Sinodo sulla famiglia: apparenza e realtà

Valerio Gigante
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«I divorziati risposati civilmente appartengono alla Chiesa. Hanno bisogno e hanno il diritto di essere accompagnati dai loro pastori», ha detto il cardinale Péter Erdö, arcivescovo di Esztergom-Budapest, parlando nella sua veste di relatore generale al Sinodo straordinario dei vescovi sulla famiglia in corso in Vaticano. E tutti i giornali e le televisioni hanno rilanciato la dichiarazione, sottolineando le grandi novità ed aperture che caratterizzano la Chiesa ai tempi di papa Francesco.

In realtà, proprio la dichiarazione di Erdö mette meglio di altre in rilievo l’estrema ambiguità in cui si sta muovendo la gerarchia cattolica sotto l’attuale pontificato, di cui il Sinodo in svolgimento è una significativa espressione: molta “fuffa”, dichiarazioni che preannunciano novità, svolte, rivoluzioni, molte commissioni, dibattiti, promesse di studiare ed approfondire i problemi, poche, pochissime risposte ai problemi e ai temi che la realtà contemporanea solleva e pone anche alla Chiesa cattolica.

Perché, tornando alle dichiarazioni di Erdö, nessuno, nemmeno i prelati più conservatori, potrebbe mai sostenere il contrario di quanto affermato dal cardinale ungherese: i divorziati risposati, come tutti i battezzati, sono parte della Chiesa, membri delle comunità ecclesiali alle quali appartengono; ci sono diocesi e parrocchie che hanno addirittura progetti pastorali specificamente destinati ad accompagnare persone che si trovano in questa condizione. La questione è quindi un’altra: poiché la Chiesa considera quello di vivere stabilmente con una persona al di fuori del vincolo matrimoniale un peccato grave, i divorziati risposati non possono ricevere la comunione. A meno che non si pentano. E che quindi conseguentemente abbandonino la loro condizione peccaminosa di convivenza more uxorio. Il nodo è tutto qui. E questo nodo il Sinodo dovrebbe provare a sciogliere. Anche perché, paradossalmente, non è tanto l’essere divorziato il vero problema “disciplinare”. Il problema è se il divorziato vive stabilmente con un’altra donna.

I termini del paradosso si possono facilmente comprendere con questo esempio: quando nel 2010 tutti videro in televisione Berlusconi ricevere la comunione ai funerali di Raimondo Vianello, molti si domandarono scandalizzati: ma come, un divorziato che si accosta all’eucarestia? E perché Berlusconi sì e migliaia di altri credenti nella sua stessa condizione invece no? Soccorse la dottrina giuridica di mons. Rino Fisichella, che sul Messaggero spiegò: «Berlusconi, essendosi separato dalla seconda moglie, la signora Veronica, con la quale era sposato civilmente, è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante. Il primo matrimonio era un matrimonio religioso. È il secondo matrimonio, da un punto di vista canonico, che creava problemi». Quindi, finché era un divorziato risposato, Berlusconi non poteva fare la comunione, ma venendo meno la convivenza stabile con Veronica (sposata, ma ovviamente solo civilmente), Berlusconi tornava ad essere un “semplice” divorziato. E come vale per tutti i divorziati non risposati, né conviventi, di cui si presume (fino a prova contraria) la vita casta o comunque non strutturalmente peccaminosa, non esistevano più i motivi oggettivi – olgettine o altro – per rifiutargli i sacramenti. Chiaro, no?

No, in realtà non è chiaro per niente e infatti per molti laici e credenti l’attuale disciplina ecclesiastica (specie poi se paragonata all’indulgenza che le norme ecclesiastiche mostrano nei confronti di altre categorie di “peccatori”) crea scandalo e allontana dalla Chiesa. Tutti comprendono infatti che con le attuali regole a ladri, assassini, stupratori, ecc. la Chiesa – previo pentimento – la comunione la concede. Ai risposati, la cui condizione resterebbe intrinsecamente e permanentemente peccaminosa, invece no. Se a ciò aggiungiamo il fatto che ci sono coppie che riescono a vedere annullato dal Tribunale della Rota Romana il loro matrimonio e che quindi possono sposarsi nuovamente in Chiesa, ed altre che non possono farlo, la contraddizione diventa ancora più stridente. Infatti, al di là delle questioni economiche e dei costi di una causa rotale – che pure contano –, i tribunali ecclesiastici esistono e funzionano solo in alcuni Paesi del mondo, mentre ne sono prive ampie regioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Insomma, c’è una impossibilità reale per molte coppie di dimostrare di fronte al giudice la nullità del proprio legame. E quindi non possono risposarsi pur essendo magari il loro matrimonio effettivamente nullo secondo le leggi canoniche. Ma esso – sempre secondo il diritto canonico – resta comunque valido fino a che non venga provato il contrario.

