La continuità Gelmini-Monti
Guglielmo Forges Davanzati
www.micromega.net
Fatti salvi possibili interventi correttivi, peraltro tempestivamente sollecitati dal Consiglio Universitario Nazionale, la “spending review” inciderà sull’Università pubblica su due aspetti: il blocco del reclutamento e l’aumento delle contribuzioni studentesche. Per quanto riguarda il primo aspetto, si dispone che – senza ridurre ulteriormente i finanziamenti alle Università pubbliche – le Università potranno utilizzare le risorse delle quali dispongono come meglio credono tranne che per nuove assunzioni. Per quanto riguarda il secondo aspetto, si abolisce il vincolo del 20% del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) come limite alla tassazione degli studenti.
Si tratta di due provvedimenti che si inseriscono coerentemente lungo la linea della “cura dimagrante” imposta all’Università pubblica a seguito delle massicce decurtazioni di fondi che hanno accompagnato la c.d. riforma Gelmini. La domanda che occorre porsi è dunque: perché da almeno quattro anni il sistema formativo e della ricerca è considerato un inutile aggravio per le finanze pubbliche? Si osservi che non è possibile rispondere appellandosi alla (presunta) necessità di mettere in atto politiche di austerità, dal momento che la decurtazione di fondi imposta alle Università pubbliche è iniziata ben prima dell’attuazione di queste ultime.
Si può partire da una constatazione. La ‘riforma Gelmini’, di fatto, è stata costruita intorno a due criteri, in larga misura ereditati dalle precedenti (ma più modeste) riforme: formazione e ricerca devono avere un riscontro di breve periodo e soprattutto devono rispondere a una logica, per così dire, di mercato, stando alla quale ciò che conta è che il sistema formativo produca laureati immediatamente occupabili.
A ciò si è aggiunta una massiccia campagna mediatica di delegittimazione dell’Istituzione, che ha contribuito a legittimare una rilevantissima decurtazione di fondi. Su queste basi, diviene razionale ridurre il finanziamento della ricerca scientifica, dal momento che, per assunto, questa è gestita secondo criteri baronali (e, dunque, non meritocratici), così come diviene irrazionale spendere più denaro pubblico per potenziare l’offerta didattica, dal momento che l’Università italiana produce laureati che, nella gran parte dei casi, non servono alle imprese.
Mentre la prima argomentazione è tutta da dimostrare (e può essere vera per singoli casi), la seconda argomentazione corrisponde al vero. Su fonte Almalaurea, si registra che dal 2004 al 2010 la percentuale di lavoratori con alto livello di istruzione assunti dalle imprese italiane si è costantemente ridotta, in controtendenza rispetto a tutti gli altri Paesi dell’eurozona. Si osservi che questo fenomeno non è imputabile alla crisi in corso ed è, dunque, da ritenersi strutturale. A ciò si può aggiungere il drastico calo delle immatricolazioni nelle Università italiane e l’elevato numero di abbandoni: fenomeni evidentemente motivati dal fatto che molti giovani italiani hanno imparato che studiare non conviene.
Alcuni dati possono dar conto dell’entità del fenomeno: il CNVSU – Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario – ha evidenziato che, nell’anno accademico 2010-2011, si sono immatricolati in Università italiane meno di 6 individui su 10 giovani diplomati. Nel Rapporto OCSE 2010 (“Education at a Glance”) si legge che il numero degli studenti universitari che conclude il percorso di studi si aggira attorno al 30%. Si osservi che ciò accade in un contesto nel quale è già modesto il numero di immatricolati e di laureati. L’Eurostat rileva che, a riguardo, l’Italia è ben al di sotto della media europea: nel 2011 la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro in età compresa fra i 30 e i 34 anni in Italia si è attestato, in Italia, al 20,3%, a fronte di una media europea del 34,6%, con Paesi che superano il 40% (Gran Bretagna, Francia e Spagna).
Si può poi ricordare che la Commissione Europea raccomanda a tutti i Paesi membri l’adozione di misure che agevolino l’aumento del numero di laureati, portandolo almeno al 40% nel 2020. Con crescita demografica pressoché nulla e costante riduzione del numero di abbandoni, appare molto verosimile prevedere che questo obiettivo non solo non verrà raggiunto, e che da questo ci si allontanerà molto rapidamente.
Come è stato messo in evidenza (http://www.economiaepolitica.it/index.php/universita-e-ricerca/luniversita-che-piace-a-confindustria/; http://www.roars.it/online/?p=9255), il problema italiano deriva dal fatto che le nostre imprese – in gran parte di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate e poco innovative – non esprimono una rilevante domanda di lavoro qualificato, con il risultato che un numero consistente e crescente di giovani italiani con elevato livello di istruzione viene assunto in condizione di sottoccupazione intellettuale o resta disoccupato o emigra.
