Un linguaggio femminista sul divino

Mary Hunt
Adista Documenti n. 22/2012

Da decenni, le teologhe femministe si trovano a rispondere alla sfida di parlare del divino. Un compito che si è mostrato possibile e vantaggioso. (…) Credo che il nostro scopo sia quello di renderci utili, affinché i nostri suggerimenti, a partire da una prospettiva teologica, possano far parte di strategie più ampie di cambiamento sociale ed ecclesiale. (…).

1. UNA PAROLA SUL CONTESTO

(…). Le attuali ricercatrici femministe si uniscono ad altre persone nella comunità teologica chiedendosi se vi sia un linguaggio sul divino che abbia un senso rispetto a tanti messaggi di odio ispirati dalla destra e vomitati in nome di Dio. Dio sembra avere oggi una cattiva reputazione! Ripercorrendo gli approcci a tale questione da parte di alcune teologhe femministe, porrò l’accento su quelli che presentano connessioni teo-politiche esplicite.

Il mio presupposto è che il linguaggio sia performativo (termine usato in linguistica per indicare quelle enunciazioni che coincidono, in determinati contesti, con l’azione stessa, ndt), come insistono le teorie degli atti linguistici, ma anche altamente politicizzato, con conseguenze dirette tanto strutturali quanto personali. Nessun linguaggio è innocente. Noi femministe abbiamo appreso, spesso a nostro rischio, che il linguaggio su Dio è uno dei più difficili e pericolosi con cui lavorare, perché può tradursi in strutture oppressive quanto costituire un trampolino per la liberazione. Spero che il mio contributo rappresenti uno di questi trampolini.

2. IL LINGUAGGIO TEOLOGICO FEMMINISTA SUL DIVINO

Quando alcune statunitensi del XIX secolo iniziarono a riflettere teologicamente sul divino, il linguaggio normativo con cui si scontravano era dato da parole come “Padre”, “Signore”, “Sovrano” e “Re”. Le donne erano impegnate nella lotta sociale per il suffragio universale. E compresero ben presto che, se non fossero cambiati i fondamenti religiosi della loro società, che considerava le donne cittadine di seconda classe, non sarebbero mai riuscite a trasformare il tessuto sociale e non avrebbero mai avuto diritto di voto. Compresero che le idee religiose servivano da fondamento per le strutture sociali. A meno che non cambiasse il modo di concepire Dio, le donne e altre persone emarginate, specialmente quelle di colore, sarebbero rimaste subordinate per sempre. (…).

Negli anni ’60, in quello che è ampiamente considerato il primo saggio di teologia femminista, Valerie Saiving, una teologa ebrea, scrisse a partire da quello che definì «un punto di vista femminile». Saiving concordava con i teologi Paul Tillich e Reinhold Niebuhr sul fatto che Gesù era morto per salvare tutti gli uomini dal peccato di orgoglio. E quanto alle donne? Gesù era morto anche per salvare le donne? Nessuno aveva mai operato questa distinzione, presupponendo che il linguaggio di Dio fosse il modello standard. Saiving affermò che, avendo uomini e donne esperienze così diverse all’interno di una cultura patriarcale, anche la natura dei loro peccati era diversa. Se i peccati degli uomini erano legati all’orgoglio e al potere, essa suggerì che quelli delle donne fossero piuttosto l’autobanalizzazione, la disattenzione, i tentativi di fare troppe cose allo stesso tempo e non prendere sul serio se stesse e le altre donne. E si rese conto che queste non erano differenze “essenziali” in relazione al genere femminile, ma condizionate dal modo in cui le donne e gli uomini vivevano in società. E in questo la religione, principalmente il cristianesimo, svolgeva un ruolo importante.

L’opera di Saiving ha posto le basi per affermazioni successive sulla natura della religione come natura condizionata dal genere. In modo analogo, i teologi latinoamericani della liberazione affermarono che non si poteva predicare il Vangelo ai poveri allo stesso modo che ai ricchi, il che si tradusse in un’analisi di classe della religione. I teologi afro-americani dissero che Gesù era nero, il che si tradusse in un’analisi razziale della religione. Allo stesso modo, anche le femministe richiamarono l’attenzione sul fatto che ogni linguaggio teologico contiene indicatori di genere. (…).

