La follia che ingabbia l’Europa

Martin Wolf
Il Sole 24 Ore

Una follia è fare più volte la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi. La determinazione della Germania a imporre una camicia di forza finanziaria ai suoi partner non funzionò ai tempi del ‘Patto di crescita e stabilità’. Potrà funzionare con il “Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance”, su cui è stato raggiunto un accordo la settimana scorsa? Ne dubito. Il trattato è il prodotto di una convinzione che la crisi sia stata causata dalla mancanza di disciplina di bilancio, e che la soluzione potrà venire da una maggiore disciplina. Ma la disciplina di bilancio non è tutta la verità, neanche lontanamente.

E l’applicazione rigorosa di un’idea così infondata è pericolosa. Questi timori ora sembrano lontani. Le operazioni di rifinanziamento a lungo termine della Banca centrale europea hanno allentato la pressione sulle banche e sui mercati finanziari, compresi i mercati dei titoli di Stato.

Nelle due tranche di questa operazione, le banche hanno preso in prestito più di mille miliardi di euro per tre anni a un tasso dell’1% soltanto. I rendimenti dei titoli di Stato decennali italiani e spagnoli sono scesi sotto al 5%, contro un livello massimo del 7,3% per l’Italia e del 6,7% per la Spagna, alla fine dell’anno scorso. Altrettanto pronunciato è stato il calo dei Cds sui titoli bancari: lo spread di Intesa Sanpaolo è sceso dai 623 punti base di novembre ai 321 di questa settimana. Ma la crisi non è passata. Chi più chi meno, i Paesi vulnerabili restano in difficoltà. Questi piani di risanamento hanno salvato l’Eurozona dalle sue crisi a catena? Riusciranno a tirare fuori da queste crisi i Paesi colpiti? La risposta è no, a entrambe le domande.

La nuova regola di fondo è che il disavanzo di bilancio strutturale di uno Stato membro non deve eccedere lo 0,5% del prodotto interno lordo: di fatto, questo costringerebbe i Paesi ad avere un bilancio strutturale in attivo. Inoltre, se un Paese ha un debito superiore al 60% del Pil, l’eccedenza dovrà essere eliminata al ritmo medio di un ventesimo dell’eccedenza ogni anno: un Paese come l’Italia, con un debito intorno al 120% del Pil, dovrebbe ridurre questo rapporto di un 3% del Pil ogni anno. Questo è lo schema a cui tutti i membri dell’euro dovranno aderire e queste regole dovranno avere forza di legge, meglio se scritte nella Costituzione.

È un trattato che solleva profondi interrogativi, sul piano giuridico, politico ed economico. Da un punto di vista economico è logico prendere come riferimento non il disavanzo effettivo, ma il disavanzo corretto in base alla congiuntura. Ma quello che per la scienza economica è un miglioramento comporta una minor precisione: nessuno sa che cos’è un disavanzo strutturale. Non si tratta di sofismi: prendiamo i saldi strutturali per il 2007 (l’ultimo anno – per la gran parte – prima della crisi) calcolati dal Fondo monetario internazionale nell’ottobre di quell’anno (in ‘tempo reale’, per così dire). L’indicatore avrebbe dovuto urlare ‘crisi’: eppure la Spagna registrava un forte avanzo strutturale e l’Irlanda era in pareggio; sia Madrid che Dublino erano in condizioni migliori della Germania. La Grecia aveva un disavanzo strutturale importante, ma il Portogallo aveva un disavanzo più basso di quello della Francia. La regola non avrebbe fatto distinzioni tra Paesi vulnerabili e Paesi immuni perché non tiene conto di bolle speculative e manie finanziarie.

L’Fmi in seguito ci ha ripensato. A ottobre 2011 era giunto alla conclusione che il disavanzo strutturale della Grecia nel 2007 era stato del 10,4% invece che del 4%, e quello dell’Irlanda dell’8,4% invece che dello 0,1%. Non lo dico per criticare l’Fmi, ma solo perché dimostra che il concetto che i Paesi dell’euro vorrebbero incastonare in un trattato è deficitario proprio laddove il bisogno di accuratezza è maggiore: il vero disavanzo strutturale è inconoscibile. Pensate alle implicazioni politiche e legali: un Governo eletto accetterebbe le stime approssimative di tecnici che non devono rendere conto a nessuno? E poi, i giudici come farebbero a giungere a una decisione? Valuterebbero i pregi e i difetti di diversi modelli econometrici? Dal momento che probabilmente ci sarebbero forti discostamenti nelle stime dei disavanzi strutturali, come farebbe un Governo ad adeguarsi? Dare forza di legge a un concetto incommensurabile appare una follia.

Si profila all’orizzonte una controversia tra le istituzioni europee e il nuovo Governo spagnolo di Mariano Rajoy. Rajoy ha dichiarato che il suo esecutivo si porrà come obbiettivo un disavanzo del 5,8% del Pil, inferiore all’8,5% del 2011, ma molto al di sopra del 4,4% concordato con la Commissione. La quale sbufferà, ma non può costringere un Governo sovrano a fare quello che vuole lei. I partner della Spagna possono rifiutarsi di aiutare Madrid, ma il rischio è che il mancato aiuto finisca per ritorcersi contro di loro. Le difficoltà di bilancio della Spagna sono una conseguenza della crisi, non una causa: il Paese iberico ha avuto un colossale aumento del debito privato dopo il 1990, in particolare per quanto riguarda le grandi aziende non finanziarie; l’eccedenza di costruzioni residenziali esclude anche un forte indebitamento da parte delle famiglie.

Alla luce di tutto questo, è molto improbabile che una drastica riduzione del debito pubblico sia compensata da un incremento dell’indebitamento e della spesa del settore privato. Il risultato, più verosimilmente, sarà una recessione molto più grave, accompagnata da scarsi progressi nella riduzione del deficit effettivo. Nella peggiore delle ipotesi potrebbe innescarsi una micidiale spirale discendente. Invece di costringere la Spagna a risanare in tempi rapidi i conti pubblici sarebbe molto più logico dare al Paese il tempo necessario perché le ambiziose riforme del mercato del lavoro producano i loro effetti, e per questo ci vorranno anni.