fondarono delle comunità.

Alcuni missionari agostiniani e domenicani, sembra, raggiunsero la stessa zona già nei secoli XIII e XIV; ma la vera presenza occidentale inizia da quando, nel 1498, Vasco De Gama approda a quei lidi. Il navigatore portoghese rimase assai sorpreso di trovare in India, che lui ipotizzava del tutto «pagana», dei fedeli, che orgogliosamente si definivano «cristiani di san Tommaso». Sulle prime il rapporto tra le due parti fu amichevole, ma poi la pretesa dei portoghesi di imporre il rito latino e di far dipendere tutti i cristiani locali dal neo costituito arcivescovado latino di Goa, provocò crescenti tensioni: i siro-giacobiti continuarono nella loro strada; anche una parte dei caldei continuò nella sua «indipendenza», mentre una parte – che sarebbe stata chiamata la Chiesa cattolica malabarese – esplicitò la sua unione con Roma. Perdurarono però i contrasti tra malabaresi e latini, e tra Propaganda fide (dicastero missionario della Curia romana) e i portoghesi. I malabaresi continueranno, loro malgrado, ad essere guidati da missionari e prelati occidentali, fino a che, finalmente, alla fine dell’Ottocento Leone XIII costituirà una gerarchia autoctona; nel 1992, con papa Wojtyla, nascerà una chiesa sui iuris, cioè una Chiesa cattolica orientale autoctona, retta da un arcivescovo maggiore che ha il titolo di Ernakulam-Angamaly. Dal maggio scorso, eletto dal Sinodo malabarese, il suo titolare è George Alencherry – che Benedetto XVI creerà cardinale, insieme ad altri ventuno prelati, il 18 di questo mese di febbraio. Nella liturgia, i malabaresi usano il malayalam, la lingua del Kerala, che appartiene alla famiglia delle dravidiche; a orecchie occidentali pare un canto, suadente ma incomprensibile.

Sul fronte «orientale» vi è da aggiungere che nel 1930 Mar Ivanios e Mar Theofilos, vescovi della Chiesa siro-giacobita, insieme ad un gruppo di preti e di parrocchie riconobbero il papato, e dunque costituirono la Chiesa cattolica orientale siro-malankarese, anch’essa dal 2005 retta da un arcivescovado maggiore con sede a Trivandrum, e composta da circa quattrocentomila fedeli. Mentre malabaresi e malankaresi si trovano soprattutto nel Kerala, i cattolici latini sono diffusi in tutta l’India.

La voce dei cattolici, malabaresi e latini

«Abbiamo buoni rapporti con induisti e musulmani e, in campo ecumenico, con tutte le Chiese, salvo con quelle neo-pentecostali»: così ci dice, ricevendoci nella sua curia, l’arcivescovo Alencherry. La ragione, aggiunge, è che i neo-pentecostali sono «fondamentalisti». Parlando poi dell’organizzazione della sua Chiesa, egli sottolinea che, nell’Assemblea della Chiesa cattolica malabarese, che si riunisce di tanto in tanto, le donne rappresentano il cinquanta per cento dei componenti. «Nell’insieme – continua il prelato – noi malabaresi siamo quattro milioni e mezzo di fedeli; la maggioranza nel Kerala, ma abbiamo diocesi anche in altri stati dell’India (Maharashtra, Uttarakhand, Chhattisgarh, Gujarat). Assistiamo, poi, le molte migliaia di cattolici malabaresi che lavorano negli emirati del Golfo; abbiamo anche una diocesi, a Chicago, per i nostri fedeli emigrati negli Usa. E, siccome abbiamo molte vocazioni, “imprestiamo” nostri sacerdoti a diverse diocesi latine dell’India».