Discutere per deliberare?

Per tutte queste (ed altre) ragioni, la richiesta che viene da dentro e fuori la Chiesa è da tempo quella di trovare una soluzione che consenta di riammettere i divorziati risposati non nella Chiesa, dalla quale non sono mai stati allontanati, ma all’eucarestia, modificando così la disciplina ecclesiastica ribadita nel 1981 dall’esortazione apostolica Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II, che definiva le nuove unioni «una piaga» e confermava la «prassi, fondata sulla Sacra Scrittura» di escluderli dal fare la comunione. La «riconciliazione nel sacramento della penitenza, che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico», continuava il pontefice «può essere accordata solo a quelli che assumono l’impegno di vivere in piena continenza», ovvero alle coppie di risposati che, pur vivendo sotto lo stesso tetto, rinunciano ai rapporti sessuali.

Legate al tema della famiglia che il Sinodo sta discutendo ci sarebbero poi altre spinose questioni: le convivenze, le nuove famiglie, le famiglie allargate, le coppie gay, i temi posti dai movimenti lgbt. Ma se su questi fronti è vano sperare che nel breve periodo la Chiesa cambi i suoi tradizionali (e tradizionalisti) orientamenti, per i divorziati risposati qualche spiraglio ci sarebbe. Anche perché se la Chiesa non riesce a dare qualche risposta che non sia di pura conservazione sul piano del suo rapporto con il mondo contemporaneo la credibilità della sua istituzione ne verrà ulteriormente minata. E non ci sarà papa Francesco che tenga, a quel punto. Il papa lo sa bene e, pur essendo di formazione teologica saldamente conservatrice, sa anche – da pragmatico e realista quale è – che qualche concessione bisogna pur farla. Ma non sembra – per ora – disponibile a forzare, specie nei confronti di quella parte di episcopato che gli è omogenea culturalmente e dalla quale egli stesso proviene.

Non va infatti dimenticato che Francesco, nell’indicare i padri sinodali la cui nomina spetta personalmente a lui, ha scelto in gran parte ecclesiastici dal profilo nettamente conservatore. Scelta che come tante altre di Francesco si presta a più di una lettura. Lo avrà fatto per dare a tutte le componenti e le sensibilità presenti nella Chiesa la possibilità di confrontarsi in campo aperto, evitando l’accusa di estromettere qualcuno dal dibattito sinodale; o piuttosto con l’intenzione di frenare le spinte troppo innovative che potrebbero venire dal Sinodo e favorire una situazione di stallo?

Di certo al Sinodo non saranno i laici a sparigliare le carte in tavola. I partecipanti sono 253, di cui 192 con diritto di voto e tutti ecclesiastici; i laici sono pochissimi, solo 38. Tra loro, 14 coppie di sposi. Non un granché, per un Sinodo che parla della famiglia…. E di queste 14 coppie 13 sono state invitate come semplici uditrici; solo due coniugi partecipano in qualità di “esperti”. Non votano nemmeno loro, ma sono i collaboratori che affiancano il segretario speciale, che ha – tra gli altri – il compito di curare la sintesi dei lavori. C’è anche una considerazione più generale da fare: molte delle coppie invitate ai lavori del Sinodo sono a capo di organizzazioni cattoliche tradizionaliste, o si occupano di pianificazione familiare naturale. Rappresentano veramente il sentire ed il vissuto delle famiglie cattoliche in giro per il mondo? E non è consolare i laici cattolici “con l’aglietto”, illudendoli di contare qualcosa, l’aver fatto presentare alla conferenza stampa del quinto giorno di Sinodo, per rispondere alle domande dei giornalisti, non cardinali e vescovi come nei giorni precedenti, ma uditori laici? (La risposta, ovviamente, è sì, ma la stampa laica e cattolica hanno subito parlato della “mossa di papa Francesco” che ha spiazzato tutti…).

