Monti, l’allievo di Sacconi

Fabrizio Casari
www.altrenotizie.org

Con la consueta voce metallica e il solito tono arrogante, il professor Monti ha archiviato le lacrime di circostanza della Fornero, dimenticato le promesse di equità e smarrito le chiacchiere sulla crescita, mostrando finalmente cosa intende per riforma del mercato del lavoro. Quello che propone, in sostanza, non si differenzia da quanto proponeva il governo Berlusconi tramite il pessimo Sacconi.

Il fine era – ed é rimasto – l’azzeramento dell’articolo 18 che impediva i licenziamenti arbitrari e immotivati, per poter rendere così i diritti dei lavoratori un elemento monetizzabile con pochi spiccioli. La storiella secondo la quale verranno incentivati i contratti a tempo indeterminato a danno di quelli a tempo determinato, è fumo negli occhi: si potrà anche assumere a tempo indeterminato se tanto licenziare é semplicissimo. E per quanto riguarda la decisione del giudice in caso di licenziamento disciplinare contestato dal lavoratore, non c’é niente niente di nuovo, è già così.

Nel disegno di legge del governo non c’è nessuna proposta di riforma del mercato, ma solo la ricerca dell’abbattimento del valore sociale del lavoro tramite l’espulsione dei diritti dei lavoratori dall’ordinamento giuslavorista del nostro paese. Altro che Germania: l’orizzonte del governo è la Grecia. La riformetta della ministra dovrà ora passare al vaglio del Parlamento, che farà qualche ammuina tramite emendamenti poco convinti e per nulla sostenuti con i quali forse alcuni riterranno di salvare la faccia.

Oltre che salvaguardare le imprese e i grandi gruppi finanziari che le controllano (e che, soprattutto, controllano il governo), il fine dell’esecutivo è evidente: intervenire ulteriormente sui salari, attraverso il ricorso ai licenziamenti senza più l’obbligo del reintegro del lavoratore discriminato. Il che permetterà alle aziende assoluta libertà di licenziamento e, con ciò, maggior potere ricattatorio sulle retribuzioni, sui turni e sulle mansioni dei lavoratori. Il fatto che sarà un giudice che dovrà decidere sull’eventuale indennizzo del lavoratore ingiustamente licenziato, non solo non è un deterrente al licenziamento discriminatorio, ma addirittura diverrà un incentivo a licenziare senza problemi.

E’ facile infatti prevedere che il mancato obbligo di reintegro vedrà l’utilizzo massiccio della leva dei licenziamenti; di conseguenza si produrrà un incremnto spaventoso del contenzioso, quindi con tempi ulteriormente più lunghi nei quali le stesse imprese dovranno eventualmente risarcire. Quest’ultimo aspetto non è secondario, tanto è vero che persino la norma che prevedeva la riduzione dei tempi per il giudizio di merito è stata abbandonata, proprio per garantire alle imprese di attendere anni per pagare il dovuto, visto che di reintegro non si parlerà più.

L’obiettivo del governo delle destre, è evidente, è quello di spaccare i sindacati e far implodere il centro-sinistra. La Cisl, come sempre negli ultimi 30 anni, è pronta alla concessione di ogni richiesta padronale. Bonanni, lento nell’eloquio, è rapidissimo a firmare accordi. Del resto la firma degli accordi separati è ormai la dimensione consueta della Cisl e rappresenta la cifra più autentica di un sindacato divenuto cinghia di trasmissione delle imprese.

Il teatrino con il quale fingono di allearsi con gli altri sindacati per trattare con il governo, mentre invece sottobanco trattano la resa, serve solo a ridimensionare in origine le proposte della CGIL in sede di confronto; poi, arrivati al rush finale, si presentano alla stampa dicendo che non firmeranno ed entrano nella sala riunioni dove firmeranno. Un sindacato giallo e filo-padronale, fucina di aspiranti leader politici che mai hanno avuto un ruolo importante nel paese, ma decisivi ad ogni snodo delle relazioni industriali per fiaccare dal di dentro i sindacati. Il vero cavallo di Troja della Confindustria.

Saranno guai, ora, per il PD. Come voterà in Parlamento? Bersani, nello stile che lo contraddistingue, ha immediatamente offerto una dichiarazione decisiva: “Deciderà il Parlamento”. Ma va? Non era ovviamente un’opinione sulle procedure per l’approvazione delle leggi quello che gli si chiedeva, ma forse molto altro non era in grado di dirlo, considerando che una parte del suo partito non lo considera nient’altro che un amministratore del rissoso condominio di Via del Nazareno. Se la foto di Vasto è passata di moda, sostituita da quella con Alfano e Casini, lo vedremo presto.

