Sull’incontro della Chiesa italiana a Firenze. Una importante occasione sprecata di V.Bellavite

Vittorio Bellavite
coordinatore nazionale di “Noi Siamo Chiesa”

Ogni dieci anni nella Chiesa italiana si organizza un mega Convegno nazionale che dovrebbe servire a elaborare gli orientamenti pastorali per gli anni successivi. Quale sia la sua natura teologica o pastorale non si sa con precisione. Sono stati sempre incontri di grande impegno e preparazione. Dal punto di vista del loro ruolo nella storia della Chiesa essi, salvo il primo a Roma nel 1976, si sono collocati nella linea wojtyliana e ruiniana. Dell’ultimo a Verona nel 2006 abbiamo detto, a suo tempo, che esso fu inutile ed espressione di una dannosa continuità (proponemmo ai partecipanti, senza avere alcun riscontro, un testo che fu firmato da 566 esponenti di realtà di base, da teologi, da esponenti della cultura cattolica). Ora, con papa Francesco, “ Noi Siamo Chiesa” ha chiesto di partecipare a quello convocato a Firenze dal 9 al 13 novembre con il titolo “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” nella speranza di assistere a una vera comprensione del nuovo corso che si sta avviando nella Chiesa universale. E’ stata accettata la nostra richiesta ma per la partecipazione del solo responsabile nazionale. Mi sono così trovato a vivere dall’interno queste giornate non senza aver scritto prima le nostre proposte (si leggano sul nostro sito a www.noisiamochiesa.org/?p=4504) e non senza aver preso atto con soddisfazione di questa, assolutamente inedita, accoglienza nei confronti del movimento che coordino .

Lo svolgimento

A Firenze erano presenti più di 2000 persone, a testimonianza di uno sforzo organizzativo coerente con le attese che c’erano. Tutto ciò, nel mondo cattolico strutturato, ha comportato molti impegnativi momenti preparatori. Lo svolgimento generale dell’incontro è stato ineccepibile, una grande organizzazione, probabilmente dispendiosa, moltissimi volontari, anche sovradimensionati, una partecipazione da parte dei delegati puntigliosa e convinta, un’occasione di contatti e di amicizie veramente interessante e, per certi versi, arricchente soprattutto nei confronti di posizioni diverse, un’accoglienza della città al massimo livello, degna di Firenze: il Battistero messo a nuovo; l’apertura, dopo anni, del Museo dell’Opera del Duomo; la realizzazione di una Casa della Carità; tanti incontri con le realtà della Chiesa locale e soprattutto un’ accoglienza a papa Francesco superiore alle aspettative e molto di più -mi hanno detto- di quella riservata a papa Ratzinger a suo tempo. Lo stadio, durante l’Eucaristia del martedì pomeriggio, era stracolmo con più di cinquantamila persone, un momento emozionante. Come prevedibile sono rimaste fuori realtà importanti della cristianità fiorentina, tra tutte ricordo l’Isolotto. E il Card. Betori , arcivescovo di Firenze, nel suo intervento allo stadio, ha ricordato La Pira e don Milani ma non padre Balducci. Mi sono chiesto il motivo.
Complessivamente però il tutto mi è sembrato un po’ troppo ingessato, troppo previsto, troppo organizzato. All’ingresso della Fortezza da Basso, dove si svolgevano gli incontri, non ci sono stati interlocutori esterni , salvo il documento di “Noi Siamo Chiesa” che ho distribuito personalmente e un volantino del Coordinamento di tutte le attività missionarie. Il documento-base su cui discutere era la “Traccia”, un testo che ci era sembrato debole perché solo di riflessioni spirituali ma con ben scarse indicazioni sulla situazione italiana e sui problemi pastorali della Chiesa in Italia oggi. Cinque “vie” (Uscire, Annunciare, Educare, Abitare e Trasfigurare) erano i binari sui quali si sarebbe svolto il convegno. Anche di esse avevamo detto che non si capiva a cosa potessero servire, essendo troppo generali e generiche. Per brevità non posso descrivere le liturgie e le relazioni che si possono leggere online sul sito www.firenze2015 insieme ai messaggi degli ospiti delle altre Chiese cristiane e dell’islam. Momento centrale delle cinque giornate è stata la presenza di papa Francesco. Il suo intervento in cattedrale ai delegati non poteva essere più esplicito, è tutto da leggere e da rileggere: non bisogna credere troppo nelle strutture, nelle proprie certezze, bisogna avere capacità di incontro e di dialogo, “i cambiamenti sono sfide, non ostacoli”, “mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti” e via di questo passo sul potere, sul denaro ecc..nella linea del miglior Bergoglio. Per dire pane al pane e vino al vino, esso è stato, naturalmente con stile evangelico di alto livello, in contraddizione aperta col sistema ecclesiastico e con le campagne gestite dalla Cei per lunghi anni. Anche sulla stampa esso è stato percepito in questo modo.