Indissolubile, ma…

Fatte queste premesse, c’è però una parte del Sinodo che ha un orientamento più “liberal” – o perlomeno non troppo conservatore –, e che oggi ha nel card. Walter Kasper il proprio leader. Kasper, che sul tema della famiglia ebbe dal papa l’incarico di tenere la relazione di apertura ai cardinali riuniti in concistoro nel febbraio 2014, propone da tempo di concedere – dopo un cammino penitenziale, sotto la supervisione di un prete e comunque previa assoluzione – la riammissione dei divorziati all’eucarestia. Nulla di rivoluzionario, quindi, che non mina affatto il concetto (che invece potrebbe essere oggetto di ampia trattazione, anche teologica, ma non lo sarà) di indissolubilità del matrimonio. Solo una proposta di buon senso, dettata dalla prassi già in atto da secoli presso la Chiesa ortodossa, di ammettere seconde e terze nozze (che vengono però considerate diverse dalle prime) e che si fonda anche sull’interpretazione, contestata da teologi ed ecclesiastici conservatori, del canone 8 del Concilio di Nicea del 325, che avrebbe concesso, a certe condizioni, il perdono sia a coloro che avevano fatto apostasia della loro fede durante le persecuzioni che a coloro che si fossero sposati una seconda volta.

La proposta di Kasper ha prevedibilmente scatenato le ire dei conservatori. Un autorevole gruppo di essi – cinque cardinali, un arcivescovo e tre accademici –, in un libro uscito in Italia il 1° ottobre, che si propone di diventare il manifesto della destra sinodale e che è stato significativamente intitolato Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella chiesa cattolica (Cantagalli editore, pp. 304, €16,50), bocciano in toto ogni possibile apertura sul fronte della riammissione dei divorziati risposati all’eucarestia. Kasper, da parte sua, attraverso una serie piuttosto numerosa di interviste e dichiarazioni, da una parte ha rassicurato l’opinione pubblica conservatrice che la sua tesi non minaccia affatto la “verità”, cioè la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, che anche secondo lui non può cambiare, ma solo il modo con cui la Chiesa si relaziona attraverso le sue norme a problemi oggi sempre più diffusi e che non sono più governabili con gli strumenti del passato; dall’altra parte, ha cercato di convincere l’opinione pubblica laica e cattolica che la sua battaglia è la battaglia del papa.

E arriviamo quindi al punto nodale: rispetto al dibattito in corso, ed alle divisioni laceranti che dividono da anni la Chiesa cattolica, che risposta sta dando il papa? Checché ne dica il card. Kasper, si tratta di una risposta per lo meno ambigua, sulla scia di altre che hanno caratterizzato e caratterizzano il suo pontificato. Parole, gesti, nomine di commissioni di esperti che approfondiscano ed elaborino proposte, ma di concreto, poco o nulla. E sì che almeno sulla questione dei divorziati risposati, il papa avrebbe potuto fare piuttosto in fretta (sono almeno venti anni che dal punto di vista pastorale il problema è di dirompente urgenza). Poteva avocare a sé la questione e decidere. Qualcosa di analogo a quello che fece Paolo VI ai tempi del Concilio, quando sottrasse al dibattito dei padri conciliari lo spinoso tema della contraccezione, lo affidò ad una commissione, salvo poi smentire i risultati della stessa commissione, che andavano contro il suo orientamento, ed emanare la celebre enciclica Humanae Vitae che proibiva – e proibisce tuttora – il ricorso ai metodi contraccettivi non “naturali”.

Papa Francesco ha invece deciso di consultare i vescovi attraverso la forma del Sinodo. E non di uno solo, ma di ben due! Sì, perché dopo il Sinodo Straordinario che si sta svolgendo ora in Vaticano nel 2015 ve ne sarà uno ordinario che si occuperà dei medesimi argomenti. Scelta che indica volontà di essere collegiale e non monarchico. E che non può quindi che essere accolta favorevolmente. Salvo la presenza di diversi aspetti poco chiari.

Come mai due Sinodi sullo stesso tema?

A questa domanda non c’è una risposta univoca. Per alcuni, papa Francesco avrebbe voluto dare la più ampia possibilità di confronto e dibattito ai padri sinodali, in maniera da giungere se non ad una mediazione condivisa, per lo meno ad una opzione che possa trovare il massimo sostegno possibile all’interno dell’establishment cattolico.

Il Sinodo è una istituzione permanente del Collegio episcopale della Chiesa cattolica. Istituita da Paolo VI nel 1965 per dare seguito al desiderio dei padri del Concilio Vaticano II di mantenere viva l’esperienza dello stesso Concilio. Può riunirsi in forma ordinaria, straordinaria o speciale. In composizione straordinaria il sinodo è un’assemblea meno numerosa rispetto al Sinodo Ordinario, in cui sono soprattutto in numero inferiore i padri sinodali eletti dalle Conferenze episcopali (quelli, cioè, il cui profilo teologico e pastorale è meno prevedibile), rispetto anche al numero dei padri nominati direttamente dal papa o che partecipano al Sinodo per diritto (in quanto ad esempi capi dei dicasteri di Curia). Secondo le disposizioni del papa, il Sinodo Straordinario ha il compito di stilare una prima agenda di argomenti e proposte che successivamente verranno approfondite dal Sinodo ordinario, che poi consegnerà al papa una serie di proposte operative.