E, sul piano politico, i rapporti con il Partito comunista? Questa nostra domanda non era casuale o bizzarra: infatti, nello Stato del Kerala – come tale nato nel 1956, con una superficie pari a quella di Sicilia e Calabria, e con una popolazione, oggi, di trentaquattro milioni di abitanti – per decenni ha dominato il Cpi, il Partito comunista dell’India, attualmente all’opposizione, liberamente e ripetutamente votato dalla gente, e che ha governato con diverse coalizioni. Nelle centinaia di chilometri che abbiamo fatto, in pullman, attraverso il Kerala, abbiamo incontrato ovunque lunghe teorie di bandiere rosse con falce e martello, e moltissimi cartelli inneggianti a Marx, Engels, Lenin, Stalin. Nel periodo del nostro soggiorno era infatti in corso la campagna precongressuale del Cpi, i militanti erano ovunque impegnati a dar massima visibilità ai candidati proposti come nuova classe dirigente del partito. Molti cristiani del Kerala, che pure hanno nel Keral congress il partito che ambirebbe a rappresentarli tutti, votano Cpi. «A volte – ci dice Alencherry – abbiamo avuto difficoltà con il Cpi, a volte no; lo stesso possiamo dire con gli altri partiti che si sono alternati alla guida del nostro stato. Difficoltà, dunque, più con singoli partiti della coalizione di governo che con il governo stesso».

E la libertà religiosa? «Essa, in India, è garantita dalla Costituzione del Paese. Tuttavia, le leggi anti-conversioni adottate da diversi stati pongono problemi, rendendo assai difficile il passaggio da una religione ad un’altra». Queste leggi – osserviamo noi – sono state introdotte alla metà del decennio passato, stante al potere a New Delhi il Bharatiya janata party (Bjp), partito conservatore con venature razziste e fondamentaliste, fondato sull’affermazione dell’«Indutva» (induità: l’India è degli indiani; gli indiani sono induisti; i non induisti non sono veri indiani), o subito dopo la sua uscita di scena e il ritorno al potere del Partito del congresso (quello di Nehru e di Indira Gandhi). Il sottofondo reale di tali leggi, anche se non sempre dichiarato, era/è questo: i cristiani hanno molti Paesi in cui dominano, i musulmani altrettanto, dunque è giusto che l’India sia degli induisti. In quest’ottica, cristiani e musulmani, pur indiani da sempre, sarebbero cittadini di serie B. Così, mentre con tali leggi le conversioni all’induismo sono facilitate e osannate, ferreamente proibiscono il passaggio dall’induismo ad altra religione, soprattutto se si tratta di islam o di cristianesimo.

«Pesa anche nelle Chiese il problema delle caste?». «La Costituzione indiana ha abolito quel sistema. Tuttavia, esso permane nella mentalità di molti, e a volte ce lo ritroviamo anche nei nostri cristiani. Anche i matrimoni misti di persone provenienti da diverse caste possono creare problemi». E la secolarizzazione? «Naturalmente, essa è arrivata anche da noi – ci dice l’arcivescovo – ma, a differenza che in molti Paesi dell’Occidente, qui la gente continua a mantenere certi valori, e rimane attaccata alla religione». Che offre, anche ai cristiani, l’induismo? «Ci invita a sottolineare il rispetto per la persona umana. Quando, a mani giunte, si saluta qualcuno, dicendo “Namaste”, si vuol dire “Rispetto Dio che in te risplende”».
È lunga la strada, da Kochin a Tiruvananthapuram (che gli inglesi, impossibilitati a pronunciare tale nome, cambiarono in Trivandrum. Ma ora è tornato all’antica grafia, così come Mumbay da Bombay, e Chennai da Madras…), soprattutto per noi che procediamo zigzagando dalla costa verso le montagne e viceversa, cercando di vedere quanto più possibile del lussureggiante ambiente naturale che il Paese offre. Sulle colline che si susseguono a perdita d’occhio, la foresta «esplode» attorno a noi, svettano palme fra alberi di noce moscata e piantagioni di cardamomo, il pepe si arrampica su ogni tronco, la rossa trina della fioritura dell’albero di balsa interrompe qua e là il verde intenso che ci circonda. Più in alto la montagna è avvolta nel ricamo delle piantagioni: filari e filari di tè, di un bel verde chiaro, un pizzo interrotto da viottoli di terra rossa e punteggiato a tratti di gruppi di raccoglitrici – quasi solo le donne svolgono questa mansione – che tagliano i preziosi germogli. Sia nelle città che attraversiamo che lungo la strada si susseguono, e spesso si mescolano, chiese delle varie denominazioni, templi indù, moschee (perciò il Kerala è chiamato «terra di Dio»). Tutti ci hanno confermato – e, almeno all’apparenza, così sembra a noi – che nel Kerala vi sia una singolare e positiva convivenza tra le varie religioni. Nello stato la maggioranza è indù, i musulmani sono il 30%, i cristiani tra il 20 e il 25%. Dunque, per quanto in esso i cristiani siano minoranza, il Kerala è lo stato più cristiano dell’India.