Mary Daly, una teologa cattolica bianca, (…) concluse, nel suo fondamentale libro Beyond God the Father (1973), che «se Dio è maschile, allora il maschile è Dio». Per quanto tale pensiero sia stato superato da molto tempo, ritengo che essa avesse ragione a evidenziare come le persone detentrici del potere nella società siano quelle le cui concezioni del divino sono dominanti.

Anche alcuni filosofi greci avevano idee chiare al riguardo. Si dice che Eraclito abbia affermato che, se i cani, i gatti, le mucche e i maiali avessero delle divinità, queste avrebbero l’apparenza di cani, gatti, mucche e maiali. Che lo abbia detto o meno, la percezione di base è corretta. Il fatto è che gli esseri umani, diversamente dagli animali, sono capaci di plasmare il mondo secondo i loro desideri. È per questo che non soprende che le caratteristiche prevalenti del divino nel cristianesimo della fine del XX secolo fossero ancora quelle dell’onnipotenza, dell’onniscienza e dell’onnipresenza.

Queste tre caratteristiche non rispondevano ai sogni di una comune donna di casa. Erano, invece, le proiezioni di uomini detentori del potere, che dovevano pensare a qualcosa di “più” di quello che già avevano. E che ritenevano che più potere, più conoscenza, più capacità di essere nel mondo e di plasmarlo dovessero appartenere a chi li aveva creati. Questo “più” è relativo. Una donna povera in cerca di cibo e di riparo per i propri figli potrebbe concepire Dio come colui/lei che dona il pane e fornisce rifugio. Ma per quanti hanno la pancia piena e una bella casa, la fonte della propria abbondanza deve oltrepassare la propria capacità di rifornirsi di beni. Per questi andava bene citare Anselmo, per il quale Dio era “ciò in relazione a cui nulla di più grande poteva essere concepito”. Da qui l’approccio del tipo “omni”, che enfatizzava una differenza quantitativa tra il divino e l’umano: Dio è più di ciò che i detentori del potere già possiedono. Se questo rappresenta anche una differenza qualitativa, una differenza di specie, non è sempre chiaro. Per questo non siamo lontani dal vero quando parliamo dei signori dell’industria o degli dei di Wall Street.

Nelle Morton, una teologa femminista presbiteriana bianca che scrisse negli anni ’70, adottò un’altra concezione, affermando che, al principio, non era in assoluto il Verbo, ma il grande Orecchio dell’universo impegnato ad ascoltare. Al principio, era l’ascolto. Un’idea nata quando, in un gruppo di donne, una di queste, sopravvissuta ad un abuso sessuale, aveva raccontato la sua storia e le altre avevano ascoltato con attenzione. Dopo il doloroso racconto dell’accaduto, la donna aveva detto: «Voi, ascoltandomi, mi avete fatto parlare». Nelle Morton comprese che, prima di parlare, viene la disponibilità ad ascoltare. È un’inversione completa dell’abituale sequenza comunicativa, in quanto è chi ascolta e non chi parla ad avere il potere di iniziare. A partire da una prospettiva femminista, Nelle Morton ipotizzò che questo è il modo d’essere di Dio. Mentre i teologi patriarcali avevano sempre iniziato dalla Parola di Dio, questa pioniera femminista suggerì che il ruolo primario di Dio fosse quello di ascoltare. E immaginò le innumerevoli implicazioni di questa inversione di ruoli.