I delegati

I partecipanti al Convegno erano o delegati diocesani (1679 ) o invitati dal Comitato preparatorio (326), a quanto ho potuto ricostruire dall’ elenco di 2005 nomi che assegnava ad ognuno i tavoli di discussione. Non sono state date indicazioni di alcun tipo sulle loro caratteristiche (età, sesso, attività, condizione clericale o meno, provenienze). I delegati sono stati nominati dal vescovo con criteri non resi noti ma che, grosso modo, dovevano prevedere la presenza femminile, del clero, della Caritas e di altri a discrezione. A quanto mi sembra di avere capito, avendo parlato con una decina di delegazioni, si è trattato in gran parte di persone legate abbastanza strettamente alle attività diocesane o parrocchiali. Le associazioni erano rappresentate piuttosto dai vertici nazionali, i movimenti pure mi sono sembrati abbastanza assenti. Su 2005 le donne erano 583 (29%). Il Comitato preparatorio era composto da 21 membri (due donne) e presieduto da Nosiglia, arcivescovo di Torino. L’area “critica” (per esempio quella che ha partecipato agli incontri di Chiesadituttichiesadeipoveri che ben conosco) era praticamente assente. Ugualmente erano assenti esponenti della politica di qualsiasi tipo. I delegati avevano il “badge” da tenere al collo con il cognome che precedeva il nome (una assenza di stile che meraviglia). Ma soprattutto su di esso non vi era alcuna indicazione sulla provenienza o appartenenza del delegato (o diocesi o associazione o altro). Quindi il cardinale o il vescovo o il prete lo si identificava solo per l’abito e per i laici non c’era che il contatto diretto. Giudico questa non identificazione un fatto negativo, in contraddizione con lo stile sinodale che è stato ritenuto da Galantino, Nosiglia e Bagnasco come il grande titolo di merito dell’incontro. Ogni delegato esprime una realtà di Chiesa che si incontra con altre realtà per un arricchimento reciproco. L’appartenenza , che deve essere ben evidente, è cosa fondamentale per un discernimento comunitario dei problemi e del funzionamento delle comunità ecclesiali.