Il PD rischia davvero tanto: se la CGIL, che ha già indetto la riunione del Direttivo nazionale per valutare le forme e i tempi della mobilitazione, dovesse ingaggiare sul serio uno scontro sociale a tutto campo contro il governo, i vertici del PD entrerebbero davvero in fibrillazione. Votare in Parlamento una legge che umilia i lavoratori, che cancella la parte fondamentale delle loro tutele previste dallo Statuto e che assegna al padronato potere assoluto, riportando l’Italia al tempo degli agrari, costituirebbe uno strappo, forse l’ultimo, con la sua storia, per revisionata che sia.

Il prezzo elettorale da pagare sarebbe elevato e la spaccatura del mondo del lavoro sarebbe niente in confronto alla fine dell’illusione del PD alla prova delle urne. Converrà pensarci bene, perché sostenere un governo di destra, difendere lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori e, contemporaneamente, proporsi come sinistra e chiedere il voto ai lavoratori, manifesterebbe una schizofrenia curabile solo con lo scioglimento anticipato. Non delle Camere, ma del PD.

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La truffa dell’indennizzo per avere mano libera sui licenziamenti

Maria Mantello
www.micromega.net

Nessuno può essere licenziato senza una “giusta causa” (es. furti o altri reati) o senza “giustificato motivo” (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa).

Al di fuori della giusta causa o del giustificato motivo, il licenziamento è nullo. Lo prevede il Codice civile, la legge n. 604 del 15 luglio 1966, lo Statuto dei diritti dei lavoratori all’art.18.
Vale per ogni rapporto di lavoro. Vale per ogni azienda, contro abusi di datori di lavoro che discriminano, emarginano fino al licenziamento per ragioni estranee alla professionalità del lavoratore.

Vale perché la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, come stabilisce fin dall’incipit la nostra Costituzione, che individua nel lavoro il formidabile strumento di emancipazione individuale e sociale per una società di liberi e di uguali.

La tutela del lavoratore, allora, non è un privilegio o un interesse particolare, come qualcuno vorrebbe far credere, ma valore d’investimento dello Stato liberal-democratico, perché senza tutele contro i licenziamenti illegittimi i lavoratori tornerebbero ad essere schiavi.

Per questo, come già prevedeva la legge 604/1966, il datore di lavoro era tenuto a reintegrare il lavoratore da lui licenziato senza giusta causa o giustificato motivo e a corrispondergli il dovuto: «Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro é tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro. (art. 8, L. 604/1966)».

L’art. 18 della legge 300 del 20 maggio 1970, avrebbe fatto del reintegro il deterrente formidabile contro il licenziamento, prevedendo il pagamento comprensivo di rivalutazione delle mensilità non corrisposte e dei relativi contributi: «Il giudice … condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione».

E proteggendo il lavoratore dall’eventualità che potesse essere liquidato con una somma sostitutiva del suo reintegro, stabiliva che questa eventualità fosse possibile solo se richiesta dal lavoratore: «… al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto».

Adesso tutto questo lo si vorrebbe azzerare, riportando il lavoratore in totale balia del ricatto del licenziamento, e lasciando al datore di lavoro (padrone?) la “legale” possibilità di disfarsi di chi non gli aggrada più con una paccata di benservito.

Un bel regalo per un padronato che l’art. 18 (se non tutto lo Statuto dei lavoratori) non l’ha mai digerito e pertanto ha cercato sempre rivincite, aspettando il momento opportuno per ottenerle.
Col governo Berlusconi sembrava quasi cosa fatta. Ma la grande manifestazione del 23 marzo 2002 con tre milioni di cittadini al Circo Massimo a Roma riuscì a stoppare l’osceno disegno.

Adesso ci riprova il governo tecnico. Un governo che si dice di risanamento, di cura, ma che il suo bisturi – tutto politico – affonda nel corpo vivo dei lavoratori: dai tagli economici a quelli delle più elementari tutele.
Allora, l’assalto proprio al simbolo della garanzia del diritto al lavoro che l’articolo 18 rappresenta non è un caso. E il fatto che il ministro Elsa Fornero, col suo eloquio al birignao esaltato dagli algidi sorrisi d’ordinanza, pretenda di spacciarlo per modernizzazione è solo esercizio di televendita, funzionale all’incalzante dittatura di un capitalismo che fa cassa sullo sfruttamento di chi lavora e di chi è licenziato (21 marzo 2012).