Anne McGrew Bennett, una militante protestante bianca dello stesso periodo, è stata la prima teologa femminista a tracciare connessioni esplicite tra un linguaggio di Dio escludente e guerra, razzismo, povertà, ecc. Ha scritto: «I simboli della guerra sono usati nel modo più grossolano negli inni ecclesiali (…). Dio viene chiamato Re, Signore, Sovrano Onnipotente, il tutto con connotazioni militari. La Scrittura, gli inni, le preghiere presentano Dio nelle vesti di un Re e di un Guerriero e ritraggono noi stessi “come un potente esercito in marcia”. Dobbiamo affrontare il potere del linguaggio di evocare immagini, che a quel punto hanno una vita propria, plasmando le nostre strutture e orientando le nostre azioni».

Secondo Anne Bennett, l’utilizzo di questo linguaggio rafforzava l’immagine di un Dio principesco e guerriero, il cui stesso essere confermava e benediceva chi agiva da principe e da guerriero. Cambiamenti in questo linguaggio e in queste immagini si sarebbero tradotti – concludeva Bennett – in cambiamenti comportamentali e strutturali. Ritengo che avesse ragione, per quanto sarebbero dovuti trascorrere decenni prima che la maggior parte delle persone comprendesse i suoi argomenti. Il linguaggio sul divino ha un impatto diretto e potente sul modo in cui è plasmata la società. (…).

Tale linguaggio funziona tanto come risorsa per tracciare un orizzonte trascendente quanto come catalizzatore per vivere responsabilmente sull’unica Terra che condividiamo.

Ricercatrici bibliche femministe, come per esempio Elisabeth Schüssler Fiorenza, hanno sviluppato una comprensione scritturistica della Sophia-Saggezza. Le immagini femminili trovate nei Proverbi offrivano una contrapposizione ricca ed evocativa al linguaggio patriarcale (…) prevalente nel cristianesimo. A suo giudizio, tali immagini funzionano in modo politicamente utile per «trasformare le regole tradizionali e i termini ontologico-metafisici con cui parlare di Dio/Dea, anziché semplicemente completare o sostituire il linguaggio maschile su Dio/Dea con un linguaggio femminile». Schüssler Fiorenza è attenta a spiegare come non basti soltanto aggiungere il linguaggio femminile al linguaggio maschile sul divino. Al contrario, «molte immagini diverse di diversi uomini e donne e differenti simboli della Dea devono essere applicati a Dio/Dea in generale, come a tutte e tre le persone della Trinità». (…).

Questi approcci femministi, insieme ad altri che potremmo aggiungere, sono tutti approcci singoli, ma presentano una dinamica comune. Queste teologhe non sono femministe semplicemente perché tengono conto del benessere delle donne e delle bambine dipendenti, ma perché si sono formate prestando un’attenzione specifica all’ingiusta dinamica del potere e al superamento delle disuguaglianze. Esse rappresentano voci teologiche nuove e diversificate all’interno del dialogo teologico. (…).

Se è proprio della nostra condizione umana vivere senza certezze, lo è anche comprendere e gestire i modi in cui il linguaggio plasma il nostro mondo. Per questo, se concordiamo sul fatto che non conosciamo la pienezza del divino, o persino se non siamo d’accordo su questo, dovremmo perlomeno riconoscere che il nostro linguaggio e il nostro parlare/ascoltare fanno un’importante differenza.

3. L’ATTO DI NOMINARE COME PRIORITÀ PER CHI NOMINA

Perché i teologi e le teologhe insistono a discutere riguardo al nome di Dio? Perché non cominciare piuttosto dalle questioni che provocano divisione in un mondo paradossalmente globalizzato, ma sempre più fratturato? Esistono due motivi principali ovvi per questa scelta. In primo luogo, si tratta del nostro lavoro come teologi/ghe e, in secondo luogo, è il fondamento per tutto ciò che facciamo. (…).

È ragionevole affermare che, prima delle forme femministe e di altre forme di teologia della liberazione, le esperienze di quanti nominavano il divino erano relativamente uniformi. La maggior parte dei teologi era di sesso maschile; molti erano uomini del clero che lavoravano per le istituzioni religiose. Le loro immagini e i loro simboli tendevano a riflettere una stretta gamma di esperienze. In tal modo, nella misura in cui i circoli teologici si ampliavano grazie alle lotte delle donne, delle persone di colore e degli emarginati, si ampliava anche il linguaggio sul divino.