A Thiruvananthapuram ci riceve cordialmente il vescovo latino della città, monsignor Maria Callist Soosa Pakiam. Iniziamo il nostro colloquio partendo dai riti: «Come convivono, nella Chiesa cattolica indiana, latini, malabaresi e malankaresi?». «Debbo ammettere che non sempre, in passato, la convivenza tra questi tre nostri riti è stata facile. D’altronde, l’esistenza, nella stessa città, di più vescovi cattolici, contraddice di per sé l’antico adagio ecclesiastico, “Un vescovo, una Chiesa”, e complica le giurisdizioni. Ma abbiamo imparato a convivere, e oggi abbiamo buoni rapporti e una operosa collaborazione. In Kerala un terzo dei cattolici sono latini, due terzi orientali, malabaresi soprattutto, e poi malankaresi». Ognuna di queste tre Chiese ha un suo organismo direttivo: il Sinodo, per malabaresi e malankaresi, e la Conferenza episcopale dei vescovi cattolici. A livello dell’intero Paese vi è poi la Conferenza episcopale indiana che raccoglie prelati dei tre riti.

«Un problema pastorale – prosegue Pakiam – sono i matrimoni di una cattolica con un indù o un musulmano. La donna promette di fare il possibile per educare cristianamente i figli, ma sappiamo che alla fine deciderà il padre… Ad ogni modo, noi cerchiamo di formare bravi cristiani. Ogni domenica, in chiesa facciamo due ore di catechesi ai bambini, ai ragazzi e agli adulti». E l’inculturazione? «Roma vede con sospetto i tentativi di inculturazione legati all’induismo». La pastorale familiare? «Naturalmente, noi enunciamo la dottrina della Humanae vitae [l’enciclica di Paolo VI, del 1968, che proibiva i contraccettivi], ma sappiamo che è difficile».

I siri-giacobiti. La Chiesa unita dell’India del Sud

«Abbiamo buoni rapporti ecumenici con le altre Chiese, siamo in pace con tutti», esordisce, incontrandoci a Thiruvananthapuram, Geervaghese Mor Coorilos, vescovo siro-giacobita. «La nostra Chiesa risale a san Tommaso; ecclesiasticamente siamo legati al patriarcato siro di Antiochia [in effetti, l’edificio nel quale siamo stati ricevuti è stato inaugurato pochi anni fa da Ignatius Zakka I Iwas, patriarca siro ortodosso di Antiochia, con residenza a Saidnaya, vicino a Damasco]. Ignatius è il nostro patriarca, mentre qui, in India, il nostro catholicos [capo supremo] è Baselios Thomas I».

«I problemi che separarono i siri dai latini – le definizioni del Concilio di Calcedonia – sono ormai alle spalle. Quello che oggi ci divide è soprattutto il primato papale, un problema assai spinoso. Del resto, i cattolici pensano che Pietro fu vescovo di Roma; per noi, invece, lo fu di Antiochia. Ma abbiamo buoni rapporti con i cattolici: così, se in una località non abbiamo una nostra chiesa, i nostri fedeli sono autorizzati a partecipare all’Eucaristia nella parrocchia cattolica locale, e anche a comunicarsi». Parlando poi della formazione del clero della sua chiesa (clero che prima dell’ordinazione può sposarsi; ma i vescovi vengono scelti tra i preti celibi, o tra i monaci), Coorilos ci dice che, dopo la scuola superiore, gli studi durano cinque anni.

