Cattolici irrilevanti?

Franco Monaco
Europa | 06.07.2012

La discussione intorno alla auspicata o paventata ripresa di un protagonismo politico dei cattolici
italiani sconta qualche confusione ed equivoco. Specie nel suo presupposto: quello di un’asserita
loro marginalità o addirittura irrilevanza politica.

Un assunto che merita di essere problematizzato o quantomeno approfondito. Proverò a farlo
prendendo le mosse da una pagina di Mino Martinazzoli: «L’aggettivo cattolico non è un aggettivo
del politico. È più importante, è un aggettivo dell’impolitico. In politica il mondo cattolico non c’è.
In politica ci sono i cattolici che scelgono di occuparsene, quelli che scelgono di non occuparsene e
ci sono quelli che se ne occupano in un modo e altri in un modo diverso. E si qualificano così non
perché sono cattolici».

Sorprende che si ignorino distinzioni e avvertenze così fondamentali e anche elementari.
Riprendiamole in ordine. Si richiede di chiarire il concetto di “rilevanza” dei cattolici. Con quali
criteri la si misura? È da supporre che si sottintenda non già le postazioni di potere occupate, ma il
contributo alla vita buona della polis, non l’affermazione di pretese confessionali, ma la trascrizione
universalistica dell’ispirazione cristiana suscettibile di essere apprezzata da cattolici e non, in
quanto funzionale al bene comune.

In secondo luogo, si deve distinguere tra religione e politica. Lo prescrivono la teologia e il più
autorevole magistero della Chiesa. Le espressioni più alte del movimento politico dei cattolici, da
Sturzo a De Gasperi a Moro, sono contrassegnate dalla cura per tale distinzione. Talvolta
incompresa. Spesso chi, in sede politica, si intesta una rappresentanza del mondo cattolico
semplicemente millanta o strumentalizza la religione. Sia quanti, dentro gli attuali partiti,
ostentatamente si rappresentano come cattolici per ricavarne una rendita di posizione, sia coloro che vi si affacciano ora vantando una primogenitura non si comprende a quale titolo.

Terzo: i cattolici che apprezzabilmente si impegnano in sede politica lo devono fare avanzando
proposte genuinamente politiche e qualificandosi appunto in ragione di esse, non in quanto cattolici.
In politica si deve diffidare dei cattolici “senza aggettivi”. Quelli cioè che non avanzano proposte e
progetti che vantino una loro validità appunto politica, cioè sul terreno di una loro interpretazione
del bene comune concreto e attuale. Infine, su tale terreno (autonomo ancorché non separato dalla
religione), forme, modi e strumenti politici attraverso i quali trascrivere una ispirazione cristiana
sono per definizione molteplici. Da una medesima fede si possono dare e di fatto si danno
molteplici orientamenti e percorsi politici. Non tutti, è ovvio, ma di norma una pluralità, dentro un
perimetro di coerenza e di compatibilità. Questo in via generale e di principio. Ma veniamo al caso
italiano di oggi. Anche qui si deve distinguere.

I cattolici in senso proprio, cioè non in senso genericamente sociologico-anagrafico, ma quelli
consapevoli e formati, rappresentano una minoranza nella società italiana. E, di più, una minoranza,
come si è osservato, politicamente divisa. Come è naturale che sia. Se le cose stanno così, c’è da
chiedersi se essa (meglio: esse, al plurale) sia effettivamente irrilevante. Talvolta mi chiedo se non
sia l’esatto contrario: a dispetto del menzionato luogo comune, i cattolici, in politica, contano più di
quanto essi non contino nella società, nelle professioni, nell’economia, nella cultura. Basti scorrere i
nomi di coloro che hanno responsabilità nei partiti e nelle istituzioni.

L’equivoco circa la loro presunta marginalità o irrilevanza muove appunto dalla rimozione delle
distinzioni sopra richiamate: tra rilievo nominale e significanza sostanziale, tra pretese confessionali
e qualità politica, tra condizione di minoranza e vocazione minoritaria. La circostanza poi che essi,
politicamente, si distribuiscano naturalmente tra destra, centro e sinistra è cosa che si riscontra in
tutte la democrazie mature. A chi (Riccardi, Giovagnoli e i promotori di Todi 2) parla di esigenza di
“condensazione” dei cattolici in un nuovo soggetto politico da organizzare dopo Monti e nella sua
scia, pongo qualche quesito: è utile sguarnire i partiti attualmente operanti ove i cattolici agiscono amodo di fermento talvolta rivestendo ruoli di primissima responsabilità? “Condensarsi” intorno a
quale progetto politico?

Quello di un governo emergenziale e di tecnici che ha comportato la
sospensione, per definizione temporanea, di una sana competizione politica democratica? Fare
conto sulla spinta del governo Monti, peraltro sostenuto da chi milita nei partiti della “strana
maggioranza”, autorizza forse a non dotarsi di una cultura e di un progetto in senso stretto politico
elaborato in proprio? Taluni documenti in circolazione ispirati al proposito di propiziare quel nuovo
protagonismo cattolico francamente impressionano per la loro modestia e genericità. Monti è una
risorsa anche perché, chiamato a “salvare l’Italia”, ha avuto cura di non assumere un connotato
politico di parte.

Ma chi ambisce a fare politica per “cambiare l’Italia” deve spiegare in quale direzione intende
cambiarla, declinando ed elaborando le proprie generalità politiche (posizionamento, programma,
relazione con altri attori politici già in campo). È questo il cuore della politica democratica, cui non
si può sottrarre chi ambisce a un sano protagonismo.