Il lavoro teologico contemporaneo comporta adesso il compito di invitare, incoraggiare, aiutare individui e comunità intere ad articolare i nomi dati al divino. Ciò può essere fatto nella preghiera, nella danza, nell’arte, nella predicazione, nel silenzio, nei sacramenti, nello studio della Scrittura o in altre forme di spiritualità in cui la maggior parte delle persone realizza l’incontro con il divino. Il linguaggio sul divino si trova essenzialmente al di fuori delle conferenze teologiche: è molto più facile incontrarlo in stanze di ospedale in cui le persone stanno morendo, nelle foreste tropicali dove la natura è in grave pericolo, nella danza frenetica di una festa notturna. È qui che si ascoltano i nomi del divino nei toni più diversi, probabilmente con maggiore precisione di quanto avvenga nelle nostre riunioni.

Alcuni teologi cristiani bloccarono questo discorso quando ridussero erroneamente la nozione di Logos a quella di Parola, mettendola in rapporto con Gesù. Invece, io suggerisco che (…) la teologia non sia tanto la Parola su Dio (theos + logos) quanto il parlare (logos) su ciò che non può essere contenuto in alcuna espressione particolare. (…). Il nostro compito non è quello di trovare il nome corretto per Dio, come se la ricerca di una vita possa infine rivelarlo. Il nostro compito è, questo sì, imparare ad ascoltare e valorizzare i molti nomi e, allo stesso tempo, rispettare le molte persone che nominano. (…).

Considerando il notevole impatto delle idee relative al divino sulla vita quotidiana – dal modo in cui strutturiamo le nostre economie fino a quello che pensiamo della vita dopo la morte – credo che la teologia sia troppo importante per lasciarla ai teologi e alle teologhe. Nominare il divino è il fondamento per tutto ciò che facciamo. Se le religioni influenzano la nostra percezione delle relazioni umane e della nostra relazione con la Terra in tutta la sua ecofragilità, allora i nomi religiosi per designare il divino sono cruciali per la giustizia sociale. Per esempio, se Dio non è Padre ma Amico, dobbiamo operare molti aggiustamenti in relazione tanto al potere e alla responsabilità degli esseri umani quanto al divino. (…).

4. IMPLICAZIONI DEL DISCORSO FEMMINISTA PER LA TEOLOGIA E IL CAMBIAMENTO SOCIALE/ECCLESIALE

La questione delle priorità sorge dalle necessità del mondo, non dai nomi del divino. Pensare il divino in maniera separata dal pensiero concreto sul mondo è un errore metodologico. Significherebbe ignorare la ragione primordiale del nostro lavoro che è quella di porre percezioni religiose al servizio del bene comune. Marcella Althaus-Reid ha affermato che forme successive di teologia della liberazione hanno perso la loro efficacia nella misura in cui hanno smarrito la propria specificità e concretezza. (…). È nelle lotte quotidiane delle persone che la realtà del divino è più ovvia.

(…) Le teologhe femministe affrontano temi fondamentali come il linguaggio sul divino non come un vuoto esercizio teologico, ma per decostruire gli argomenti che si traducono in oppressione. Per esempio, riguardo alla questione dell’ordinazione, alle donne è vietato esercitare il ministero presbiterale perché non presentano “una somiglianza naturale con Gesù nell’eucarestia”. In base agli argomenti vaticani, le immagini nuziali della Chiesa come sposa e di Gesù come sposo rendono impossibile alle donne l’esercizio della funzione sacerdotale. (…). Che è una visione biologistica dalle radici pre-illuministe adeguata al pensiero simbolico odierno esattamente come lo è l’affermazione che la Terra è il centro del sistema solare. (…).