«Che ne pensa del Vaticano II?». «Considero molto positivamente quel Concilio; prima la Chiesa cattolica romana era chiusa; esso ha aperto le finestre». Venendo all’attualità, il vescovo ritiene però che Benedetto XVI sia piuttosto «conservatore». «Il ruolo della donna nella Chiesa?». «Nelle nostre assemblee partecipano anche le donne. Ma, parlando in generale, riconosco che nella Chiesa dominano gli uomini, e che occorre fare un lungo cammino, che io auspico, perché le donne abbiano piena partecipazione alla vita della Chiesa».

Un furioso temporale ci accoglie quando ci rechiamo a Melukavu per incontrare George Daniel, vescovo della diocesi East Kerala della Chiesa dell’India del Sud. È, questa, il frutto di una singolare e pregnante iniziativa ecumenica: proprio mentre, nell’agosto 1947, sulle ceneri dell’impero (britannico) delle Indie stavano nascendo India e Pakistan, alcune Chiese – l’anglicana, la congregazionale, la presbiteriana e la metodista – portando a compimento un processo iniziato da decenni, per attuare il testamento di Gesù «che tutti siano uno!», superando antiche contrapposizioni si unirono, dando vita, appunto, alla Church of South India (Csi), strutturata su base episcopale. Essa oggi è suddivisa in ventidue diocesi, ed ha 4,5 milioni di fedeli in India e nello Sri Lanka. «Abbiamo buoni rapporti con tutte le altre Chiese, ma non con quelle neo-pentecostali perché queste – ci dice Daniel – cercano di accaparrarsi i fedeli delle varie Chiese».

Ci parla poi delle scuole gestite dalla Csi («aperte a tutti»)» e delle sue opere caritative, molte di tipo sanitario, anch’esse dedite a gente di ogni religione, senza distinzione. Durante l’incontro ci viene offerto, come anche in tutti gli altri, un rinfresco (tè, caffè, succo di frutta, ciambelle dolci e salate), che questa volta è stato preparato dalla moglie del vescovo Daniel, la signora Betty, una dottoressa che coordina le attività di assistenza di uno degli ospedali gestiti dalla Csi.

Il mondo complesso degli induismi

Si parla, di solito, in Occidente, di induismo; forse sarebbe più esatto parlare di induismi, tante sono le differenze e le variazioni tra le sue correnti. Complesse sono le gerarchie divine, e i rapporti tra i vari dèi e dee; le loro immagini variopinte adornano i templi e svettano su molti edifici. Induismo politeista, dunque? Così spesso si dice, ma molti sostengono il contrario: le multiformi manifestazioni che assomigliano ad un pantheon in realtà sono immagini dell’Unico Essere che trabocca. Swami (monaco) Guru (maestro) Prasad, che incontriamo all’ashram (monastero) di Sivagiri nella città di Varkala, ci parla della spiritualità che anima lui e gli altri cinquantotto monaci del monastero, tutti seguaci di Sri Narayana Guru (1856-1928). Del fondatore, la cui tomba è al centro dell’ashram, il nostro ospite ripete continuamente un principio-base che egli sperava diventasse l’asse del rinnovamento induista: «Una sola casta, una sola religione, un solo Dio», come a sottolineare l’unità fondamentale del genere umano, e il fatto che, pur attraverso sentieri diversi, tutte le persone salgono verso l’unico Dio. Delle sue idee Narayana ebbe modo di riflettere con Gandhi, che andò a trovarlo. Swami Guru Prasad ci parla a lungo del fondatore Narayana, del suo impegno per il superamento del sistema delle caste. «Ha predicato sempre una sola casta, quella umana; al suo tempo era una cosa indicibile e impensabile, eppure molti lo hanno seguito, lui che pure era un «dalit» (intoccabile). Se fosse appartenuto alla casta dei bramini sarebbe riuscito a produrre nell’induismo un rinnovamento pari a quello che nell’VIII secolo produsse Adi Shankara». Di lui (788-820 d.C. – dalla sua opera di sistematizzazione del pensiero induista attraverso la dottrina dell’«Advaita», non-duale, e dalla sua predicazione iniziò un grande movimento di risveglio dell’induismo che richiamò a sé, a scapito del buddhismo, un numero sempre maggiore di fedeli) abbiamo visitato la città natale Kalady e l’ashram a lui dedicato dove sono rappresentate scene della vita e del viaggio che si dice intraprese in tutta l’India.