I tavoli di discussione

I 2005 delegati sono stati divisi in 200 “tavoli” a loro volta divisi per le cinque “vie”. Quindi ogni “via” aveva quaranta sedi in ognuna delle quali la “Traccia” e la “via” venivano discusse da dieci persone selezionate dall’organizzazione, non so con quali criteri, probabilmente con una mescolanza di provenienza geografica, di sesso, di condizione clericale o laicale. Questi dieci delegati, che non si conoscevano, avevano 5-6 ore di tempo per discutere guidati da un facilitatore, preventivamente nominato, e dovevano alla fine elaborare una sintesi. Le quaranta sintesi così scritte, discusse, corrette ecc… sono state, a loro volta, sintetizzate in un solo testo per ogni via da persona nominata dal Comitato preparatorio. Le cinque sintesi delle cinque vie sono poi state presentate in assemblea a conclusione dei lavori venerdì, ultimo giorno. Il sistema sembra il massimo della democrazia dal basso, invece è un grande pasticcio, aggravato soprattutto dalla assoluta genericità della Traccia e delle “vie”. Al tavolo, a cui sono stato assegnato, il simpatico arcivescovo dell’Italia centrale del nostro minigruppo (ogni tavolo aveva un vescovo) ha preso subito la parola per dire che da quarant’anni si occupava di “annunciare” (eravamo in questa “via”) ma non sapeva di che bisognasse concretamente parlare; gli sembrava di essere a una riunione scout, i vescovi – ci ha detto- non avevano mai discusso di questo metodo bizzarro che era stato scelto. Gli ho detto che ero d’accordo e che un tale sistema poteva valere al massimo per un argomento circoscritto e per un’area geografica limitata. Faccio un esempio: catechisti di una diocesi che si incontrano per riflettere sulla metodologia del rapporto coi bambini da preparare alla prima comunione, oppure amministratori di alcune parrocchie limitrofe per parlare di bilanci, oppure ancora preti che si trovano per preparare l’omelia della domenica e via di questo passo. Anzi questi percorsi collettivi andrebbero incrementati dovunque per superare l’isolamento in cui vivono certi nostri ambienti chiusi nelle loro mura.
Il sistema scelto dà a tutti i delegati la possibilità di intervenire, di sentirsi coinvolto, protagonista e ciò è cosa buona. Ma, a semplice buon senso, non può funzionare per discutere delle grandi strategie di tutta la Chiesa per i prossimi anni da persone assolutamente diverse tra di loro per cultura, esperienza e provenienze, che non si sono mai viste prima. Per di più esse sono invitate a discutere su tematiche talmente generali che permettono loro di parlare proprio di tutto, dalle proprie esperienze locali o personali fino a riflessioni più vaste che possono interessare la Chiesa universale. Inoltre è un sistema che sembra fatto apposta per rendere pressoché impossibile l’emergere di posizioni diverse e critiche rispetto a quelle correnti in modo che esse possano essere poi socializzate e discusse in una sede minimamente allargata. In questo modo quelli che avevano il compito di fare sintesi hanno avuto in mano in gran parte la gestione dell’incontro. Faccio un esempio: ho chiesto al mio tavolo che si proponesse l’apertura della discussione sulla Chiesa povera, secondo le indicazioni di papa Francesco e in relazione alla situazione italiana. Lo stesso arcivescovo di prima mi ha stoppato ripetendomi la liturgia di quanto dice la CEI sulle questioni dell’ottopermille, del sostentamento del clero e dintorni. Questione chiusa. Il filtro nei confronti di qualsiasi possibile posizione minoritaria dal singolo tavolo ai quaranta tavoli di ogni “via” era così cosa semplice da fare, anche senza malizia .