Qualcosa di simile vale anche per la giustizia riproduttiva: la nozione in base a cui le donne non possono prendere decisioni sul proprio corpo dipende dal fatto che, se Dio è l’Onnipotente, allora nessuno può osare intervenire sulla creazione. Questo è solo compito suo. Ma se il nome di Dio è Madre, è facile pensare che le donne si prendano carico della riproduzione e assumano decisioni rispetto alla propria gravidanza. Si tratta di un migliormento rispetto al modello anteriore, ma non è necessariamente il meglio che si possa fare. (…). Diversamente dai loro predecessori, le persone post-moderne sono intimamente coinvolte nel compito di plasmare la vita. Che si tratti di prendere decisioni sul fine vita, di utilizzare l’ingegneria genetica o di trovare cure per malattie un tempo mortali, siamo attori, non semplicemente oggetti. È come co-creatori che operiamo. È solo se attribuiamo al divino un controllo totale e assoluto, cercando con ciò di svolgere noi stessi il ruolo del divino come tenta di fare il Vaticano in relazione alla questione riproduttiva, che abbiamo una qualche giustificazione per impedire alle donne di agire come attori morali pieni. Se Dio non è Padre, allora il Padre non può agire come Dio. Come nel caso dell’ordinazione, anche qui l’immagine del divino fa un’enorme differenza. (…).

Questi (…) esempi indicano come il linguaggio su Dio sia importante per la vita quotidiana, operando come una specie di chiave teologica in grado di tenere insieme sistemi interi di significato. Nella misura in cui tale linguaggio cambia, cambiano anche la dinamica del potere e le risultanti cosmovisioni. (…).

Il lavoro teologico relativo al linguaggio su Dio è pericoloso tanto per quello che fa, quanto per le reazioni che può provocare. Qualunque cambiamento nel modo normativo di parlare del divino è accompagnato da un cambiamento simile a livello di cosmovisione. In caso contrario, il linguaggio su Dio non avrebbe senso. Vi sono guerre condotte in nome di Dio, gruppi oppressi perché non si conformano alla nozione di Dio che è stata imposta (…). Di quali altre prove c’è bisogno per dimostarre che il linguaggio di Dio è una forza potente? (…).

Perché non si banalizzi la relazione intima tra il linguaggio su Dio e la vita sociale/ecclesiale, è il caso di osservare come alcune delle lotte più feroci in ambito ecclesiastico si svolgano attorno al culto e alla liturgia (…). I cattolici possono rendersene conto tanto a livello di parrocchia come a livello di Vaticano, dove si combattono alcune delle più brutali battaglie riguardo al linguaggio da includere nella Messa o alle immagini da “consentire” nella preghiera.

È difficile spiegare perché, di fronte a guerre distruttive, gente che muore di fame e un pianeta in pericolo, persone religiose dovrebbero perdere il loro tempo in questa apparente sciocchezza. Ma quando si comprende il fatto che le parole riflettono credenze e impegni che modellano strutture sociali, allora le battaglie sulle parole nel culto non sono affatto una questione banale. Per esempio, l’utilizzo di espressioni come “tutti gli uomini” o “tutte le persone” nella vita liturgica comporta l’esclusione o l’inclusione delle donne nella considerazione come esseri umani in pienezza. Nella misura in cui le donne vengono escluse nella Chiesa, si permette implicitamente e, in molti casi, esplicitamente, che vengano escluse nella società. Per quanto questa appaia una questione del secolo scorso, mi dispiace dover informare che essa è oggi ancora ben viva in molti luoghi.

Si immagini un mondo in cui il divino venga compreso come Amico invece che come Padre, come Fonte invece che come Signore, come Pacificatore invece che come Sovrano, come cittadino invece che come Re. Questo è appena l’inizio. Si immagini se fossimo capaci di pensare al di fuori del modello cristiano per cogliere il divino nelle innumerevoli espressioni della forza vitale che ci circonda. Lungi dal costituire l’incubo del panteismo immaginato dai tradizionalisti, tale concezione inviterebbe alla partecipazione tutte le persone che desiderano nominare e spiegare il proprio Dio. E se lasciassimo parlare il silenzio, come i mistici prima di noi hanno scelto di fare? Potremmo allora ascoltare più di quanto si possa parlare. (…).

