Fratelli tutti, sorelle… dipende di P.Cavallari

Paola Cavallari

La petizione internazionale del Catholic Women’s Council aveva chiesto di non dimenticarci, noi donne, aggiungendo nel titolo “sorelle”. Come si sa, ciò non è avvenuto. Non è che un frammento di un quadro d’insieme androcentrico che l’ultima enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, ci offre. La mancanza di “sorelle” nel titolo non è un’inezia. L’uso di un lessico escludente si snoda per tutte le pagine. A mo’ di esempio, la frequenza con cui compaiono nel corpo del testo termini-chiave è cifra di tale impianto: mentre il gruppo semantico uomo/uomini/ fratello/fratelli ha l’occorrenza di 114 volte, nel corrispettivo riferito a donne ecc. l’occorrenza è di 25 (senza contare la sezione delle note, il che aumenterebbe la sproporzione). Tenterò un’ermeneutica che sussuma questi dati “oggettivi” in un quadro complessivo più ampio.

Andiamo con ordine: l’enciclica Fratelli tutti è un testo che ha luci e ombre. Mi soffermerò su entrambi gli aspetti, cercando di mantenere un certo distacco e di tenere a bada la mia irruenza di donna ferita.

Luci 

Altri documenti di Francesco (Laudato si’ e Evangelii gaudium in particolare) ci hanno dischiuso una prospettiva di magistero papale sorprendente; ci trovavamo di fronte a un papa profetico. Alla loro apparizione, quei due documenti mi ispirarono entusiasmo (nel senso etimologico del termine: [en] dentro [thèos] dio. Il dio dentro). Anche in questa ultima enciclica si alza, in forma più dimessa, una ispirazione analoga e si persegue nella “lotta” (come Francesco dice) perché trionfi il bene: un bene non slavato nella stanca retorica di parole logore, ma irrorato dal sussulto del cuore. Molto spazio è poi orientato alla strumentalizzazione perversa di categorie politiche originariamente sorte per il bene comune, ma che poi «…sono state manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio» (14). Perfetto, ma in quali mani (appartenenti a quale genere) è tale dominio?

Ombre 

Con questa domanda, ci si avvia alle ombre. È certamente “scomoda” questa sezione, riferita a un papa che ha il merito di non scolorire le parole dell’evangelo, fatto insolito per la gran parte del clero. Ma l’esercizio della critica è un dovere sororale. «Se tacciamo, siamo complici», dicono le donne tedesche di Maria 2.0.

1. «A volte mi rattrista il fatto che, pur dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza» Così al comma 86 dell’enciclica. Per le violenze – incommensurabili – che si sono riversate nei secoli sulle donne permane l’oblio. Pur così premurosi nel rovesciamento della piramide, non si contempla la realtà delle donne, quelle in carne e ossa, che vivono, parlano, ragionano a partire dal discernimento della propria soggettività. L’orizzonte simbolico, l’ispirazione ecclesiologica, la visione antropologica ne sono in-differenti, nel senso letterale che non colgono profili di una differenza, originaria e fondante del genere umano, della creaturalità dell’umano, non in senso essenzialista, certamente, ma biblico; nel versetto, «E Elohim creò l’umano (adam) in sua immagine, in immagine di Elohim lo creò, maschio e femmina li creò»… essa si è dischiusa in modo esemplare, rivelando la premura di Dio per la dualità e da qui la vocazione delle creature a comprendersi nella relazione di differenza. Ma in Fratelli tutti l’ordine del discorso teologico/pastorale messo in atto è quello enunciato da un soggetto che fa coincidere il punto di vista dell’uomo con quello “universale”.

2. La questione dell’esclusione delle donne da funzioni di responsabilità, la mancanza di un esplicitata consapevolezza per le offese e i torti perpetrati nel corso dei secoli (e di un mea culpa, vedi la lettera aperta https://www.cdbitalia.it/chiesa-chiedici-scusa/), la questione degli abusi sessuali e di coscienza sulle religiose (e ovviamente sui/sulle minori) sono imprescindibili in una analisi di nodi e strozzature che logorano lo spirito di fratellanza/sororità. Un principio di realtà lo imporrebbe. Ma tutto ciò è esiliato dal discorso, un esilio che si estende a nomi di autrici-donna (e non c’è nessuna nel lunghissimo elenco delle note).