Su fonte Almalaurea, si registra che la capacità attrattiva dei nostri atenei è notevolmente bassa – solo il 3.3% degli studenti iscritti provengono dall’estero – mentre è in notevole aumento il numero di studenti italiani che migrano verso Università estere. L’Italia è fra i pochissimi Paesi OCSE nel quale il numero degli studenti che emigra verso università di altri Paesi è superiore al numero di quelli che accoglie.La fondazione “Migrantes” stima che, al 2011, sono oltre 60.000 gli studenti italiani in Università estere, dei quali circa 18.000 partecipano a programmi Erasmus.
Non vi è dubbio che disinvestire nella ricerca significa porre una grave ipoteca sulla crescita futura. Ma vi è di più. Il combinato della ‘riforma Gelmini’ e delle disposizioni della spending review rischia di generare una spirale perversa che si articola in questo modo. La decurtazione di fondi alle Università italiane (così come il blocco del reclutamento, in una condizione di esponenziale aumento dei pensionamenti) peggiora la qualità dei servizi offerti, con conseguente perdita di valore del titolo di studio. Ciò accresce la convenienza, da parte delle imprese italiane, a non assumere laureati, con due esiti: cresce il numero di abbandoni (e si riducono le immatricolazioni) e, contestualmente, aumenta il numero di iscrizioni in Università estere. Con ogni evidenza, il primo fenomeno riguarda individui provenienti da famiglie con basso reddito, mentre il secondo riguarda giovani provenienti da famiglie con reddito elevato. La combinazione di questi due fenomeni genera due esiti, entrambi di segno negativo per l’economia italiana.
1. Come è stato messo in evidenza, dal momento che una percentuale rilevante di giovani con basso reddito rinuncia agli studi, ciò contribuisce a ridurre il grado di mobilità sociale, in una condizione nella quale il grado di mobilità sociale in Italia è, insieme alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, il più basso fra i Paesi OCSE.
2. Le immatricolazioni all’estero costituiscono un trasferimento netto di potenziale produttivo – oltre che di reddito monetario – a svantaggio dell’economia italiana, generando un meccanismo perverso stando al quale i risparmi delle famiglie ricche italiane finanziano, in ultima analisi, la crescita economica di altri Paesi (dal momento che, i flussi di rientro in Italia sono pressoché nulli). Occorre aggiungere che, poiché l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello con la più diseguale distribuzione del reddito, e, dunque, quello dal quale possono partire i più ingenti flussi migratori di studenti (oltre che di ricercatori) verso Università estere, vi è ragionevolmente da attendersi che questa spirale sia destinata ad amplificarsi, con effetti pressoché inevitabili di aumento delle diseguaglianze sociali, di aumento dei divari regionali e di riduzione del tasso di crescita.
———————————————–
L’ateneo privato non si taglia
Roberta Carlini
L’Espresso, 13 luglio 2012
Per qualcuno la “spending review” ha il segno più. Nello stesso provvedimento che ha tagliato con l’accetta i soldi ai ricercatori del bosone e a quasi tutti gli istituti di ricerca pubblici, spunta un saldo positivo, piccolo ma significativo: i beneficiari sono infatti le università private.
La buona notizia per gli atenei non pubblici arriva al comma tre dell’articolo 23, ben nascosta tra i 400 milioni all’autotrasporto e provvidenze varie, dalle calamità naturali alle missioni internazionali. Sono dieci i milioni per le finalità della legge 243 del 1991: che, per i non addetti ai lavori, è proprio quella che regola i contributi pubblici alle università non statali.
A beneficiarne saranno la Bocconi di Monti, la Cattolica del ministro Ornaghi, la Luiss confindustriale, così come altre università meno blasonate, dalla Jean Monnet di Bari alla selva delle università telematiche spuntate come funghi nell’era gelminiana, tra cui l’E-Campus di quell’onorevole Polidori che salvò il Governo Berlusconi.
Altri tempi, altri conflitti di interesse. Quelli di oggi sono più discreti. Anche se giuridicamente un po’ spregiudicati: infilare una spesa (sia pure ove fosse già stata prevista) in un provvedimento taglia-spese non è il massimo dell’eleganza, fanno notare dalle parti dell’università pubblica, alla quale invece la stessa spending review lega le mani impedendo anche agli atenei più virtuosi nuove assunzioni oltre il 20% del turn-over.
E’ vero che i dieci milioni arrivati con la manna della spending review non sono tanti, ma si vanno ad aggiungere a un altro bel colpo piazzato dagli atenei privati: un colpo da 67 milioni, più o meno. Tanti sono i soldi stornati dai 400 milioni di euro che la legge di stabilità 2012 aveva assegnato al finanziamento dell’università pubblica, e che, ha spiegato il ministro Profumo in una lettera a tutti i rettori italiani, saranno ripartiti tra “rifinanziamento dell’edilizia universitaria, contributo al funzionamento delle università non statali, finanziamento ai collegi universitari”.
Edilizia a parte, è un altro trasferimento di risorse dal sistema pubblico a quello privato, che conta quindici atenei tradizionali e undici telematici. I soldi vanno nella stessa direzione anche nel decreto della “spending review”, nel quale si dice esplicitamente che alle maggiori spese comportate da alcuni articoli (tra cui quello sulle università non statali) si farà fronte con i risparmi derivanti dall’attuazione del complesso della legge.