Resta ancora da verificare l’impatto del cambiamento teologico su grande scala, perché le forze recalcitranti dello status quo hanno impedito che si verificasse. Abbiamo tuttavia indizi e barlumi sufficienti – in pastori e pastore femministe, in donne che hanno scelto per conto proprio di portare avanti o di interrompere la gravidanza, in amanti dello stesso sesso che riflettono al pari di tutti l’amore di Dio – per sapere che questo cambiamento è possibile e che farà una grande differenza. (…).

5. PARLARE DI DIO IN UNA FESTA POSTMODERNA

(…). Bisogna ammettere che queste non sono questioni su cui sia facile conversare, ma, se non possono essere comunicate nel mondo quotidiano, è lecito dubitare della loro effettiva utilità. Il tempo e il talento dei teologi/ghe benintenzionati/e non dovrebbero essere sprecati in cose astratte ed esoteriche, specialmente in un mondo ingiusto e non amorevole.

(…). In primo luogo, le femministe post-moderne devono realizzare il loro lavoro all’interno delle tradizioni da cui provengono – nel mio caso, il cattolicesimo – così come nel quadro della vita interreligiosa. In un certo senso, è più difficile avere a che fare con il cattolicesimo che con altre religioni universali. C’è infatti un’estrema indisponibilità da parte dell’autorità romana centralizzata ad immaginare e tanto meno ad incorporare nuove immagini e simboli, perché questi cambierebbero la dinamica del potere nella Chiesa e nel resto del mondo. A decenni di distanza dall’avvio da parte delle teologhe femministe di un’elaborazione di immagini alternative a quella del Padre, la Chiesa cattolica kyriarcale si rifiuta nettamente di incorporare nel suo vocabolario un qualunque linguaggio di questo tipo. Si tratta di una fonte di dissonanza spirituale per molti cattolici, indotti a cercare appoggio religioso in altre parti.

Il discorso religioso post-moderno è interreligioso. Qui è più facile introdurre cambiamenti, perché nessuno è “padrone” di tale discorso. Per lo stesso motivo, nessuno se ne assume neppure la responsabilità. Ciò comporta una specie di vuoto religioso, in cui si insinuano molte tendenze pericolose. Per esempio, l’idea che tutti i linguaggi su Dio sono uguali o quella che la migliore opzione è non parlare proprio di Dio, perché così nessuno si offende, sono rischiose. Tale dinamica ignora il fatto che le persone che ricorrono al linguaggio su Dio modellano il mondo con esso, come fa la Destra religiosa in maniera così efficiente e con risultati tanto disastrosi. (…).

Come esprimere nuove idee sul divino quando le parole non sono sufficienti? Molti mezzi, come la danza, l’arte, la predicazione, la musica, il teatro, trasmettono messaggi in maniera ben più ampia di quanto faccia la maggior parte della ricerca accademica sul divino. Pertanto, una parte importante del lavoro teologico è quella di trasformare le nostre idee in conversazioni da festa, di modo che tutte le persone possano comprenderle. Il nostro linguaggio deve essere semplice, concreto, convincente, coinvolgente e umile. È meglio ascoltare che dire troppo.

6. CONCLUSIONE

Il discorso femminista sul divino è un contributo ad una conversazione più ampia capace di abbracciare molte prospettive. Il suo aspetto principale non è quello di sostituire “Padre” con “Madre”, ma di evidenziare la dinamica di potere inerente all’atto di parlare sul divino e di invitare voci diverse a prendere parte alla discussione. È da entrambi questi sforzi che deriveranno cambiamenti concreti a livello di vita quotidiana. Si registreranno un numero più ampio di iniziative di amore e di giustizia e una seria resistenza al cambiamento. Ma, attraverso un discorso femminista sul divino tale da poter essere facilmente condiviso in un ambito festivo, esistono buone ragioni per sperare che un numero maggiore di persone ne resti coinvolto. Credo che questa sia una ragione sufficiente per portare avanti questo lavoro.