«Noi non vogliamo convertire nessuno», ci ripete Swami Guru Prasad, «ma siamo aperti ad ogni voce. Oltre i libri sacri dell’induismo, leggiamo anche il Corano e i Vangeli. Tutto ci arricchisce». Dalle sue parole cogliamo una certa relativizzazione della religione. Vicino alla tomba di Sri Narayana Guru una scritta recita: «L’uomo che conosce profondamente non ha bisogno della religione, ma la religione ha bisogno di lui». Parlando poi della vita concreta della comunità, Prasad ci racconta l’ordinata scansione (preghiera, studio, meditazione, lavoro) delle loro giornate, che iniziano alle 4 del mattino con il sacrificio del fuoco, un rito semplice, di purificazione, e terminano alle 22. I monaci vivono delle offerte dei fedeli, che accorrono sempre numerosi all’ashram. Grazie alle donazioni possono fornire ogni giorno pasti ai poveri che lo richiedono, gestire un ospedale, una scuola per il ciclo formativo primario (dai 5 ai 15 anni) e la scuola di preparazione dei monaci la cui durata è di sette anni terminati i quali è possibile entrare nell’ashram.

Alcuni indù non condividono l’impostazione di questo, altri invece trovano qui un balsamo per la loro vita. Del resto, precisa Swami Guru Prasad, non esiste autorità induista che possa definitivamente e autoritativamente stabilire quale sia la strada giusta.

I musulmani del Kerala

A Thiruvananthapuram visitiamo la moschea Palayam Juma Masjid, il cui imam, Jamaludin Mankada, ricevendoci, ci ripete: «In Kerala le varie religioni coesistono in pace e collaborano. Se sorgono dei problemi, i capi delle varie religioni si incontrano e cercano di trovare una soluzione. Noi, partendo dal Corano, insistiamo nell’affermare che il Dio Uno ci ha creati, e che tutti siamo figli di Adamo e di Eva; veniamo da un unico grembo. Perciò dobbiamo avere rapporti fraterni tra noi tutti, avendo cura soprattutto dei più poveri. E dobbiamo custodire la natura, il tesoro che Dio ci ha affidato. Abbiamo la responsabilità di usare la natura in modo da poterla trasmettere alle prossime generazioni».

In India, prosegue Mankada, i musulmani, la cui presenza data dalle spedizioni di Mahmùd Ghazna nell’anno 1010, che guidava turchi e afghani turchizzati, sono il 15% della popolazione, ma in Kerala il 30%. Storicamente, ci dice ancora l’imam, la comunità musulmana una volta penetrata in India è entrata nel sistema delle caste e per secoli è stata divisa fra i discendenti dei primi invasori musulmani, mercanti e artigiani (che, entrati in relazione con gli omologhi indù, li avevano convertiti e con loro condividevano l’appartenenza alla casta dei «vaishya»), e la più vasta schiera dei convertiti appartenente alla casta inferiore dei «sudra» e dei «fuori casta», «dalit» o intoccabili. Attualmente le cose sono cambiate – così ci dice il nostro interlocutore – e vige la regola della «fratellanza musulmana», ma comunque la maggioranza dei musulmani appartiene agli strati più poveri della popolazione. Perciò attorno alla moschea sono sorte scuole e ospedali che offrono i loro servizi a quanti altrimenti ne sarebbero privi.

A parte riportiamo altri flash sul nostro viaggio, e sulla situazione generale dell’India. Nell’insieme, un ventaglio di idee ed esperienze per introdurci almeno sulla soglia di quel mondo. Del resto, il peso geopolitico, sociale, economico e culturale dell’India graverà sempre più sul pianeta. Averne una qualche pur modesta conoscenza non è un «optional» per chi voglia vivere il proprio tempo.