Dietro la scelta di un dibattito in due diverse riprese, potrebbe esservi da parte del papa la consapevolezza che il tema dei divorziati risposati è così esplosivo da richiedere la più ampia collegialità possibile. Il rischio, infatti, potrebbe essere quello di uno scisma, cioè del rifiuto di una minoranza della gerarchia di accettare le decisioni della maggioranza, specie se tali decisioni andranno nella direzione di una revisione dell’attuale disciplina ecclesiastica. Qualcosa di simile, in teoria, a quanto già avvenuto dopo il Concilio Vaticano II con i lefebvriani (tenendo però sempre presente che il Sinodo ha comunque un carattere esclusivamente consultivo. E che ogni decisione spetta poi al papa).

D’altra parte, è anche possibile ipotizzare che il papa abbia scelto appositamente di allungare il più possibile i tempi del dibattito – con due sinodi tutto è rinviato almeno al 2016 –, lasciando che i padri sinodali si scontrino senza prevedibilmente trovare una soluzione condivisa, per poi far ulteriormente decantare la situazione o evitare di prendere una decisione. Se fosse vera questa ipotesi, dal doppio Sinodo il papa trarrebbe l’indubbio vantaggio di veder confermata la sua fama di pontefice aperto ed in ascolto dei tempi, scaricando sull’establishment cattolico litigioso ed incapace di trovare una sintesi la responsabilità della mancata riforma.

In sostegno a quest’ultima ipotesi c’è da aggiungere una considerazione, svolta nei giorni scorsi sul Corriere della Sera dallo storico della Chiesa Alberto Melloni, sul peso che avrà al Sinodo la scelta di non render note le risposte delle Conferenze episcopali al questionario dell’anno scorso. Queste risposte – prevedibilmente favorevoli ad una revisione della disciplina ecclesiastica (visti i gravi problemi pastorali che vivono tante diocesi sul tema dei divorziati e delle nuove unioni) – avrebbero infatti certamente sottratto forza ed autorevolezza alle tesi di chi si oppone strenuamente ad ogni cambiamento.

E ancora: il papa, poco prima che il Sinodo iniziasse, ha insediato una Commissione speciale con lo scopo, recita il comunicato della Sala Stampa vaticana che l’annunciava il 20 settembre scorso, «di preparare una proposta di riforma del processo matrimoniale, cercando di semplificarne la procedura, rendendola più snella e salvaguardando il principio di indissolubilità del matrimonio». Insomma, la Commissione dovrebbe occuparsi di rendere più rapido lo scioglimento del matrimonio. Sicuramente accelerando l’iter canonico; forse (ma le parole con cui l’organismo è stato presentato non sembrano prevederlo) anche allargando le maglie che rendono possibile la dichiarazione di nullità. Ma non era un tema che poteva e doveva discutere il Sinodo? Sottrarlo al dibattito dei padri sinodali ed affidarlo ad una commissione aiuta il libero dibattito o indica a priori una exit strategy che il Sinodo difficilmente potrà ignorare nell’elaborare le sue proposte?

Inoltre, se da una parte Francesco ha invitato i vescovi – ricevendo sui media la solita roboante amplificazione delle sue parole – ad essere schietti ed a dire senza timore ciò che si pensa, anche quando si ritiene che possa non coincidere con gli orientamenti del papa, dall’altra la scelta della Sala Stampa Vaticana (e quindi, in ultima analisi, del papa stesso) è stata sinora quella di mettere la sordina al dibattito dei padri sinodali, comunicando alla stampa solo una sintesi sommaria di quanto detto dagli oratori durante il dibattito, senza mai dire “chi” ha detto “cosa”, cioè quale vescovo o cardinale ha sostenuto questa o quella tesi o opzione pastorale, ma sempre utilizzando formule con soggetto impersonale, tipo: «È stato auspicato…»; «Si è sottolineato…»; «È emersa la necessità…». E sempre senza virgolettati. Non era così nei precedenti Sinodi, nei quali la Sala Stampa pubblicava tutti i testi, con i relativi autori, che venivano letti durante i lavori.

Insomma, per ora il “nuovo corso” pare assomigliare molto a quello precedente. Cambiano le forme, molto accattivanti, ma dietro di esse e dietro gli annunci la sostanza resta ancora la stessa di sempre.