3. La famiglia è istituzione chiave per la stabilità sociale. Ma di quale società? Gesù, nei quattro vangeli, ci offre immagini inedite sulla famiglia. I passaggi sono molteplici e tutti incredibilmente folgoranti. Non sono in gioco gli affetti familiari, ma quella famiglia- istituzione che genera rattrappimento dei cuori e non apre allo Spirito. Nelle parole dell’enciclica, la famiglia è «caldo focolare domestico», 164. La sorda violenza che troppo spesso si riversa tra le mura domestiche svanisce nell’indifferenza per la sofferenza delle vittime. «Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare. I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia» (230). Silenzio sul fatto che la maggioranza dei femminicidi, degli abusi su donne e minori, dei maltrattamenti e degli stupri perpetrati da partner avvengono tra le pareti domestiche. Omertà sulle moltissime donne insultate, maltrattate, tradite e umiliate dai loro partner maschi, spesso davanti ai figli; sulla complicità (negli effetti pratici) del clero con l’aggressore, nel momento in cui le donne si sentono dire, dal proprio confessore o parroco, di sopportare, di sacrificarsi, perché su di loro grava il compito di reggere la famiglia. Costoro compiono quella profanazione che il papa nomina al comma 52, ovvero “demoliscono l’autostima”, umiliano e colpevolizzano proprio chi è stato offeso. Questo fanno da secoli la Chiesa e la società: trasformano le donne vessate da prepotenze e atti disumani in esseri colpevoli. L’amore, la relazione tra amanti sono lievito ed esultanza nella nostra vita, manifestazione messianica, dono del divino e sigillo della bellezza del creato. Ma tali legami devono avere come paradigma la parola biblica stare di fronte (Gen 2, 18): essa significa che ish e ishah, Eva ed Adamo, sono Soggettività – di cui nessuna delle quali precede l’altra, né ne è il complemento – che si rapportano da pari a pari, perché solo la relazione rimanda all’Eterno.

4. Precedentemente nel testo avevamo già letto che: «L’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio. È un fatto che “doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti”» (23). Questi scarni accenni “dedicati alle donne” sono imbarazzanti al massimo grado, per la loro contraddittorietà palese. Mi limito a dire che mi evocano quei riquadri a lato pagina che, nei manuali di storia, si intrufolano nello sviluppo del libro: “curiosità” extracurricolari che allietano le menti di scolari/e: “La condizione della donna nel medioevo” per esempio. Poi si riprende il filo serio dell’apprendimento.

5. Il richiamo all’amicizia sociale è la linfa del testo. Ma, perdonate la mia insistenza: quale tipo di cultura, quali paradigmi antropologici, quali assetti simbolici, quali strutture di peccato destabilizzano e assediano l’amicizia sociale? Non sono forse le istituzioni, l’economia, i saperi in mano maschili? È una conclusione sillogistica allora dedurre che le responsabilità dello sfascio morale e materiale è del genere maschile. Nell’enciclica – e ovunque si edifica un ordine del discorso come neutro universale – il genere dell’ingiustizia non si palesa. Ma la cultura che avversa la fratellanza sociale e che è egemone ha un’origine storica: lì si radica quell’identità maschile dove l’onore, la competizione, la supremazia sull’altro/a, la virilità, l’orrore della vulnerabilità sono ingredienti “naturali e normali”. L’assunzione consapevole di tali tratti identitari è totalmente assente nell’enciclica. Ci si sottrae al compito di accogliere una visione dell’umano (e soprattutto dell’uomo) che ospita la propria fragilità, vulnerabilità, che non soffoca la propria debolezza. «Quando sono debole è allora che sono forte» (2 Cor 12,10) scriveva san Paolo. Se la debolezza compare nel testo, essa è interpretata come un quid che riguarda gli altri («saperci responsabili della fragilità degli altri», 115), non come un “mio” curvarmi in me stesso/a; è difetto, crepa da cui difendermi perché porta al traviamento: «è possibile dominarla con l’aiuto di Dio» (166). Siamo in linea con l’encratismo della tradizione classica. In tutto il testo, credo, solo in una occasione si accenna alla debolezza come fioritura dell’essere. «Smettiamo di nascondere il dolore delle perdite […] La riconciliazione ci farà perdere la paura a noi stessi e agli altri» (78). Ma è un passaggio di sfuggita, troppo solo accennato per avviare una conversione.

Per finire, osservo che un’impostazione analoga conteneva l’enciclica Laudato si’, come ebbi modo di rilevare in un articolo che, pur nella gratitudine per quell’“inaudito” evangelico di cui il testo era testimonianza, evidenziava l’“autarchia” maschile in esso racchiusa. Ora quegli spunti mi appaiono avvalorati.

Se Francesco, innegabilmente, è persona che, nel suo operare, vola alto, mi chiedo: a quando, il volo alto di fronte alle donne? 

(da: Riforma.it – QUOTIDIANO ON-LINE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE E VALDESI IN ITALIA)