I contenuti

Tutto ciò premesso sul metodo, i tavoli hanno molto discusso e leggere le sintesi è utile. Io ho arricchito la mia comprensione dei dibattiti parlando continuamente con singoli delegati. Elenco anzitutto ciò di cui, con qualche mia meraviglia, non si è parlato e che costituisce poi la base dell’opinione generale che mi sono fatta sull’incontro di Firenze. Non si sono fatte riflessioni autocritiche, almeno alcune, su tutte le questioni poste dal discorso di papa Francesco, non si è parlato del problema della povertà della Chiesa e degli scandali, non si è parlato della pedofilia del clero in Italia, non si è parlato della pace e della situazione internazionale, non si è parlato della situazione sociale (se non di striscio), non si è parlato del rapporto della Chiesa col potere (con le istituzioni) nel passato e oggi, non si è parlato del leghismo razzista, non mi risulta che si sia parlato dei poteri criminali e della necessità della legalità come DNA per il cristiano, non mi risulta che si sia parlato dell’informazione gestita dai media cattolici. Potrei continuare nell’elenco dei silenzi. O, meglio, è possibile che qualche delegato abbia sollevato qualcuno di questi problemi e di quelli contenuti nel documento di “Noi Siamo Chiesa” ma essi sono scomparsi nei passaggi e filtri successivi e risultano quindi inesistenti per le conclusioni del convegno.
Ma allora di cosa si è discusso? Di molto si è discusso e, a quanto so, con passione e impegno. Il senso generale delle cose dette riguardano il modo con cui organizzare meglio e con forme più adeguate le attività pastorali ordinarie che già si fanno . Faccio un elenco, a titolo solo esemplificativo, di quello che è emerso dalle sintesi che si possono leggere sul sito www.firenze2015: la Parola e la lettura della Bibbia, necessità di essere testimoni, attenzione alla famiglia, alle sue sofferenze e al suo ruolo educativo, modificare il linguaggio, bisogna formare i formatori, reti online in modo diffuso, tutela della domenica , maggiore presenza laicale e femminile, alleanza educativa con le famiglie, nuove figure educative, proposta della dimensione umana di Gesù, i giovani ci dicano il linguaggio da usare ecc.. Tutte indicazioni sottoscrivibili adesso come lo saranno tra dieci e più anni o come potevano esserlo dieci anni fa. Sono state tante le indicazioni su cosa si dovrebbe fare meglio e su cosa ci si impegna a fare. Ma è questo il messaggio da Firenze? E’ tutto qui? Questa proposta di presenza evangelica, di rinnovamento dell’annuncio, può avere una sua importanza ma non coglie quanto, qui e ora, serve per fare un salto di qualità e perché la Chiesa italiana pensi a percorrere altre piste e a correggere quelle precedenti. Faccio un esempio che serve per capire meglio. La sintesi dell’ultima delle cinque “vie”, presentata da un monaco di Bose, ha parlato della liturgia, del rapporto tra essa, la vita, la carità e i sacramenti. E va tutto bene ma nella sintesi non si dice una parola sul mediocre livello delle omelie domenicali di cui nessuno si occupa nella Chiesa italiana e che, salvo meritevoli eccezioni, sono occasione di disamoramento tra tanti fedeli che partecipano all’Eucaristia.
In questa situazione non ha avuto difficoltà il Card. Bagnasco a tirare le conclusioni l’ultimo giorno: ovviamente grandi richiami al papa, nessuna autocritica, né diretta né indiretta come conseguenza del suo discorso, qualche spunto personale con il suo giudizio ipercritico sulla cultura diffusa nella società e con la sua tradizionale enfasi su quello di buono che fa la Chiesa italiana e poi un forte richiamo alle sintesi dei gruppi come portatori di un grande nuovo messaggio tanto che -ha concluso Bagnasco- non è necessario alcun ulteriore documento conclusivo.

Conclusioni

Da dove vengono questi modesti contenuti e i silenzi sulle questioni vere che la Chiesa italiana dovrebbe iniziare ad affrontare? Mi sembra che il sistema è stato strutturato in modo tale da preparare queste conclusioni. La selezione da parte dei vescovi dei delegati (interni ai circuiti diocesani), la pista di discussione contenuta nella Traccia e le cinque “vie” e il metodo di raccolta delle opinioni sono le premesse che non hanno permesso di portare alla luce energie , idee e volontà di cambiamento che pure nella nostra Chiesa esistono e che hanno, nella scia di papa Francesco, una grande volontà di discontinuità con un troppo lungo passato. In effetti l’intervento del papa è stato prezioso e speriamo che riesca ad essere letto e meditato aldilà di queste strutture ecclesiastiche ossificate. Negli enfatici commenti conclusivi di autosoddisfazione, di Galantino e di Bagnasco, si è parlato del Convegno come di un percorso sinodale importante. Anzi la cosa più importante di Firenze, secondo questi ragionamenti, sarebbe l’avere avviato questa nuova strada sinodale. Mi sembra però che sia una strada partita male. Sulla ricerca di metodi sinodali per la vita della nostra Chiesa anche noi siamo, in linea di principio, d’accordo. Però il convegno di Firenze rischia di essere concretamente, come quello di Verona, un incontro inutile, ma con la differenza che ora è fatto veramente grave sprecare l’occasione di inserirsi con coraggio e parresia nel nuovo corso di papa Francesco.